Ragioni e forme della politica nell’età contemporanea
Farò alcune (poche) considerazioni sui problemi che lo studio del pensiero politico incontra confrontandosi con la democrazia, cioè con una forma o un sistema politico che da quando ha assunto tale definizione non solo è stato (come è ancora oggi) «divisivo» per i suoi protagonisti, rappresentando, già nel V secolo a. C., il conflitto dei ceti elevati contro il potere (cratos) del popolo (demos), ma ha sempre respinto classificazioni rigide da parte dei suoi interpreti.Un sistema, cioè, che per la sua sussistenza pretende sempre, da un lato, il difficile esercizio pratico di princìpi astratti (dalla libertà all’uguaglianza, alla giustizia sociale, alla partecipazione, ecc.) e, dall’altro, richiede il definirsi e articolarsi di istituzioni depersonalizzate e, in realtà, sempre scarsamente adeguate a rappresentare la cosiddetta sovranità del popolo.
Oggi, ma non da oggi, è sotto gli occhi di tutti l’impetuoso crescendo di studi e di saggi (in verità, di vario rilievo scientifico) volti a cogliere nei nostri sistemi liberal-democratici elementi di crisi particolari e rilevanti, oppure, e in modo più complesso, volti a definire di tale crisi le più profonde ragioni storiche e politiche[1]. Sono, cioè, in pieno sviluppo (e non sappiamo fino a quando) tante narrazioni della democrazia nella sua versione otto-novecentesca che nel loro insieme paiono voler rispondere alla vecchia richiesta di Giovanni Sartori di leggere la democrazia stessa come una «parola che sta per lunghi discorsi»[2]. Ormai, la democrazia, che è – non dimentichiamolo – parola della politica per raffigurare una forma del potere, non è più un sostantivo autonomo, ma ha acquisito di volta in volta un diverso significato sulla base dell’aggettivazione che la accompagna (contro, post, ecc.). Peraltro, le indagini recenti non muovono più, come si esprimeva Bobbio in un fortunato saggio, apparso in prima edizione nel 1984, dal bisogno di chiarire le ragioni di un grave fenomeno in corso, cioè «il divario tra gli ideali e la democrazia reale», o, come in genere si argomentava, dal bisogno di chiarire le ragioni del divario tra democrazia formale e democrazia sostanziale, dovuto alla persistenza delle stesse oligarchie al potere. Infatti, in quegli anni con Bobbio e con gli altri si voleva denunciare la progressiva e imprevista scissione tra princìpi etico-giuridici e prassi politiche che le costituzioni sociali dell’ultimo dopoguerra avevano inutilmente tentato di sanare o, almeno, di esorcizzare[3]. Diversamente, negli attuali saggi critici si tende sempre più a prescindere dal duplice significato costitutivo dei recenti sistemi liberal-democratici: quello normativo e quello procedurale e tecnico; si è affermata, invece, l’idea che entrambi tali significati, ciascuno per suo conto o connessi tra loro, siano in crisi e quindi vadano analizzati in modo unitario.
