Islam e modernità: Slavoj Žižek e Michel Onfray a confronto

Il 13 novembre 2015, Parigi è tornata ad essere bersaglio del terrorismo islamico. Gli attacchi hanno provocato centotrenta vittime di ventisei diverse nazionalità, oltre ad alcune centinaia di feriti.L’attentato, rivendicato dal movimento noto come Isis (Islamic State of Iraq and Syria) tramite la propria rivista digitale Dabiq e il social network Twitter, si registra come il secondo più grave atto terroristico nei confini dell’Unione Europea e la più cruenta aggressione in territorio francese dai tempi della seconda guerra mondiale. La tensione è rimasta alta anche nei primi mesi del 2016, in particolare dopo gli attentati che il 22 Marzo hanno colpito Bruxelles, causando oltre trenta morti e un gran numero di feriti. In seguito ad eventi di tale portata, il tema del terrorismo è tornato al centro dell’attenzione internazionale, come già accaduto dopo i fatti del Gennaio 2015, uno su tutti l’assalto alla sede di Charlie Hebdo, definiti da Michel Onfray «il nostro 11 Settembre»[1]. Su questa e altre tematiche collaterali, come immigrazione e multiculturalismo, si costruisce gran parte dell’odierna propaganda politica e mediatica, oltre all’eterno dibattito che anima politici, giornalisti, filosofi, scrittori e tutti coloro che si candidano a diventare opinion leader, ruolo assunto da quanti cercano di guidare ed influenzare con le proprie idee l’immaginario collettivo.

Lo scenario da analizzare si presenta come un complesso groviglio di cause ed effetti, molte delle quali strumentalizzate, ignorate o mal interpretate. Tuttavia le difficoltà interpretative non possono e non devono essere di impedimento all’analisi, poiché, come evidenzia Slavoj Žižek, «il richiamo alla complessità del contesto si presta a giustificare qualsiasi cosa, perfino il nazismo»[2]. Gli attacchi messi in atto negli ultimi mesi sono «frutto di un preciso programma religioso e politico, […] parte di un disegno ben più ampio. È ovvio che non si debba […] soccombere a una cieca islamofobia – occorre però avere il coraggio di analizzare questo disegno senza infingimenti»[3] per comprendere pienamente la realtà. «I problemi del mondo islamico […] derivano dalla brusca apertura alla modernizzazione occidentale, il che non ha permesso che fosse “elaborato” il trauma del suo impatto»[4]. Gli unici risultati possibili di questo incontro/scontro erano «una modernizzazione superficiale, […] destinata alla rovina»[5]; oppure «il ricorso diretto […] alla guerra assoluta tra la Verità dell’Islam e la Menzogna dell’Occidente»[6], processo che, attraverso le tappe del risveglio, riformismo e radicalismo, ha dato vita alla «soluzione fondamentalista (che è un fenomeno moderno, privo di legami diretti con le tradizioni islamiche)»[7]. Tuttavia «l’accesso diretto alla Verità è impossibile»[8]: «non è possibile scegliere direttamente il “vero significato”, in quanto bisogna cominciare facendo la scelta “sbagliata”; […] il vero significato speculativo emerge solo mediante la lettura ripetuta, come conseguenza (o effetto secondario) della prima lettura, quella “errata”»[9]. Verità e menzogna sono strettamente connesse, così come il mondo islamico e l’Occidente, il terrore islamista e il liberalismo occidentale, ed è per questo che «chi non è disposto a criticare la democrazia liberale dovrebbe anche tacere sul fondamentalismo religioso»[10]. Non è possibile comprendere l’uno senza analizzare l’altro, ed è così che la società occidentale dovrebbe agire nei confronti dell’Islam, al fine di cogliere la «inadeguatezza del nostro tradizionale modo di concepirlo»[11].

«In Occidente, l’innegabile ritorno del religioso ha assunto la forma dell’Islam»[12]. Questo ritorno dovrebbe essere pensato «al di là delle passioni, senza odio e senza deferenza, senza disprezzo e senza accecamenti, senza condanne o amori pregiudiziali. Solo per capire»[13]. L’Occidente ha l’obbligo di ragionare sulle proprie responsabilità ed elaborare l’inefficacia delle soluzioni adoperate nel contrasto con universi divergenti, in particolare con il mondo arabo-islamico. Questo non vuol dire esimersi dal criticare, ma farlo in modo responsabile e proficuo, dedicandosi anche alla propria analisi. Acquisire la consapevolezza che dai nostri pensieri e dalle nostre azioni dipende non solo il mondo nel quale viviamo, ma soprattutto la civiltà che lasceremo in eredità a quanti verranno dopo di noi. Realizzare la futilità dell’agire sempre e solo per il proprio tornaconto, e ricercare nella comprensione e soddisfazione dell’Altro la completezza di sé stessi.«Pensare l’Islam non ha bisogno di alcuna legittimazione, se non il desiderio di pensarlo liberamente»[14].

 

 

  1. Il fondamentalismo islamico: una moderna utopia

 

In seguito all’attacco a Charlie Hebdo del 7 Gennaio 2015, Žižek ha scritto:

 

Ora che siamo tutti sotto shock […] è il momento giusto per armarsi di coraggio e pensare. […] Ragionare a freddo non è di per sé garanzia di maggiore obiettività, ma, al contrario, normalizza la situazione e ci porta a schivare la punta acuminata della verità[15].

 

Di fronte ad eventi simili è importante «ragionare a caldo» e soprattutto «pensare a fondo»[16], il che significa «andare oltre le patetiche manifestazioni di solidarietà universale»[17], considerate da Žižek il «trionfo dell’ideologia»[18], ed evitare qualsiasi «dozzinale relativizzazione del crimine»[19]. Ciò che conta è accompagnare l’analisi della «crisi della nostra contemporaneità» ad «uno sguardo rivolto alla storia»[20], pensiero condiviso da Onfray:

 

si può rifiutare sia la compassione che impedisce di pensare, sia la complicità con chi vuole impedire di pensare a colpi di kalashnikov. Pensare, appunto, significa chiedersi come si è arrivati fino a questo punto. Per farlo […] facciamo un po’ di storia, che è sempre il rimedio migliore contro il patetico[21].

 

Per questo appare necessario, nel tentativo di comprendere il terrorismo motivato dall’ideologia di matrice religiosa, interrogarsi sui processi storici, e non solo, che hanno portato alla nascita del fondamentalismo, termine utilizzato per designare «movimenti e gruppi di diversa matrice religiosa»[22], compresa quella islamica. Esistono «diversi fondamentalismi, a seconda dei diversi contesti culturali e religiosi»[23], i quali indicano «persone e idee che in vario modo si rifanno a una dottrina religiosa o una tradizione sacra»[24], mettendo in atto «atteggiamenti […] di chiusura nei confronti della modernità»[25]. Oltre le varie differenze ideologiche e pratiche che li contraddistinguono, punto centrale di ogni fondamentalismo è «la rilevanza del tema della politica»[26].

 

Il fondamentalismo è infatti un tipo di pensiero e di agire religioso che si interroga sul vincolo etico che tiene assieme le persone che vivono in una stessa società, sentita come totalità di credenti impegnati in quanto tali in ogni campo dell’agire sociale. Essi si pongono in modo radicale il problema del fondamento ultimo, etico-religioso, della polis: la comunità politica che prende forma nello Stato deve fondarsi su un patto di fraternità religiosa[27].

 

I fondamentalisti tentano di «ricollocare al centro della vita sociale la funzione integratrice della religione»[28] e di ristabilire «il primato della legge religiosa su quella positiva, umana»[29], edificando le proprie credenze sulla «verità assoluta che si ritiene contenuta in un messaggio religioso»[30]. Tale messaggio è considerato «“non creato” ed eterno»[31], quindi impossibile da interpretare liberamente e da collocare o adattare storicamente, costituendo «un vero e proprio mito delle origini»[32]. Spesso, davanti al «potere che si rifiuta di accettare il punto di vista fondamentalista»[33], il ricorso ad azioni di protesta, scontri politici, e nei casi peggiori «forme di lotta armata clandestina»[34], rappresentano una scelta obbligata per i militanti fondamentalisti. Il tutto inquadrato nella «sindrome del Nemico»[35], sia interno che esterno, da ostacolare per «non smarrire l’identità collettiva minacciata da una società sempre più individualista e adagiata sul permissivismo e relativismo morali»[36].

Contemplando il possibile confronto con un nemico esterno, ne consegue che alcuni fondamentalismi nacquero dal contatto tra diversi contesti politico-culturali, idea condivisa da Biancamaria Scarcia Amoretti anche per il caso islamico. Secondo la islamologa, in seguito ai processi interculturali tra Occidente ed Oriente, si è sviluppata una «opera di riflessione sull’Islam»[37], la quale si postula come la «risposta ad un attacco esterno»[38], un’apologia indotta che «ha alla sua origine un elemento negativo»[39]. Se durante il Medioevo e fino alla rivoluzione industriale, seppure «improntato all’ostilità e alla rivalità in vari campi»[40], il contatto tra Paesi islamici ed europei si poneva su di un piano di sostanziale parità, sul riconoscimento dell’esistenza e della dignità reciproca, diversa ma innegabile, un cambiamento radicale si è verificato «dalla fine del XVIII secolo»[41]. A partire da questo momento, il rapporto tra le due civiltà venne impostato sulla presunta «superiorità culturale prima ancora che tecnologica e scientifica»[42] dell’Europa, e sulla «cosciente volontà europea di prevaricare ed asservire il mondo musulmano (non solo quello, beninteso) in funzione dei propri vantaggi economici»[43].

Su queste e altre convinzioni trova fondamento «quel fenomeno storico e sociale a cui diamo il nome di modernità»[44], considerata arbitrariamente l’unica possibile, e per questo universalizzata ed imposta, «tramite le imprese coloniali, […] su scala planetaria»[45]. In risposta agli effetti del colonialismo, «stimolo traumatico di provenienza esterna»[46], riflettendo sul ruolo dell’Islam in quanto matrice culturale più autentica, il mondo musulmano ha sviluppato varie reazioni che vanno dal netto rifiuto alla totale apertura all’Occidente, oltre a forme intermedie basate sulla «ricerca di un dialogo e di una mediazione»[47] tra le parti. Tale soluzione, indicata già agli inizi del ‘900 dai primi «modernisti islamici», propone una «nuova lettura del Corano, in cui si opera una distinzione fra piano reale e piano ideale»[48], nel tentativo di perseguire «una via islamica alla modernità»[49]. Tra queste e altre costruzioni ideologiche prende forma il fondamentalismo islamico, fenomeno prodotto dell’azione di «movimenti che cercano di ristabilire l’ordine ideale della Città islamica, in cui religione, società e politica erano strettamente legate tra loro»[50], sviluppatosi in «fasi storiche diverse»[51]: età del risveglio, del riformismo e del radicalismo.

Il risveglio è la corrente che «tra il XVIII e il XIX secolo si manifesta nelle aree periferiche degli imperi musulmani»[52]. Esso è la risposta alla «crisi socio-religiosa»[53] che colpì gli imperi ottomano, indiano e persiano «a causa della pressione delle potenze coloniali europee e della concomitante crisi economica e demografica»[54]. Tra i diversi movimenti del risveglio, il più importante è il wahhabismo, fondato nell’Arabia centrale da Muhammad ‘Abd al Wahhab (1705-1787), che troverà i propri custodi nella tribù dei Sa’ud, governanti dell’attuale Regno dell’Arabia Saudita. Tali gruppi, nonostante i tentativi di ritornare «a un Islam “puro” e liberato da tutte le innovazioni riprovevoli»[55], non riusciranno a «produrre mutamenti strutturali nelle istituzioni e nella stessa dimensione religiosa dell’Islam»[56], mostrandosi «incapaci di oltrepassare lo stretto confine tribale»[57] e periferico nel quale si sono formati. Tuttavia le riflessioni sulla loro esperienza apriranno la strada al riformismo.

Il riformismo, anch’esso risposta alla decadenza arabo-islamica e all’ascesa europea, nasce «nel cuore dell’impero musulmano»[58] con lo scopo di «ridimensionare la supremazia occidentale»[59], concentrandosi sul «problema dell’arretratezza musulmana in campo politico, militare e tecnologico»[60]. La sua corrente principale è il salafismo, fondata dal persiano Jamal al-Din al-Afghani (1839-1897) «all’interno dell’ottomanesimo»[61]. Pur conservando aspetti del risveglio, i riformisti identificano l’obiettivo principale nella «riforma dello Stato»[62], mettendo «in primo piano i concetti di amministrazione, burocrazia e autorità politica»[63], rivisitati attraverso la tradizione religiosa. La ricerca della «nuova via islamica»[64], costruita sulla convinzione di poter «modernizzare l’Islam senza assorbire la cultura della modernità»[65], sebbene darà «notevole impulso alle rivendicazioni nazionaliste e alle lotte per l’indipendenza»[66], non riuscirà a guidare saldamente i processi di emancipazione dei Paesi musulmani. Il «rapporto dialettico con la cultura occidentale»[67] sarà condotto di fatto da «élite nazionaliste di matrice occidentale che, una volta al potere negli Stati di nuova formazione, ridurranno l’Islam a fatto culturale o a dimensione religiosa privatizzata»[68].

Fattori scatenanti del radicalismo sono «la rimozione dell’Islam come elemento fondativo dei nuovi Stati-nazione»[69]; «la diffusione delle ideologie di matrice occidentale, nazionaliste o socialiste»[70]; e il «processo di secolarizzazione che investe le società musulmane»[71], ritenuti cause della «rottura del legame di coesione sociale»[72]. Pur avendo «continuità e rotture con le due fasi precedenti»[73], il radicalismo supera entrambe «“modernizzando” il concetto di jihad e “islamizzando” quello di modernità»[74], oltre a ribadire il ruolo centrale affidato alla politica e al partito politico, «strumento necessario che definisce l’inclusione/esclusione dallo “Stato etico”»[75] che si intende costruire. Per i musulmani radicali «la sovranità appartiene esclusivamente a Dio, che la esercita attraverso la Legge religiosa»[76], il che «si traduce in una dichiarazione di guerra “contro ogni potere umano”»[77] e rende centrale «il concetto di jihad (combattimento sulla via di Dio)»[78]. «Il mondo si divide, secondo il pensiero musulmano classico, in […] “dimora dell’Islam” […] e “dimora della guerra”»[79], la quale «comprendeva tutto ciò che si situava fuori dal territorio controllato dall’Islam»[80]. Nella sua versione classica «minimalista e difensiva»[81], «il jihad assumeva la funzione di difesa della Casa dell’Islam dalla Casa della Guerra»[82]. Il radicalismo mutò questo concetto in senso «massimalista e offensivo»[83], tramutandolo in un «atto di “difesa dell’uomo” contro la limitazione della sovranità di Dio»[84], in alcuni casi «un obbligo di fede, […] un vero e proprio pilastro dell’Islam»[85], e affermando l’idea che l’Islam «debba distruggere qualsiasi forza che si frapponga tra Dio e gli uomini»[86].

Alle origini della corrente radicale vi è il movimento dei Fratelli Musulmani – fondato nel 1928 dall’egiziano Hasan al-Banna (1906-1949) –, i quali «volevano il ripristino del califfato […] per resuscitare il mondo dell’islam nella sua versione più antica»[87]; teorizzando, secondo Paul Berman, «il totalitarismo musulmano»[88]: variante islamica dell’idea europea. Tra le sue fila si muoverà «l’ideologo di punta del radicalismo islamico»[89], l’egiziano Sayyid Qutb (1906-1966), che in opere come All’ombra del Corano e Pietre miliari definirà i fondamenti del pensiero islamico radicale. Nonostante avesse «un’istruzione religiosa tradizionale»[90], Qutb mostrò subito una «mentalità con sfumature occidentali»[91], andò a studiare negli Stati Uniti e, per sua stessa ammissione, «dovette continuamente combattere contro i suoi stessi impulsi liberali»[92]. «Non era un antimodernista»[93], «ammirava la produttività economica e la conoscenza scientifica, […] ma si impegnava nell’identificare i limiti e le insufficienze dell’alta produttività e della ricchezza»[94]. «Qutb sentiva che la cultura moderna, in tutto il mondo, aveva raggiunto un momento di crisi insostenibile»[95]; reputava che, «alienandosi dalla sua stessa natura, l’uomo moderno fosse sprofondato in uno stato di disgrazia, in una miseria che ingoia la vita umana, anche in condizioni di ricchezza materiale»[96], elementi sulla base dei quali «accarezzò l’idea del socialismo»[97]. Nel suo pensiero «il concetto dell’islam come totalità è il più importante. Riteneva che […] l’unicità di Dio distinguesse l’islam dalle altre visioni del mondo»[98], che il Corano offrisse «un modo di vivere»[99] comprensibile solo tramite «un impegno attivo nella vita»[100] e «una lotta spietata»[101], profilando così «l’idea, non espressa chiaramente, […] che la verità sia legata al martirio»[102], e quindi al jihad.

Altro grande ideologo del radicalismo islamico è l’indo-pakistano Abu l-A’laMaududi (1904-1979), «fondatore della più grande organizzazione musulmana a livello mondiale, la Lega del mondo musulmano»[103]. Egli rese il Pakistan «laboratorio sperimentale»[104] «di una riedizione della democrazia con copyright religioso»[105], una «teo-democrazia: […] forma di governo democratico istituito per diritto divino, sotto il quale i musulmani esercitano una sovranità popolare limitata dalla signoria di Dio»[106]. Teorizzava la creazione di «un califfato democratico immaginato e perseguito quale alternativa globale alla democrazia occidentale secolare»[107], uno Stato islamico inteso come «unità di etica, diritto e politica, manifestata come la diretta espressione della volontà divina»[108].

Per il grande contributo ideologico fornito al fondamentalismo islamico, Qutb e Maududi rappresentano ancora oggi «il riferimento teorico di ogni gruppo radicale contemporaneo»[109].

 

 

  1. Slavoj Žižek: uno sguardo alla crisi della nostra contemporaneità

 

Data la complessità del fondamentalismo, nato attraverso varie correnti in differenti contesti storico-sociali, esistono diverse interpretazioni del fenomeno che «si fronteggiano da tempo nelle scienze sociali e politiche, e anche in campo storico e teologico»[110]. Queste si possono ricondurre a «quattro grandi paradigmi esplicativi»[111] che definiscono il fondamentalismo come: «reazione alla modernità; espressione della crisi della modernità; ripresa del mito dello Stato etico; rivincita di Dio»[112].