L’eccedenza attuale, appena accennata, di studi sulla democrazia dovrebbe indurci a considerare l’oggetto delle nostre indagini, il pensiero democratico, per quello che è: una delle parti strutturanti dell’esperienza democratica; quindi, solo parte di un’esperienza che, per i molteplici fattori istituzionali e umani che coinvolge, è sempre problematica e in divenire. Invece, varie volte capita che le idee politiche vengano estrapolate da quadri generali politico-istituzionali con il rischio di cedere alla tentazione di fare di una parte il tutto di un discorso (come in una sorta di sineddoche), assolutizzando realtà pubbliche e sociali che le idee non possiedono nella loro interezza. E’ stato, a mio avviso, proprio il caso della impegnativa tesi sulla «fine della storia» espressa brillantemente, dalla fine degli anni ’80 dello scorso secolo, da Francis Fukuyama, il quale non ebbe la dovuta accortezza di presentarla come ipotesi pur importante e molto elaborata. Fukuyama nel suo noto saggio, attirandosi il consenso di influenti circoli politici conservatori, mostrava come la democrazia (o, meglio, la forma storica della liberaldemocrazia) stava per rappresentare, e non poteva non rappresentare, l’approdo definitivo di un lungo processo politico-costituzionale e culturale nel quale si erano, di volta in volta, eliminati precedenti modelli alternativi di convivenza politica e si andava globalizzando la forma di governo preminente nell’Occidente[4]. Pareva, in altre parole, che «l’inarrestabile» rivoluzione democratica prevista da Tocqueville vedesse finalmente il suo compimento e che nell’espandersi dei regimi democratici si soddisfacesse l’idea cosmopolitica di Kant sulla naturale e necessaria tendenza dell’umanità ad acquisire diritti universali. La tesi di Fukuyama, allievo di Alexandre Koiéve, derivava da una estremizzazione dell’idea hegelo-marxiana che la storia stessa (o, meglio, un’idea che si ha di essa) ha plasmato e premiato il processo di affermazione della democrazia, sopra e contro la varietà di volontà ed esperienze politiche espresse e vissute dagli uomini in successive epoche storiche.
In realtà, però, già agli inizi del nostro terzo millennio, quando lo stesso Fukuyama ha preso le distanze dalla sua profezia e proprio quando la storia si è incaricata di smentire la sua imminente fine, si registrano, invece e paradossalmente, vari e significativi segnali che denunciano una sorta di condizione di stagnazione della democrazia nelle sue procedure e nei suoi ideali. Si constata sempre meglio che alle ripetute ricognizioni quantitative sull’espandersi della forma di governo democratica sfugge qualcosa: infatti, non è sempre possibile accertare fino in fondo se nei più recenti e numerosi regimi che si autodefiniscono democratici, perché consentono lo svolgimento con qualche decoro di regolari elezioni, si perseguano con determinazione le pratiche e gli ideali necessari per la salvaguardia delle condizioni di libertà e di uguaglianza che connotano la cittadinanza democratica. Si verifica, cioè, che sull’onda lunga della decolonizzazione novecentesca crescevano e crescono regimi «ibridi» di cui è difficile misurare il tasso di democraticità. E ancora: si prende atto – talora dolorosamente – che, con la caduta del muro di Berlino e l’uscita di scena del comunismo (il terribile nemico delle democrazie occidentali!), è finito il tempo lungo della guerra fredda, quando per circa un quarantennio è stato del tutto ovvio, attraverso semplificazioni con poche smentite, distinguere le democrazie dell’Ovest dalle dittature dell’Est del globo, e che quel che è seguito negli assetti dei sistemi occidentali ha prodotto progressive disillusioni. In altre parole: si fa decisamente strada, anche nei solidi contesti europeo e statunitense, l’idea che la disillusione verso la democrazia abbia la sua ragione essenziale nella crisi che ha colpito la stessa politica democratica e le stesse componenti del progetto democratico: la sovranità popolare, i princìpi di libertà e uguaglianza, la partecipazione, la legalità e, soprattutto, la rappresentanza politica. Siamo di fronte alla contraddizione che colpisce l’espandersi globale delle forme democratiche di fronte al loro deperimento. Credo, quindi, che si possa condividere quanto scrive Pierre Rosanvallon in modo conclusivo e, cioè, che: «L’ideale democratico regna ormai incontrastato, ma i regimi che vi fanno riferimento suscitano quasi ovunque aspre critiche. [Questo] è il grande problema politico del nostro tempo»[5].