Tra queste esegesi si colloca la lettura di Žižek, secondo il quale «il fondamentalismo è una reazione – […] falsa e mistificante […] – a un difetto reale del liberalismo, ed è per questo che il primo è sempre, di nuovo, generato dal secondo»[113]. Nella sua analisi «il conflitto tra permissività liberale e fondamentalismo religioso»[114] viene descritto come un «falso conflitto – un circolo vizioso in cui i due poli si generano e presuppongono vicendevolmente»[115]. Per i sostenitori di questa teoria, il fondamentalismo rappresenta «un modo tutto moderno di credere»[116]; tra esso e il liberalismo, inteso come forma della modernità occidentale, «non esisterebbe una pregiudiziale esclusione, ma al contrario una stretta correlazione»[117]. Questo equivale a dire che, «a prescindere dalla differenza di contenuto»[118], le procedure formali dei due sistemi «sono strettamente omologhe»[119], sono due facce della stessa medaglia.

Con l’intento di demistificare il «mito demoniaco»[120] dei terroristi, Žižek evidenzia che la «dicotomia tra un Occidente tutto rivolto a valori di ordine materiale […] e un Oriente tutto concentrato, invece, sulla spiritualità»[121] è stata anticipata da Friedrich Nietzsche (1844-1900). Il filosofo tedesco, resosi conto che «la civiltà occidentale procedeva nella direzione dell’Ultimo Uomo, una creatura apatica senza grandi passioni o impegni»[122], teorizzò l’antagonismo tra «nichilismo “passivo” e nichilismo “attivo”»[123], il quale permetterebbe di fornire «un’eccellente descrizione dell’attuale contrasto tra liberali anemici e fondamentalisti ferventi»[124].

 

Noi occidentali siamo gli Ultimi Uomini nietzschiani, immersi in stupidi piaceri quotidiani, mentre i musulmani radicali sono disposti a rischiare tutto, sono devoti alla lotta fino all’autodistruzione. […] «I migliori» non sono più capaci di assumere un impegno, mentre «i peggiori» abbracciano incondizionatamente il fanatismo razzista, religioso e sessista[125].

 

Ciononostante il filosofo di Lubiana mette in luce un difetto dei terroristi, l’assenza di «una caratteristica facilmente individuabile in tutti i fondamentalismi autentici»[126]: «l’assoluta indifferenza riguardo allo stile di vita dei non credenti»[127]. Žižek sostiene che, diversamente dai «veri fondamentalisti», i terroristi islamici «sono profondamente turbati, intrigati e affascinati dalla vita peccaminosa dei non credenti»[128]; la loro «intensità passionale»[129] dimostra che in essi manca «la certezza della propria superiorità»[130], e per questo li definisce «pseudo-fondamentalisti»[131]. In questa ottica «il problema non è la differenza culturale (lo sforzo di preservare la propria identità)»[132] ma, al contrario, «che i fondamentalisti sono già come noi, che, segretamente, hanno già interiorizzato i nostri valori»[133], e che, giudicandosi a partire da questi, «sono loro stessi, per primi, a considerasi inferiori»[134]. Scegliendo di combattere i «peccatori», «essi combattono la loro stessa tentazione»[135].

Analizzando il caso dello Stato Islamico (IS), Žižek cerca di stabilire se «il fondamentalismo islamico è un fenomeno premoderno o moderno»[136]. L’IS non identifica l’obiettivo principale del potere statale con il benessere del popolo; «ciò che realmente conta è la vita religiosa, che ogni aspetto della vita pubblica si conformi ai precetti religiosi»[137]. Questa idea di governo «rifiuta totalmente la nozione di biopotere»[138], «il concetto, occidentale e moderno, […] di potere che regola la vita»[139], il che permetterebbe di identificare la natura premoderna del fenomeno. Tuttavia, nonostante «i fondamentalisti islamici individuino la svolta negativa dell’Occidente nella secolarizzazione della società incarnata dalla Rivoluzione francese»[140], Žižek cita un articolo nel quale Kevin McDonald evidenzia come la stessa Francia rivoluzionaria rappresenti «la fonte dell’ideologia e della violenza dello Stato Islamico»[141]. Nell’articolo, dal titolo I jihadisti dell’IS non sono medievali, ma plasmati dalla filosofia occidentale moderna[142], McDonald commenta il pensiero di Maududi, «inventore dell’espressione “Stato Islamico”»[143], uno Stato «profondamente modellato dalle idee e dai concetti occidentali»[144]. La Rivoluzione francese

 

prometteva uno «Stato fondato su un insieme di principi», contrariamente a quello basato sulle idee di nazione o di popolo. Per Maududi questo potenziale inaridì in Francia; per la sua realizzazione si sarebbe dovuto attendere uno Stato islamico[145].

 

Pur riconoscendo la validità del commento, il filosofo sloveno evidenzia che «il parallelo tra l’IS e la Rivoluzione francese è puramente formale»[146]. Nella sua lettura il «momento di verità»[147], la possibilità di accostare il fondamentalismo islamico alla filosofia occidentale moderna, sta nel fatto che «la completa subordinazione dell’uomo a Dio (presente non solo nell’Islam) […] può sostenere anche un progetto di emancipazione universale»[148]. È questo uno degli intenti di Sayyid Qutb, che nell’opera Pietre miliari «sviluppa il legame tra la libertà umana universale e la servitù dell’uomo a Dio»[149]:

 

Solo una società in cui la sovranità appartiene esclusivamente ad Allah e trova espressione nella sua obbedienza alla Legge Divina […] assapora la vera libertà. Solo questa è una «civiltà umana». […] In una società basata su idee, credenze e stili di vita che promanano da Allah, la dignità dell’uomo è mantenuta inviolabile al sommo grado: nessuno è schiavo di un altro. […] Tutti gli uomini sono uguali a prescindere dal loro colore, razza, o nazionalità. […] L’uomo è capace di modificare le sue credenze, i suoi pensieri e il suo atteggiamento nei confronti della vita, ma non può cambiare il colore della sua pelle o la sua razza, né può decidere in quale luogo o nazione nascere. È quindi chiaro che una società è civile nella misura in cui le associazioni umane si fondano sulla libera scelta morale, e che una società è arretrata se il fondamento delle associazioni umane è qualcosa di diverso dalla libera scelta[150].

 

Per Qutb la sottomissione a Dio rappresenta il «rifiuto di ogni altro padrone (terreno, umano)»[151]; instaura un «governo astratto, impersonale, universale, assolutamente trascendente»[152], permettendo di «garantire la libertà personale»[153], e quindi «la libertà universale (anche sociale ed economica)»[154]. L’Islam «realizza l’autentico superamento della (diretta o indiretta) dominazione dell’uomo sull’uomo che […] è il correlato dell’alienazione in senso marxiano. La “liberazione” annunciata […] pretende di affrancare l’uomo da un’ultima, radicale alienazione, equivalente alla miscredenza, ossia al negare che il mondo, e l’uomo stesso, appartengono soltanto a Dio, e dunque in assoluto a nessun uomo»[155]. Eppure Žižek sottolinea «l’assenza sintomatica di un termine»[156] tra le «proprietà naturali dell’essere umano»[157] elencate dallo studioso egiziano: «non possiamo cambiare colore, razza, o nazionalità, ma nemmeno genere; per quale ragione, allora, una società libera non dovrebbe prevedere l’uguaglianza tra uomo e donna?»[158]. Elementi come questo negano l’accostamento tra il «processo di emancipazione che si è svolto in Occidente»[159] e «il programma teocratico di Qutb»[160], offuscando il carattere moderno del pensiero fondamentalista radicale.

Non potendo distinguere chiaramente la natura moderna del fondamentalismo, e riconoscendo l’impossibilità di «un ritorno alle tradizioni premoderne»[161] (poiché chi si oppone alla modernità «lo fa in una forma che è già moderna, parla già il linguaggio della modernità»[162]), Žižek arriva a definire «ultramoderna»[163] la forma delle restaurazioni volute dallo Stato Islamico. Esso non deve essere considerato «un caso estremo di resistenza alla modernizzazione»[164], «un disperato tentativo di rimettere indietro le lancette del progresso storico»[165], bensì «un caso di modernizzazione perversa»[166]. Entro questa lettura si colloca il pensiero di Shmuel Eisenstadt (1923-2010), il quale definì il fondamentalismo come «moderna utopia giacobina anti-moderna»[167], formula che consente di mostrarne «la diretta derivazione […] dalla “costola” stessa della modernità»[168], mettendone in luce il carattere ambivalente, moderno e insieme «contro-moderno».

In questa teoria «l’utopia giacobina» sta nel fatto che i fondamentalisti, oltre a sviluppare una «visione totalitaria del mondo»[169] ed enfatizzare «una completa ricostruzione dell’ordine sociale e politico»[170], affermano «il primato della politica intesa come luogo nel quale si incarna e si compie un’idea religiosa»[171]; politica e religione risultano così «una totalità inscindibile e l’ordine sociale viene immaginato come la risultante dei due vettori»[172]. Essi ricorrono «spregiudicatamente ai linguaggi e alle tecnologie della comunicazione di massa moderni»[173] ma, «pur accettando i benefici della modernità, ne rifiutano la logica»[174]. Assolutizzano un messaggio religioso al fine di «dare senso e validità a una visione totalizzante che si è scelto di sostenere»[175], finendo per «reinventare la tradizione»[176] ed essere addirittura «anti-tradizionalisti»[177] o «post-tradizionali»[178]. Lo Stato Islamico, per il quale Žižek utilizza il termine «islamofascismo»[179], fa ricorso a «pratiche ultramoderne»[180] (come la propaganda sul web e le operazioni finanziarie) «per diffondere e imporre una visione ideologico-politica che (più che conservatrice) appare come un disperato tentativo di stabilire chiare delimitazioni gerarchiche, in primo luogo quelle che disciplinano la religione, l’istruzione e la sessualità»[181]. La sua ascesa, e in generale quella dell’islamismo radicale, sarebbe imputabile alla «scomparsa della sinistra laica nei paesi musulmani»[182].