E, in effetti, a seguito di un esame delle condizioni nelle quali versano oggi i capisaldi istituzionali della democrazia – il nesso tra la rappresentanza politica e la cittadinanza, il principio di maggioranza, il suffragio universale – Colin Crouch non ha dubbi nel definire le attuali trasformazioni come fasi mature di «uno slittamento verso la postdemocrazia». Quel che interessa in questa sede delle note tesi di Crouch è che egli, in qualche modo, per fare fronte al presente degrado delle democrazie (e esamina quella inglese e quella italiana) non si affida ai tradizionali rimedi dell’ingegneria costituzionale bensì disegna un’articolata strategia idonea, a suo avviso, a fronteggiare sul piano politico ed economico le nuove élite e a riformare prassi e abitudini sociali dei cittadini; in tal modo, lo studioso afferma la sua radicale sfiducia nella capacità della democrazia di autoemendarsi con strumenti giuridici: in sostanza, denuncia la cronica insufficienza e l’irrimediabile deperimento del modello parlamentare della democrazia[6]. A sua volta, muovendo da un’analisi della democrazia più centrata sul declino dei tradizionali poteri esercitati nelle liberaldemocrazie dalle rappresentanze politiche e quindi dei processi che dal popolo sovrano si sviluppano nel controllo delle istituzioni, il ricordato Rosanvallon ricava la cruda convinzione che si vanno esprimendo, tra gli individui come nelle associazioni, forme di attivismo civico attraverso le quali si riescono a dare straordinari segnali di vitalità, anche esibendo una motivata sfiducia verso le istituzioni, fino a prefigurare l’affermarsi di una contro-democrazia, cioè «una sorta di contro-politica fondata sul controllo, l’opposizione, l’umiliazione di quei poteri che non si ha più voglia di far oggetto prioritario di conquista»: una contro-politica che non apprezza poteri e istituzioni della democrazia, proprio mentre si amplia e si trasforma l’orizzonte delle responsabilità alle quali questi ultimi devono far fronte, dalle crisi globali della finanza alle questioni ecologiche[7].
Si constata facilmente che Crouch e Rosanvallon (come la pressoché intera sequela degli analisti della crisi democratica), sono sulla stessa lunghezza d’onda nel denunciare la riduzione della democrazia a mere procedure cui fa riscontro la incombente personalizzazione populistica dei ruoli politici come l’abuso degli strumenti mediatici per l’acquisizione del potere. Pare quasi che siano emersi risvolti imprevisti e devastanti per i princìpi di uguaglianza, libertà e giustizia sociale dalla riduzione procedurale usata con altri intenti da Schumpeter nel definire la democrazia unicamente come «strumento istituzionale per giungere a decisioni politiche, in base al quale singoli individui ottengono il potere di decidere attraverso una competizione che ha per oggetto il voto popolare»[8]. Ma la frattura più grave che i vari Crouch, Rosanvallon e altri rilevano riguarda la crisi che si consuma senza tregua nel rapporto tra i cittadini e la rappresentanza politica e tra quest’ultima e i vari soggetti collettivi che operano nelle democrazie parlamentari (dai partiti, ai sindacati, agli interessi organizzati). Paventano, cioè, una situazione di degrado senza soluzione, perché si sta perdendo quella conquista generalizzata del diritto politico ad essere rappresentati che, prima nello Stato di diritto e poi nello Stato democratico, ha sancito la progressiva parificazione di soggetti diversi nell’esercizio delle prerogative democratiche, a iniziare da quelle preposte al controllo e all’indirizzo dei governi.
Come studiosi del pensiero politico e, quindi, delle permanenze e delle variazioni che intervengono nella concettuologia politica (sia ideologica che analitica), sappiamo che la denuncia di tale frattura non è nuova, essendo costante il rimpianto e il richiamo a quella «forma pura o diretta» di democrazia che peraltro, come annotava Joseph De Maistre, ha fatto la sua apparizione solo in qualche momento della Rivoluzione francese come «una fugace meteora il cui fulgore esclude qualsiasi durata»[9].