Il filosofo sloveno riconosce che l’IS è solo «l’ultimo capitolo di una lunga storia di risvegli anticoloniali, […] e allo stesso tempo un nuovo capitolo della resistenza ai tentativi del capitale globale di minare il potere degli Stati-nazione»[183], ma precisa che «il punto non è se le recriminazioni che spingono i terroristi ad agire siano o meno fondate; ciò che qui conta è il progetto politico-ideologico che emerge come reazione alle ingiustizie»[184]. Essi prendono «di mira ciò che noi consideriamo la parte migliore del retaggio occidentale, l’egalitarismo e le libertà personali»[185], non solo a causa dello «sfruttamento selvaggio»[186] perpetrato dall’Occidente, ma anche in seguito al «tentativo di presentare questa dominazione brutale nella forma del suo opposto, ossia della libertà, dell’uguaglianza e della democrazia»[187]. Secondo Žižek «è su questo sfondo che occorre affrontare il sensibile tema dei molteplici stili di vita»[188], in quanto i problemi sorgono «quando i membri di una comunità religiosa vivono come un’offesa blasfema o una minaccia ai propri valori […] lo stile di vita stesso di un’altra comunità»[189]. Contrariamente a quanto avviene «nelle società liberal-secolari»[190] occidentali, ove «il potere statale protegge la libertà pubblica ma interviene nella sfera privata»[191], la legge islamica non ammette «intrusioni nello spazio domestico»[192] dell’individuo; «per la comunità ciò che conta è la prassi sociale del soggetto musulmano – incluso ciò che viene detto pubblicamente – e non i suoi pensieri intimi»[193]. Per questo per gli islamici è «impossibile rimanere inerti»[194] e «in silenzio di fronte alla blasfemia»[195], che essi non considerano espressione della «“libertà di parola”, […] ma qualcosa che cerca di turbare un rapporto vivente»[196]: quello indissolubile tra Dio e gli uomini. Collocata «questa mentalità nel più ampio contesto del mondo contemporaneo»[197], Žižek mostra che tale atteggiamento «accomuna pericolosamente la sinistra liberal al fondamentalismo islamico»[198], in quanto anche l’Occidente possiede la propria «lista di “blasfemie”»[199]. Ricordando quello che per Jacques Lacan è il significato della vera tolleranza, «la tolleranza di ciò che viviamo come “impossibile-da-sopportare”»[200], il filosofo di Lubiana sottolinea «la contraddizione immanente alla posizione della sinistra liberal»[201], continuando l’accostamento tra liberalismo occidentale e fondamentalismo islamico.

 

Se i musulmani avvertono le nostre immagini blasfeme e il nostro umorismo avventato (che noi consideriamo parte delle nostre libertà) come «impossibili da sopportare», anche i liberal occidentali percepiscono come «impossibili da sopportare» numerose pratiche […] che fanno parte del «rapporto vivente» musulmano[202].

 

Žižek riconosce in questo tipo di situazioni «le origini del liberalismo […], una risposta al problema di cosa fare […] quando due gruppi etnici o religiosi che vivono fianco a fianco presentano stili di vita incompatibili»[203]. La contrapposizione tra l’Islam e l’Occidente liberale prosegue attraverso l’interpretazione di TalalAsad che, affrontando il tema della seduzione, sostiene che «l’Occidente condanna lo stupro (la violenza esterna) eppure tollera, o perfino celebra, la seduzione, mentre nell’Islam la seduzione è considerata l’azione peggiore»[204]. Egli fa notare che «la distinzione tra coercizione e seduzione […] non è netta»[205] e soprattutto che «la seduzione delle società liberali è una componente fondamentale della mercificazione»[206]:

 

L’individuo come consumatore e come elettore è sottoposto a una varietà di lusinghe e adescamenti che fanno leva sulla cupidigia, la vanità, l’invidia, la vendetta, e così via. Ciò che in altre circostanze potrebbe essere identificato e censurato come un difetto morale, qui è essenziale al funzionamento di un particolare tipo di economia e di ordinamento politico[207].

 

Alla «“tolleranza” liberale della seduzione […] Asad contrappone la teologia islamica»[208], secondo la quale «la seduzione in tutte le sue forme è necessariamente pericolosa non solo per l’individuo (perché indica una perdita di autocontrollo), ma anche per l’ordine sociale (in quanto può portare alla violenza e alla discordia civile)»[209]. Il sistema liberale, sostenendo la propria stabilità tramite «complessi giochi di seduzione economica e politica»[210], è descritto come «intrinsecamente perverso e corrotto, dal momento che, per funzionare normalmente, deve basarsi su quegli stessi vizi che pubblicamente condanna»[211]. In questa accezione «la libertà liberale, nella sua verità, equivale alla libertà di essere sedotti e manipolati dagli altri»[212]. Riconoscendo quello della seduzione come «un tema ricorrente della critica illuminista»[213], nonostante la mancanza del concetto di «seduzione religiosa»[214], Žižek evidenzia che, a prescindere se siano strutturate su contenuti diversi, su forme di manipolazione economico-politica o religiosa, le procedure formali sulle quali si basano le società occidentali e islamiche «sono strettamente omologhe»[215], confermando la connessione tra i due universi culturali.

Tuttavia, nella sua lettura, la differenza da affrontare non riguarda solo «due stili di vita comunitaria»[216], ma quella più radicale relativa al «modo in cui ci relazioniamo al nostro stesso stile di vita»[217]: se «ci identifichiamo sostanzialmente con esso»[218] (come nell’Islam) «o lo consideriamo […] qualcosa di contingente»[219] (come nell’atteggiamento occidentale). Questa riflessione dimostra «i limiti del tradizionale atteggiamento liberale»[220], il quale relega in una posizione subordinata «quanti conservano un’appartenenza religiosa sostanziale»[221]. «Una scelta è sempre una meta-scelta, una scelta delle modalità di scelta»[222], ed è per questo che, «nelle nostre società secolari»[223], il credo religioso «è semplicemente “tollerato” come una scelta/opinione personale»[224]. Non appena coloro che lo professano lo «rivendicano pubblicamente per ciò che è realmente (una questione di appartenenza sostanziale), sono accusati di “fondamentalismo”»[225]. A dimostrazione di questo atteggiamento occidentale è emblematico il caso delle «donne musulmane che portano il velo»[226]:

 

possono farlo se si tratta di una libera scelta e non di una imposizione. […] Tuttavia, non appena una donna decide volontariamente di indossare il velo, il significato di questo costume non è più lo stesso di prima: […] non simboleggia più la sua appartenenza sostanziale e diretta alla comunità musulmana, ma è espressione della sua individualità idiosincratica, della sua ricerca spirituale o della sua protesta contro la mercificazione sessuale, oppure è un gesto politico di dissenso contro l’Occidente[227].

 

All’interno di questa prospettiva si inquadrano gli interrogativi di Žižek relativi al senso che «assume il divieto, come quello che vige in Francia, di portare il velo a scuola»[228]. Nel suo giudizio «questa proibizione qualifica ciò che proibisce […] come un segno troppo-forte-per-essere-permesso di identità personale che turba il principio francese della uguaglianza fra i cittadini»[229]; ma soprattutto «si tratta della più oppressiva delle proibizioni […] perché proibisce la caratteristica che costituisce l’identità (socio-istituzionale) dell’altro»[230]. «Ciò che questo divieto statale proibisce è la proibizione stessa»[231]; esso è «una proibizione universale e dunque universalizzata»[232], la quale pone «un’Umanità universale, uno spazio in cui ogni differenza (economica, politica, religiosa, culturale, sessuale…) è indifferente»[233]. Nella visione di Žižek, «qui sta il paradosso del tollerante universo multiculturale, l’universo della molteplicità di stili di vita e di identità altre: più esso è tollerante, più è oppressivamente omogeneo»[234]. Tuttavia anche «l’universalismo liberale è un’illusione, una maschera che cela una particolarità che esso impone a tutti come universalità»[235].

 

L’universalismo di una società liberale occidentale non dipende dal fatto che i suoi valori (i diritti umani, ecc.) debbano valere per tutte le culture, ma, in un senso assai più radicale, dal fatto che in esso gli individui si relazionano a sé stessi come «universali», partecipano direttamente alla dimensione universale, aggirando la propria particolare posizione sociale[236].

 

Quindi il diritto laico occidentale, oltre a promuovere «un contenuto delle leggi […] del tutto differente da quello delle costruzioni giuridiche religiose, […] si basa anche su un diverso rapporto formale tra gli individui e il loro ordinamento giuridico»[237]. Per Žižek «il problema dell’istituzione di leggi particolari per determinate comunità etniche/religiose»[238] risiede nel fatto che «non tutti fanno esperienza di sé come appartenenti a comunità di questo genere, […] particolari»[239]. Oltre a questi, «ci sarebbero individui “universali” che appartengono unicamente alla legge dello Stato»[240], che riconoscono come proprio solo il diritto laico, e contro i quali si schiera «la radicalità senza precedenti»[241] dello Stato Islamico e delle altre fazioni fondamentaliste contemporanee.