Questa situazione nella sua sostanza (come sanno gli storici) non è inedita ma presenta notevoli analogie con quella già emersa in modo grave, seppure con modalità proprie e particolari, di fronte alla grave crisi dei rapporti tra soggetti sociali e politici (partiti e interessi costituiti) e Parlamento, nella prima parte del Novecento. Esplodeva allora la grave questione denunciata verso la fine del conflitto mondiale da Max Weber nel suo Parlament und Regierung quando affermava che «parlamentarizzazione e democratizzazione non stanno necessariamente in correlazione tra loro, bensì spesso in antitesi tra loro»[10]. Tale questione, che trovava posto nella corposa analisi weberiana della triangolazione di rapporti tra le forme burocratiche dello Stato, il governo e il parlamento, era già posta nel primo decennio del secolo da Léon Duguit. Questi nella scia delle analisi sociologiche di Émile Durkheim, si era opposto in ogni modo alla grande rappresentazione che lo Stato liberale dava di se stesso attraverso la «celebrazione della sovranità popolare e della legge del numero», postulando l’alternativa antiparlamentare di dare una struttura rappresentativa diretta alle classi sociali, cioè a quegli individui che erano «già uniti dall’eguaglianza delle funzioni nella divisione del lavoro sociale»[11]. Il dictum di Weber fu ripreso pressoché alla lettera da Hans Kelsen qualche anno dopo, quando annotò che «parlamentarismo e democrazia non sono la stessa cosa», ma precisava che, con la progressiva espansione dei diritti politici, era ipotizzabile solo un’alternativa: cioè «una democrazia anche senza parlamento: la cosiddetta democrazia diretta […] la formazione cioè della volontà statale nell’assemblea del popolo»[12]. Per il giurista praghese l’astrattezza di tale alternativa non consisteva unicamente nella sua accertata impraticabilità in sistemi politici complessi, ma derivava dalla considerazione non retorica del processo storico e dottrinario che, tra il XVIII e il XX secolo, aveva visto convergere la lotta per la libertà con quella per le istituzioni della rappresentanza politica. Kelsen si diceva convinto che solo nella democrazia liberale, con la «creazione dell’ordinamento statale» e del sistema «parlamentaristico», si erano stabiliti i diritti di libertà e i principi di ordine per la coesistenza sociale. In sostanza, per Kelsen la questione weberiana si risolveva concependo «il parlamento come un indispensabile compromesso tra l’idea assoluta di libertà politica e il principio della divisione differenziale del lavoro»[13]. Kelsen polemizzava principalmente con le dichiarazioni sul fallimento delle esperienze parlamentari formulate da Carl Schmitt, al quale imputava di avere alimentato verso l’azione parlamentare delle incongrue aspettative, come «lo scaturire di una verità, di un valore politico in qualche modo assoluto»[14]. Al contrario, per Kelsen la vita dei parlamenti era regolata dalla «antitesi-dialettica» tra i partiti che produceva inevitabilmente dei «compromessi», dai quali era lecito attendersi, volta per volta, solo una «approssimazione» alle aspettative di libertà e di conquiste civili: questo perché per Kelsen le aspettative di Schmitt discendevano da una visione «metafisica» e, quindi, irreale e tendenzialmente totalitaria della democrazia.
La duplice e alternativa prospettiva incarnata da Kelsen e da Schmitt (e da tanti altri) non trovò una composizione democratica: alla fine della Grande Guerra in Europa il pensiero liberal-democratico non diede (né si mostrò in grado di dare) risposte univoche ai progetti politici di democratizzazione, quando non di demolizione, del sistema liberal-borghese; si trattava, infatti, di verificare in un quadro normativo per buona parte inedito l’azione di disciplinamento dello Stato con gli indirizzi e le resistenze che emergevano dalle organizzazioni politico-sindacali e territoriali della società e che si coagulavano in modo contraddittorio nelle istituzioni. Nonostante si fosse avviato un dibattito di altissimo livello sui temi della sovranità e della rappresentanza, per ragioni sociali e anche per la mancanza di forti difese costituzionali, in alcuni paesi europei, e in Italia prima che in altri, le democrazie liberali cedettero ai regimi autoritari e totalitari. Oggi, nonostante le analogie con il passato non sembrano esserci pericoli imminenti di questo tipo, pur avvertendo tutti con timore il vento gelido che soffia da più parti per la incapacità delle nostre democrazie sociali a rispondere in modo adeguato alle questioni sollevate dalle migrazioni come dai fanatismi religiosi, dai danni climatici come dalla crisi degli appigionamenti energetici. Spesso non si avverte con sufficiente lucidità che nella realtà del neoliberalismo e della globalizzazione è sempre più urgente almeno affiancare alla riflessione politica (tradizionale o innovativa che sia) competenze non superficiali in materia economica e sulle questioni internazionali.
Nelle esperienze più recenti per contrastare il diffuso deficit di partecipazione e di politica, nell’America del Nord e in alcuni paesi europei, si è aperto un dibattito sull’utilità di avviare forme di «democrazia deliberativa», cioè di dotare di un carattere deliberativo alcuni processi decisionali che si svolgono in specifiche comunità di cittadini, alle quali è delegata una quota di potestà da parte di istituzioni rappresentative. Mentre si esplicita in questo modo un atto di fiducia verso il popolo e verso la sua capacità di determinare da solo l’agenda delle proprie scelte politiche, si richiama anche il precetto di Rousseau che la democrazia si celebra solo realizzando il diritto ad obbedire alle leggi che ciascuno ha contribuito a dare alla propria comunità. Ma il tracciato che ha iniziato a segnare la democrazia deliberativa appare ancora incerto e non privo di rischi, mentre è ormai pressoché accertato che nella società i partiti perdono sempre più le tradizionali funzioni di integrazione e di mediazione degli interessi, vedendo svanire il loro ruolo di generatori di identità politiche collettive. Il cittadino, a sua volta, non rappresenta più il modello borghese dell’homme situé, ma ha ceduto il posto al cittadino-elettore ed è entrato a far parte della massa del «pubblico», determinando le condizioni per la nascita della «democrazia del pubblico», nella quale il consenso politico si produce attraverso il rapporto non mediato dai partiti tra leader e opinione pubblica e quest’ultima si trasforma in una sorta di canale nel quale trascorrono e si consolidano i progetti delle leadership «personali»[15].
Ma se la democrazia nella nostra contemporaneità è il luogo pubblico per eccellenza dove gli individui e le comunità con le loro prestazioni guadagnano la loro cittadinanza oppure dove le capacità dell’uomo possono dispiegarsi liberamente, allora sono da attivare tutte le strategie possibili per salvaguardarla, avendo presente il suo carattere problematico e difficile da normare[16]. Da un lato, esiste e (bene o male) è perseguita la via di rendere più agili i rapporti tra le istituzioni per fare discendere da esse un paio di princìpi costitutivi del vivere in comune: l’impossibilità (liberale) di monopolizzare il potere politico e, insieme, la salvaguardia (democratica) dell’autonomia del giudizio pubblico. Da un altro lato, se si è consapevoli che la democrazia si basa su princìpi strutturali, quali quello di libertà e di uguaglianza, oggi c’è da rispondere, muovendo da vari punti di vista, a quel dilemma che ha preso il nome dal suo autore Ernst-Wolfgang Böckenford, e cioè che lo Stato liberale (freiheitlich) secolarizzato ha vissuto di presupposti che non esso stesso è stato in grado di garantire. Questo è il grande rischio che la democrazia si è assunto per amore della libertà: essa può esistere come democrazia liberale solo se la libertà, che essa garantisce ai suoi cittadini, si regola dall’interno, vale a dire a partire dall’educazione morale del singolo e dall’omogeneità della società[17]. Ma, se la democrazia cerca di garantire da sé queste forze regolatrici interne attraverso i mezzi della coercizione giuridica e del comando autoritativo, essa rinuncia alla propria liberalità e ricade – su un piano secolarizzato – in quella stessa istanza di totalità da cui si era tolta con tutte le guerre civili e confessionali.
Personalmente ritengo che sia importante per le nostre democrazie dare risposte al dilemma se pensiamo ai conflitti sui cosiddetti valori che dividono le società occidentali – scienza, tecnologia, vita sessuale, famiglia – e se vogliamo aggiornare in continuità la nostra cultura democratica. Il mio punto di vista è quello della difesa della laicità e del quadro costituzionale che consente ad ognuno di far valere la voce in un contesto di regole. Questo perché sono convinto che le nostre democrazie siano gli unici sistemi che possono essere migliorati «senza spargimenti di sangue»[18].