 

 

  1. Islam e Occidente: tra «scontro di civiltà» e «vie del dialogo»

 

«La politica mondiale sta entrando in una nuova fase e gli intellettuali non si sono fatti pregare; proliferano le visioni di quello che sarà»[242]. Secondo la tesi espressa da Samuel Huntington «le grandi fratture tra gli uomini e la fonte più abbondante del conflitto avranno una matrice culturale, […] i conflitti principali scoppieranno tra nazioni e gruppi di diverse civiltà: […] l’ultimo stadio nell’evoluzione del conflitto nel mondo moderno»[243]. «Le differenze tra le civiltà non sono soltanto reali, esse sono basilari; […] si differenziano per storia, lingua, cultura, tradizione e soprattutto religione»[244], la quale «discrimina nettamente e senza mezzi termini tra i popoli»[245]. «Le valutazioni di tipo politico hanno lasciato il campo a quelle religiose»[246]. Inoltre, grazie ai fenomeni di globalizzazione, «il mondo sta diventando un posto sempre più piccolo. Le interazioni tra persone provenienti da civiltà diverse aumentano; […] esaltano la coscienza a livello di civiltà di quel popolo e per contro rinvigoriscono le differenze e i motivi di risentimento»[247]. «Le differenze e le caratteristiche di matrice culturale sono meno mutabili e perciò poco plasmabili e assai meno soggette a compromessi rispetto ai campi della politica e dell’economia»[248].

«Quando la divisione ideologica dell’Europa è scomparsa, la scissione culturale tra cristianità occidentale e […] ortodossa, da una parte, e Islam, dall’altra, è riemersa; […] il conflitto che corre lungo la linea di faglia tra civiltà occidentale e islamica è proseguito per milletrecento anni»[249]. A distanza di secoli, «dopo la seconda guerra mondiale, […] gli imperi coloniali scomparvero; prima il nazionalismo arabo e poi il fondamentalismo islamico si palesarono esplicitamente; l’Occidente divenne pesantemente dipendente dai paesi del golfo Persico per l’approvvigionamento energetico; i paesi musulmani ricchi di petrolio ottennero una montagna di denaro e, ogni volta che lo desideravano, anche di armi»[250], il che portò allo scoppio di numerose guerre e scontri nel Medio Oriente, anche tra gruppi appartenenti alla stessa “civiltà”. «Questa secolare interazione militare tra l’Occidente e l’Islam è probabilmente destinata a durare. Potrebbe divenire più virulenta»[251].

Inoltre l’aumento «dell’immigrazione nell’Europa occidentale, […] ha acuito la sensibilità politica; […] il razzismo è sempre più evidente e le reazioni politiche e le violenze contro migranti […] sono cresciute in intensità e latitudine»[252]. «Da entrambi i lati, l’interazione tra l’Islam e l’Occidente è visto come uno scontro di civiltà; […] la “prossima sfida” per l’Occidente “giungerà certamente dal popolo musulmano. È nell’alveo delle nazioni islamiche […] che inizierà la lotta per un nuovo ordine mondiale”»[253]. «La prossima guerra mondiale, se ci sarà, sarà una guerra di civiltà»[254].

 

In rapporto ad altre civiltà, l’Occidente si trova al massimo del suo potere. […] Esso domina la politica internazionale, […] le istituzioni di sicurezza e […] anche le istituzioni economiche internazionali. […] Le decisioni prese […] riflettono gli interessi occidentali e sono presentate al mondo come fossero gli interessi dell’intera comunità mondiale. Proprio l’espressione «comunità mondiale» è diventata l’eufemistico sostantivo collettivo (al posto di «mondo libero») per dare una patina di legittimità globale alle attività che rispecchiano gli interessi degli Stati Uniti e delle altre potenze occidentali[255],

 

le quali «mantengono strettissimi rapporti tra di loro, mentre sono in gran parte esclusi i paesi minori non-occidentali»[256]. «L’Occidente promuove i suoi interessi economici e impone alle altre nazioni le politiche economiche che esso ritiene appropriate»[257]. «Il dominio occidentale del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite […] ha avuto l’effetto di legittimare, nell’ambito dell’Onu, l’uso della forza da parte occidentale»[258]. «L’Occidente non ha esitato a farla da padrone in tutto il mondo arabo, […] usando le istituzioni internazionali, il potere militare e le risorse economiche per gestire il mondo in modo da mantenere la sua superiorità, proteggere i propri interessi e promuovere i propri valori politici ed economici»[259]. Tali «differenziali di potere […] sono effettivamente una fonte di conflitto tra l’Occidente e le altre civiltà. Differenze culturali, cioè nei valori e nelle credenze di base, rappresentano una seconda fonte di conflitto»[260], il che mette «in moto reazioni contro “l’imperialismo dei diritti umani” e una riaffermazione di valori autoctoni, come nel caso del ritorno del fondamentalismo religioso presso le giovani generazioni appartenenti a culture non-occidentali»[261].

Nella sua esegesi, Huntington porta avanti

 

l’ipotesi che le differenze tra le civiltà sono concrete e reali e hanno una certa importanza; la coscienza-di-civiltà è in crescita; il conflitto tra le civiltà prenderà il posto dei conflitti ideologici e di altro tipo, per diventare la forma globale dominante; […] le relazioni internazionali […] attraverseranno una progressiva de-occidentalizzazione, trasformandosi in un gioco in cui le civiltà non-occidentali non saranno più semplici oggetti a disposizione, bensì attori a tutti gli effetti. […] I conflitti tra gruppi appartenenti a differenti civiltà saranno più frequenti, più duraturi e più violenti di quelli tra gruppi all’interno di una stessa civiltà, […] principali responsabili dell’innesco di possibili guerre globali[262].

Se tali ipotesi sono plausibili, è però necessario considerare le loro implicazioni per la politicaoccidentale nel suo complesso. […] Nel breve periodo è chiaramente nell’interesse occidentale promuovere una più intensa cooperazione e unità all’interno della sua stessa civiltà; […] prevenire l’escalation di conflitti locali; […] appoggiare all’interno di altre civiltà quei gruppi più favorevoli ai valori e agli interessi occidentali; rafforzare le istituzioni internazionali che riflettono e legittimano gli interessi e valori occidentali[263].

[Tuttavia] nel lungo periodo […] si renderanno necessarie altre misure. La civiltà occidentale è tanto occidentale quanto moderna. Le civiltà non-occidentali hanno tentato di diventare moderne senza occidentalizzarsi; […] continueranno nel loro sforzo per procurarsi livelli di benessere, tecnologia, competenze, macchinari e armi che sono parte integrante della modernità. Continueranno anche a ricercare un punto di contatto tra questa modernità e i propri valori tradizionali. La loro forza economica e militare si consoliderà in confronto all’Occidente[264].

 

Ecco perché le autorità occidentali dovranno «ricercare una forma di adattamento con queste civiltà moderne non-occidentali il cui potere tende ad approssimarsi a quello occidentale, ma i cui valori e interessi divergono radicalmente da esso»[265]. «La situazione imporrà anche un movimento verso una più profonda comprensione dei postulati filosofici e religiosi che stanno alla base delle altre civiltà e le modalità attraverso le quali i popoli di queste civiltà guardano ai loro propri interessi»[266]. Servirà «individuare elementi di comunanza tra la civiltà occidentale e tutte le altre»[267], al fine di stabilizzare un mondo composto da «civiltà differenti, ciascuna delle quali dovrà imparare a convivere con le altre»[268].

Tra le numerose proposte intellettuali volte a migliorare la situazione internazionale, spicca l’opera di Mohamed Talbi, storico arabo e specialista in scienze islamiche, molto attivo per «promuovere il dialogo tra le culture nel mondo contemporaneo, […] elaborando in modo creativo le diverse tradizioni culturali […] in grado di offrire soluzioni per i nuovi problemi connessi all’espandersi della modernità»[269]. Nel suo orizzonte di pensiero, tale ragionamento «non può prescindere da un’apertura al dialogo con le altre culture e religioni, […] condizione per un fecondo rinnovamento delle culture contemporanee, sempre più chiamate ad affrontare problemi comuni e a entrare in relazione reciproca»[270]. «La ricerca di valori comuni, […] di un’etica condivisa si focalizza su un secondo asse di riflessione, costituito dall’impegno per promuovere il rinnovamento del pensiero musulmano in tale direzione»[271]. Egli ritiene che «l’islam possa dare un apporto altamente positivo alla civiltà mondiale, a patto che […] accetti in modo costruttivo la modernità e il dialogo e il confronto che essa esige»[272], basandosi «sulla rinnovata centralità del diritto fondamentale alla libertà di coscienza, […] tema particolarmente delicato per la religione e la cultura islamica»[273].

 

Certamente nelle società musulmane contemporanee le tematiche relative al dialogo e ai diritti dell’uomo hanno forte difficoltà a essere recepite. L’islam delle istituzioni islamiche ufficiali e degli stati tende infatti a rimanere su posizioni tradizionali, mentre i moderni movimenti dell’islam politico si propongono come paradigma ideologico il ritorno all’applicazione di un supposto islam integrale che radicalizza le interpretazioni tradizionali in senso contrario o assai critico rispetto ai valori più positivi dell’epoca moderna[274].

 

Tuttavia, nonostante un «contesto altamente problematico e complesso»[275], sforzi intellettuali di questo tipo rappresentano «il germe di una cultura islamica rinnovata, riconciliata con la modernità, aperta al dialogo costruttivo con le altre culture, e dunque in grado di contribuire in modo efficace a un nuovo sviluppo culturale dell’umanità»[276].

«Nell’opinione corrente è considerato non la religione del dialogo ma della violenza»[277]; «il dialogo per l’islam è perciò, anzitutto e a priori, una ripresa vitale e necessaria di contatto con il mondo»[278]. «Dobbiamo perciò adattarci alle nostre diversità e alle nostre divergenze, e […] fare in modo che la prova dei dissensi sia abbreviata»[279], consapevoli che «il dialogo è lunga pazienza. […] Dialogare, infatti, non significa necessariamente cercare una soluzione comune, e ancor meno implica la necessità imperiosa di un accordo. La sua funzione è […] quella di arrecare maggior chiarezza e apertura al dibattito, […] permettere a tutti gli interlocutori di superarsi, di non irrigidirsi sulle proprie certezze»[280]. Secondo Talbi la libertà di religione è

 

fondamentalmente basata, dal punto di vista del Corano, principalmente e quasi interamente sul concetto che la natura dell’uomo è ordinata al divino. […] Fra tutte le creature soltanto l’uomo ha compiti e obblighi. Egli è un essere eccezionale. Non può essere ridotto al solo corpo perché l’uomo, prima di ogni altra cosa, è uno spirito al quale è stata data la forza di concepire l’Assoluto e di elevarsi a Dio. […] Egli ha due lati: la parte meno nobile, la sua argilla, e quella più nobile, lo Spirito di Dio. […] Possiamo quindi asserire che per ciò che riguarda lo spirito tutte le persone, anche se con diverse capacità fisiche, intellettive o attitudinali, sono realmente uguali; […] hanno la stessa dignità e sacralità, […] hanno equamente la facoltà di gioire del diritto di autodeterminazione sulla terra in modo permanente. Così, nella prospettiva coranica, […] i diritti dell’uomo sono radicati in ciò che ogni essere umano è per natura. […] Va da sé che la pietra angolare di tutti i diritti umani è la libertà di religione[281].

 

«Uno dei problemi fondamentali della nostra epoca, […] quello della libertà di religione e della trasmissione della fede»[282], «con tutte le sue ramificazioni, non è argomento nuovo all’interno dell’islam»[283]. Ciononostante si dovrebbe sottolineare con maggiore intensità «che la libertà di religione non è un atto di carità o di tolleranza, […] è un diritto fondamentale di ciascun individuo»[284]; dal punto di vista musulmano è «un atto di rispetto verso la sovranità di Dio. […] Rispettare la libertà dell’uomo significa rispettare il progetto di Dio»[285].

 

Con più di un secolo di ritardo sull’Europa, il problema comincia a porsi per l’islam, e anche là assume, tra altri, l’aspetto di una reazione contro la «dittatura» della religione, e in conseguenza, si trova legato ai progressi della deislamizzazione, che fa molto meno rumore del «risveglio islamico»; […] il problema della libertà religiosa si pone dunque anche nella società musulmana in termini se non identici fortemente simili; […] ci riguarda perciò tutti, credenti e non credenti, sinceramente convinti dell’importanza della dignità umana, indissolubilmente legata al rispetto del libero arbitrio di ciascuno[286].

 

«Per esorcizzare il male non basta non credervi»[287].

 

Se è vero che la religione, qualora venga travisata, […] produce oppressione e diviene «l’oppio dei popoli», resta il fatto che l’indebolirsi della fede, invece di liberare dai mali, li ha aggravati ancora di più. L’oppio fittizio delle religioni è stato sostituito da quello ben più tirannico della materia. […] Gli estremi si toccano, e le dittature, siano delle religioni o del materialismo, disumanizzano. Siamo giunti al punto di perdere il vero senso della fede: un impegno cosciente, volontario, individuale e libero[288].

 

«Occorre innanzitutto considerare le diverse concezioni dell’islam e dell’Occidente per giungere a valutare adeguatamente le effettive possibilità di dialogo reciproco»[289].

 

Esistono due islam come esistono due Occidenti. Vi è un islam, diciamo sociologico, che occupa un’area geografica approssimativamente ben determinata, ma che non implica sempre la fede, e si definisce nel suo complesso più come una cultura, un modo d’essere e una civiltà. […] Vi è dunque un islam-fede-e-convinzione, e un islam-cultura-e-civiltà. I due concetti non sempre si sovrappongono. L’uno non implica necessariamente l’altro. […] Ciò vale anche per l’Occidente della fede, l’Occidente mistico che continua a suscitare vocazioni, […] e quello della tecnologia, della fredda efficienza posta a servizio dello sfruttamento intensivo della terra; l’Occidente che produce per consumare e che consuma per produrre, che affascina e disgusta a un tempo, che si ammira segretamente, che si imita con alacrità, e che si mette alla gogna. Tra questi due islam e questi due Occidenti, è sempre esistito in ogni epoca un movimento dialettico di attrazione e ripulsa. La loro storia […] è quella del «disprezzo amoroso»[290].

Il processo della conoscenza comporta per sua natura le difficoltà: vi è un modo di vedere il mondo che non passi attraverso noi stessi? In ogni conoscenza l’oggetto non viene percepito né prende forma né esiste se non nella sfera cognitiva del soggetto. […] Si può uscire in parte da questo circolo vizioso […] solo grazie alla mediazione del dialogo e del confronto delle idee senza essere presi dalla passionalità. Più che mai, dunque, poiché i divari sono cospicui, l’islam e l’Occidente devono dialogare. […] Il dialogo vero presuppone il rispetto e l’accettazione dell’altro tal quale egli è o, meglio, tal quale si vuole e si crede. […] Vi è infatti qualcosa di peggio che la pura e semplice ignoranza e l’assenza di dialogo: è il dialogo dei sordi e il gioco al massacro reciproco. […] Guardiamo al futuro, il quale ci è aperto. È aperto e ci unisce, poiché ci pone le stesse sfide[291].

Il vero problema che si pone all’islam è di individuare i modi per uscire dall’ambiguità e prevenire la forma più pericolosa del suo scadimento, quella che si nutre della confusione […] per cui l’islam cultura diviene comunemente sinonimo di islam-fede. […] Il miglior rimedio […] consiste nel promuovere una società cosciente, tollerante e pluralista, in cui credenti e non credenti possono vivere nella chiarezza e nella lealtà, senza complessi reciproci, senza maschere e nel mutuo rispetto. Il diritto alla differenza e, in particolar modo, all’agnosticismo e all’ateismo, deve essere affermato e scrupolosamente rispettato, perché è parte integrante sia dei diritti dell’uomo sia dei misteri di Dio[292].

 

«Il fatto è che il musulmano, e soprattutto la musulmana, sono […] come intrappolati nelle contraddizioni, esigenze, evoluzioni e violazioni dei princìpi che costituiscono il respiro stesso dei tempi attuali»[293]. «L’islam e l’Occidente sono di fatto, salvo alcune piccole differenze di grado, in condizioni simili. […] Mentre nelle nostre case scoppia l’incendio, noi lottiamo su frontiere immaginarie contro i mulini a vento»[294].

«L’islam […] si presenta troppo spesso come conservatore perché è irretito nei complessi,[…] perché appartiene, nella sua quasi totalità, alla zona del sottosviluppo. […] Ne deriva uno stallo molto grave sulla strada del dialogo. […] Per rompere questo circolo vizioso, è necessario che l’Occidente prenda coscienza dei propri limiti, e l’islam delle proprie possibilità»[295].

 

Se manca questa rivalutazione globale, non si può che […] procedere con difficoltà tra i blocchi, […] moltiplicare le opere di difesa e mantenere l’attuale divisione del mondo […] dilapidando ricchezze in armamenti sofisticati, ben presto obsoleti, inventate dagli uni e acquistate dagli altri. […] Da parte dell’islam è […] illusorio sperare di poter dialogare utilmente a partire da uno stato di debolezza e di dipendenza. Affinché l’islam in quanto civiltà possa dialogare con l’Occidente della tecnica e della potenza, deve essere in grado di affermarsi come interlocutore valido, che ha qualcosa da dire e da offrire. Per questo deve innanzitutto liberarsi dai propri complessi. Oggi offre quasi esclusivamente le sue materie prime, la sua energia petrolifera e talvolta la sua manodopera e i suoi cervelli. In cambio consuma soprattutto armi, molte armi che servono esclusivamente a guerre intestine o fratricide e così costituiscono il fattore principale di autodistruzione[296].

 

«Oggi l’islam possiede tutte le possibilità per entrare nell’era della scienza ed essere creativo: possiede materie prime, mezzi finanziari, forze manuali e intellettuali. Quel che manca di più è la coesione politica, la volontà illuminata e una strategia coordinata»[297]. «È un errore continuare su questa strada e in certi casi può diventare un crimine»[298].

Sicuramente le prospettive future non appaiono confortanti, soprattutto considerato che oggi «si uccide ancora in nome di Dio»[299]. «Queste ombre non devono tuttavia nascondere il quadro complessivo. In verità il dialogo non si è mai interrotto, […] prosegue e progredisce […] alla felice scoperta delle ricchezze reciproche. Gli incontri si moltiplicano e si diversificano in tutti i continenti»[300], ma è pur vero che «l’islam manca di istituzioni adeguate e autorizzate, e così non ha portato al dialogo un contributo equivalente a quello dei partners cristiani; […] dà l’impressione di essere reticente, almeno a livello dei suoi organismi rappresentativi»[301]. «Dal punto di vista dottrinale è chiaro che l’islam ha il dovere […] di meditare il senso e il messaggio delle religioni non musulmane. […] Speriamo perciò che a mano a mano che il dialogo si svilupperà, le reticenze e le diffidenze cadano»[302].