Nicola Antonetti*
Scarica questo contenuto in pdf.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
- Bobbio Norberto, 1995, Il futuro della democrazia. Einaudi, Torino.
- Böckenförde Ernst-Wolfgang, 2007, Diritto e secolarizzazione. Dallo Stato moderno all’Europa unita, a cura di G. Preterossi. Laterza, Roma-Bari.
- Crouch Colin, 2003, Postdemocrazia. Laterza, Roma-Bari.
- Dahrendorf Ralph, 2001, Dopo la democrazia. Laterza, Roma-Bari.
- de Maistre Joseph, 1924, Études sur la souveraineté. In œuvres complètes de Joseph de Maistre, vol. I. Vitte et Perussel, Paris.
- Duguit Léon, 1950, Il diritto sociale, il diritto individuale e la trasformazione dello Stato (1910). La Nuova Italia, Firenze.
- Fioravanti Maurizio,1986, Kelsen, Schmitt e la tradizione giuridica dell’Ottocento. In Crisi istituzionale e teoria dello Stato in Germania dopo la Prima guerra mondiale, a cura di G. Gozzi e P. Schiera, 51-104. Il Mulino, Bologna.
- Fukuyama Francis, 1992, The End of History and the Last Man. Free Press, New York.
- Kelsen Hans, 1995, La democrazia (1925), trad. it. di M. Barberis. Il Mulino, Bologna.
- Luhmann Nicklas, 1977, Sociologia del diritto. Laterza, Roma-Bari.
- Manin Bernard, 2010, Princìpi del governo rappresentativo. Il Mulino, Bologna.
- Nussbaum Martha, 2004, Giustizia sociale e dignità umana. Da individuo a persona. Il Mulino, Bologna.
- Petrucciani Stefano, 2014, Democrazia. Einaudi, Torino.
- Rosanvallon Pierre, 2009, La politica nell’era della sfiducia. Città Aperta, Troina.
- Salvadori Massimo Luigi, 2015, Democrazia. Storia di un’idea tra mito e realtà. Donzelli, Milano.
- Sartori Giovanni, 1994, Democrazia: cosa è. BUR, Milano.
- Schmitt Carl, 1998, Parlamentarismo e democrazia. Marco Editore, Lungro di Cosenza.
- Schumpeter Jospeh, 1994, Capitalismo, socialismo e democrazia (1943). Etas, Milano.
- * Nicola Antonetti, Professore ordinario di Storia delle dottrine politiche SPS/02, Università di Parma. Email: nicola.antonetti@unipr.it
- [1] Si veda, per tutti, il panorama teorico e politico della storia occidentale nel quale si è inserita la questione della democrazia, tracciato da S. Petrucciani, 2014 e ora M. L. Salvadori, 2015.
- [2] G. Sartori, 1994, 18.
- [3] Cfr. N. Bobbio, 1995.
- [4] Fukuyama pubblicò prima, nell’estate del 1989 (ancora prima della caduta del muro di Berlino) un saggio The End of History? su «The National Interest», solo nel 1992 pubblicò il volume The End of History and the Last Man.
- [5] P. Rosanvallon, 2009, 11.
- [6] C. Crouch, 2003.
- [7] Rosanvallon, 2009, 301-304.
- [8] J. A. Schumpeter, 1994, 252.
- [9] J. de Maistre, 1924, 495.
- [10] M. Weber, 1982, 95.
- [11] L. Duguit, 1950, 123.
- [12] H. Kelsen, 1995, 156.
- [13] Ivi, 158-163.
- [14] Ivi, 184. Per i fondamentali temi sui quali si svilupparono i rapporti e le polemiche tra i due giuristi si veda M. Fioravanti, 1986, 51-104. Per le posizioni di Carl Schmitt si veda 1998, spec. 13-20.
- [15] Si veda per tale denominazione il recente saggio di B. Manin, 2010.
- [16] Si vedano innanzitutto, N. Luhmann, 1977 e M. Nussbaum, 2004.
- [17] E.W. Böckenförde, 2007.
- [18] R. Dahrendorf, 2001, 3.
deliberative democracy, democracy, participation, post-democracy, representation