«Si comincia a capire meglio che qualsiasi politica di sviluppo integrato deve in primo luogo puntare sull’uomo per favorire la sua espansione e la sua creatività evitando attentamente di tagliare le sue radici»[303].

 

La salute dell’identità e la solidità del patrimonio culturale si misurano infatti dalle loro capacità di assimilazione e d’integrazione, dalla loro capacità di offrire e ricevere, […] di scambio e di apertura al pluralismo. La base di tutti gli integralismi che minacciano in diversa misura tutte le culture è «il rifiuto dell’idea che l’altro possa dare il suo apporto sotto qualsiasi forma, […] la ripulsa di ogni idea di mescolamento culturale». Tuttavia accreditare l’idea che l’islam sia integralismo e null’altro equivale a ricadere […] nell’errore[304].

 

«Se […] l’integralismo è chiusura nei confronti delle altre culture, del pluralismo, l’Occidente farà bene a procedere a un serio esame di coscienza»[305]. Appare dunque evidente il

 

nucleo del problema: quello dell’identità e del patrimonio culturale, che si trovano sempre più a confronto con l’integrazione e il pluralismo, in un universo in cui i media mettono ormai ogni uomo a stretto contatto con tutti gli altri uomini. Isolare l’identità, […] o trapiantarla a forza in un altro territorio, significa esporla all’isolamento, a deformazioni o a reazioni violente di autodifesa. Ma privarla […] di scambi con il mondo esterno, vuol dire anche condannarla all’asfissia o a proliferazioni più o meno mostruose e in definitiva non vitali[306].

 

«Il dialogo delle culture suppone il rispetto e la stima dell’altro, […] senza complessi né trionfalismo da ambo le parti. Il dialogo non può più essere eluso. L’apertura agli altri, del resto oggi inevitabile, […] si sviluppa tramite il gioco della sincronia e della diacronia culturale»[307].

«Il diritto alla differenza e all’identità, parte integrante della dignità umana, non è in causa; […] non deve in nessun caso servire da pretesto per rifiutare l’apertura, l’integrazione e il pluralismo. Il Sé non assume rilievo e non acquista valore se non su una base comune, in fin dei conti umana. […] Le due culture, l’islamica e l’occidentale, hanno sempre vissuto questa tensione lacerante e nello stesso tempo arricchente»[308].

 

Di fronte a un Occidente in pieno sviluppo, l’islam che è appena uscito dall’era coloniale, si situa prevalentemente nella zona del sottosviluppo, con tutte le caratteristiche politiche, sociali, economiche e culturali che questa condizione implica. […] Politicamente, culturalmente ed economicamente l’Occidente è dominante. La sua ragione è sempre quella che prevale e la sua cultura pervasiva finisce per essere sentita come francamente aggressiva. In ogni caso, è così che la percepisce l’integralismo islamico[309].

 

«Ammantata nel suo “isolamento”, […] “la civiltà islamica è entrata impercettibilmente in un sonno profondo”. L’integralismo, con il suo percorso controcorrente, rappresenta appunto il rifiuto del risveglio, […] il rifiuto dell’integrazione nel pluralismo»[310]. «Gli integralismi, tutti gli integralismi, preferiscono insistere sui colpi ricevuti e inferti, i quali creano una memoria vendicativa e isolazionista. In questo modo si altera il presente e si pone un’ipoteca negativa sul futuro»[311]. «L’antidoto di questo male è “la pluralità delle culture, che è un fatto, è un bene, […] poiché solo questo pluralismo, comunicandosi a tutti, è in grado di fare espandere e di sviluppare vantaggiosamente tutte le ricchezze della natura umana”. […] Se vogliamo creare utili ponti non solo fra islam e Occidente, ma fra tutte le culture, dobbiamo continuamente batterci per aprire le frontiere dello spirito»[312].

«L’islam, oggi totalmente decolonizzato, sebbene ancora dipendente economicamente, […] contesta l’erudizione e la supremazia occidentale, e soprattutto, per bocca dei suoi integralisti, non vede nella sua cultura se non sfruttamento e avvilimento dell’uomo»[313]. Nonostante questo «cedere al pessimismo è un suicidio sia per la cultura islamica sia per la cultura occidentale. […] La cura di riconoscere e conoscere l’altro in quanto altro è una forma di rispetto, preliminare a ogni scambio che avvenga in atmosfera di mutua comprensione»[314].

 

D’altronde un fatto è certo: il nostro universo si restringe. Non abbiamo altra scelta che accettare la vicinanza e il rimescolamento culturale, […] preservare le nostre identità senza barricarci e […] ricevere e dare in un libero scambio di condivisione e di fruttificazione vicendevole. […] L’islam riceve oggi molto dall’Occidente. Ma l’Occidente è sicuro di non aver nulla da imparare dall’islam? Oggi siamo tutti sfidati a confrontarci con profondi mutamenti culturali; vengono rimessi in questione i valori che ci sembravano più stabili[315];

 

«anche l’islam è e sarà sempre più soggetto agli stessi richiami, alle stesse prove e interrogativi, […] che non risparmiano nessuna delle nostre società anche se sussistono sfumature e sfasature di diversa intensità e successione. Di fronte a queste sfide e a questi mutamenti abbiamo interesse a […] rispondere con elementi adeguati alle richieste che […] impegnano il nostro comune avvenire»[316].

 

Gli integralismi, che sono malattie dell’identità immiserita dai nostri rifiuti a cambiare, si nutrono di miseria materiale e intellettuale. […] Contro di essi «il trattamento sintomatico, puntuale e traumatico non ha efficacia. […] L’unica terapia affidabile è quella che agisce sulle mentalità e le scuote e le fa evolvere dall’interno. […] Occorre elaborare un nuovo umanesimo cui tutte le culture e le religioni diano il proprio contributo attraverso un dialogo serio e fecondo; […] per elaborare risposte comuni ai gravi problemi che la civiltà della nostra epoca ci pone, una civiltà che non è più occidentale né orientale ma semplicemente planetaria: si tratta allora di costruire, attraverso il dialogo, una civiltà umana[317].

 

 

  1. Michel Onfray: pensare l’Islam per tentare di capire l’Islam

 

Un accenno di approccio critico all’originale tesi di Žižek richiede un confronto con un pensatore altrettanto originale, quale è Onfray. Egli, dopo gli attentati di Parigi del 13 Novembre, ha scritto sul proprio account Twitter: «La destra e la sinistra hanno seminato a livello internazionale la guerra contro l’Islam politico e ora raccolgono a livello nazionale la guerra dell’Islam politico»[318].

Pur ammettendo che il suo tweet «ha provocato fin troppe reazioni negative»[319], allo stesso tempo ricorda che, mentre «il lavoro del giornalista consiste nel commentare quello che succede»[320], i filosofi hanno un compito ben diverso: «mettere in relazione ciò che è con le condizioni che hanno reso possibile quello che succede»[321]. Per questo Onfray ritiene che, in «tempi di espressioni mediatiche e di chiacchiere sui canali d’informazione non-stop»[322], momenti in cui sguazziamo «in una confusione che impedisce di condurre analisi acute o riflessioni sottili […], occorre invece venire a patti con il reale»[323], riconoscere le cose per quello che sono e chiamarle con il proprio nome. Soprattutto in periodi successivi ad eventi come atti terroristici, questo atteggiamento porta a dover affrontare la compassione poiché, in società schermate mediaticamente come quelle occidentali, è questo sentimento «a dettare le regole»[324].

 

In un mondo in cui ormai tutti si sentono autorizzati da sé stessi a esprimere le proprie opinioni, cercare di analizzare razionalmente e in tempo reale gli eventi è oggetto di riprovazione. […] Ogni volta che il potere mediatico pretenderà compassione, ci si dovrà sentire obbligati a chiedere l’autorizzazione per pensare? […] La compassione impedisce spesso di pensare; pensare invece non impedisce mai di provare compassione. […] Abbandoniamo questo narcisismo della nostra epoca che trasfigura l’esibizione del pathos in un valore più alto dell’esercizio del pensiero![325]

 

«I mass media per loro stessa definizione massificano: trasformano i popoli in folle […] che […] non pensano, non riflettono, non analizzano, semplicemente si aggregano e camminano»[326], ed è per questo che il filosofo francese si dimostra contrario a slogan come «il patetico Pray for Paris»[327] e Je suis Charlie, «uno slogan che ha impedito alla gente di pensare»[328]. Nonostante «l’ignoranza in materia non impedisca […] a certe persone di esprimere la propria opinione, netta quanto assolutamente illegittima»[329], è «con la ragione che dobbiamo avvicinarci a quello che è successo […], non con il pathos, perché in questo caso si fa il gioco dei media e dei politici liberali»[330]; «dobbiamo essere pragmatici e non ideologici: il pragmatico viene a patti con ciò che esiste, mentre l’ideologo pensa fondandosi su idee sconnesse dal reale»[331].

Sulla scia della tesi formulata da Samuel Huntington (1927-2008) nell’opera Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Onfray riconosce che «siamo di fronte a uno scontro di civiltà»[332], che «non c’è uno schieramento del bene che si oppone a uno schieramento del male, […] ma che esistono due visioni del mondo, due civiltà, e che una di esse da molto tempo umilia, sfrutta e sottomette l’altra»[333]. Nel contrasto «che oppone Islam e Occidente»[334],

 

se guardiamo ai fatti storici e non alle emozioni, il primo ad aggredire è stato l’Occidente. […] La situazione in cui ci troviamo oggi deriva da una lunga catena di cause, che sta al filosofo descrivere. L’atto terroristico in quanto tale è solo l’ultimo anello di questa catena[335].

 

«Pensare la questione dell’Islam planetario […] in una logica geopolitica internazionale e geostrategica mondiale […] oltrepassa le capacità intellettuali di coloro che dirigono i media»[336], i quali declassano «tali eventi a fatti di cronaca»[337] «senza però mai mostrare le immagini dei bambini, delle donne e delle persone anziane uccise dai bombardamenti della coalizione»[338] internazionale, il che «significa soltanto fare opera di propaganda»[339]. Per potere comprendere realmente quanto sta accadendo, bisogna valutare gli eventi «nella prospettiva di lunga durata della storia ­– una durata ignorata dai media, che non conoscono altro tempo se non quello breve dell’effetto emotivo»[340]. «Che tale scenario fosse destinato a diventare reale era cosa evidente a tutti quelli che ancora possedevano il senso dei fatti, del reale, della realtà e della storia»[341], uno scenario che ci mette di fronte «uno scorcio di quella che è la nostra epoca»[342] e che dà inizio a «una nuova era»[343]. Tuttavia Onfray ritiene che la società occidentale stia confondendo le cause con gli effetti: i regimi islamici del pianeta minacciano l’Occidente solo da quando l’Occidente li minaccia. E noi li minacciamo solo da quando questi regimi, che controllano sottosuoli e territori di vitale importanza per il consumismo occidentale e di rilevanza strategica per gli equilibri planetari, manifestano la volontà di essere sovrani in casa propria. […] I diritti dell’uomo sono semplicemente un pretesto per perpetuare il colonialismo dietro la copertura, politicamente corretta, dell’umanitarismo, oppure con la scusa, politicamente redditizia, di dover placare le paure dei nostri concittadini[344].

 

In questa prospettiva gli attacchi terroristici rappresentano «sicuramente un atto di guerra, ma è altrettanto vero che si tratta di una risposta ad altri specifici atti di guerra»[345] compiuti dall’Occidente, la cui responsabilità è da attribuire ai «politici della destra e della sinistra liberale che, alternandosi al potere, […] hanno rinunciato a qualsiasi morale e a qualsiasi forma di spiritualità»[346], conducendo «una politica schizofrenica: islamofoba all’estero e filoislamica all’interno»[347]. Gran parte della classe politica occidentale, e anche dei media dominanti, sostenendo un profilo che si dimostri il più politicamente corretto, continua a dichiarare che gli atti terroristici «non hanno niente a che fare con l’Islam»[348]; a ripetere «l’antifona di un Islam “religione di pace, di tolleranza e di amore”»[349]; ad affermare che «lo Stato Islamico non esiste, non è uno Stato e non è islamico»[350] (pur continuando ad usare l’appellativo Daesh, «una parola che indica, ma in lingua araba, l’esistenza di uno Stato Islamico, che è uno Stato e che è islamico»[351]). Contemporaneamente la stessa classe politica persiste nel votare «a favore di tutte le guerre contro l’Islam»[352] e nel «portare avanti la sua politica internazionale, assimilabile a un neocolonialismo»[353]. Questa politica beneficia del «concetto di “guerra preventiva”, […] servito solo a giustificare l’attacco quando l’attacco era stato già deciso»[354], o «del cosiddetto “diritto d’ingerenza”»[355], che si tramuta nel «diritto di dettar legge in altri Paesi del mondo, al fine di imporre agli stessi il proprio stile di vita, per il loro bene»[356]. «L’unico principio che autorizza l’uso della forza, […] è quello che discende da un rapporto di superiorità e di predominio»[357], il quale «risponde sempre alla vecchia logica colonialista»[358]. «Preferiamo pensare che stiamo lottando contro il terrorismo, quando invece è proprio agendo in questo modo che lo riproduciamo»[359]. Secondo Noam Chomsky la «“guerra al terrore” […] probabilmente genera nuovi terroristi più in fretta di quanto uccida le persone sospette»[360], ma soprattutto rischia «di far esplodere una guerra di vasta scala col “mondo musulmano”»[361]. «La cultura politica occidentale, […] vinta la lotta mortale con le dittature del Novecento, ha consacrato il primato dei diritti e delle libertà, annunciandone la portata universale»[362], aprendo così «un contenzioso interminabile con istanze culturali, e religiose, che privilegiano i diritti di Dio sui diritti dell’uomo»[363]. Non dobbiamo dimenticare che «le guerre fanno la fortuna degli industriali americani, e che questi ultimi rimangono sempre i finanziatori delle campagne democratiche e repubblicane per la Casa Bianca»[364].

Nonostante si voglia «far credere che il terrorismo non abbia niente a che vedere con l’Islam politico»[365], anzitutto per «non figurare come islamofobi»[366], Onfray è convinto che i suoi esponenti rappresentino una delle sue «possibili manifestazioni»[367]. Oltre a «essere una spiritualità intima e personale, una religione privata, l’Islam possiede anche un aspetto politico e, in quanto religione di Stato, è intrinsecamente teocratica»[368]. «Qualsiasi confine tra il sacro e il secolare indicherebbe che […] ci sia più di un’autorità assoluta; […] ciò implicherebbe l’esistenza di più di un Dio»[369], idea incompatibile con un monoteismo assoluto come quello islamico. «Aderire all’Islam […] significa aderire a un modello teocratico, perché la parola di Dio dice il vero in ogni cosa; […] tutto il potere proviene da Dio»[370]. Grazie agli studi di FethiBenslama contenuti nell’opera La psicoanalisi alla prova dell’Islam, Žižek spiega perché «il Corano non separa mai l’Islam dalla politica, la religione dallo Stato»[371]:

 

Contrariamente sia all’ebraismo che al cristianesimo, […] l’Islam esclude Dio dal dominio della logica paterna: Allah non è un padre, nemmeno simbolico – Dio in quanto Uno non è né generato né dà vita alle creature, […] cosicché si crea un «deserto genealogico tra uomo e Dio». […] Ciò inscrive la politica nel cuore stesso dell’Islam, dal momento che il «deserto genealogico» impedisce la fondazione di una comunità nelle strutture di parentela e in altri legami di sangue: «il deserto tra Dio e il Padre è il luogo in cui si istituisce il politico»[372].

 

Esistono «versioni più docili […] e versioni più rigide»[373] dell’Islam; «il Corano offre di che giustificare il meglio e il peggio»[374], contenendo «testi eterogenei, testi che dicono alcune cose e testi che, qualche versetto dopo, dicono il contrario»[375]. «Un gran numero di sure legittimano le azioni violente; […] altre, meno numerose – ma esistono anche loro – invitano all’amore, alla misericordia e al rifiuto della coercizione»[376], rendendo possibili «almeno due modi di essere musulmani»[377], «due modi persino contraddittori»[378] tra i quali «non esiste differenza di natura ma di grado»[379].

 

La contraddizione è insita nel testo. […] È tutta una questione delle fonti a cui si attinge. Chi desidera a priori la pace troverà delle sure che gli diano ragione; ma anche chi desidera a priori la guerra avrà a propria disposizione altre sure che gli daranno ragione[380].

 

«L’Islam è tutto questo: la parte migliore e la parte peggiore assieme»[381]. Se «non c’è niente da dire […] quando è vissuto in maniera intima, personale e soggettiva»[382], «è quando l’Islam diventa politico che si pone il problema»[383], quando «smette di essere una questione tra sé e sé e diventa una questione tra sé e gli altri»[384]: «un Paese fondato sull’Islam di pace non avrà lo stesso sviluppo storico di un Paese che sceglie invece l’Islam di guerra»[385].

In questa lettura della religione islamica, con cui l’Occidente è costretto a confrontarsi, il fondamentalismo rappresenta «la sua versione radicale e armata, brutale e letterale; […] occorre lottare contro questa precisa formula e mettere assieme tutti quelli che la avversano, musulmani compresi»[386]. Nella nostra epoca, mentre «il cristianesimo […] è diventato minoritario»[387], «l’Islam è una religione la cui potenza è in crescita, […] può rivendicare un grandissimo numero di fedeli sparsi su tutto il pianeta»[388]; contemporaneamente «l’Occidente si trova a fine corsa e […] l’Europa mostra i segni della decadenza»[389]. Per fronteggiare la situazione, Onfray ritiene che l’Occidente debba considerare «un radicale cambiamento della propria politica e […] rinunciare all’imperialismo planetario in favore di una neutralità che costringa all’impegno militare solo in caso di reale minaccia, […] e solo dopo un referendum»[390]. Nel tentativo di «raggiungere, un giorno, una soluzione diplomatica»[391], «il miglior modo di lottare contro l’islamofobia è costruire un Islam repubblicano»[392], «fondato sulle sure pacifiche»[393], «che favorisca la propria parte pacifica, così come espressa nel Corano»[394]. Per conseguire questo obiettivo bisogna «proporre all’Islam un contratto sociale»[395] che, dando origine «a un lavoro di riflessione»[396], porterebbe alla formazione di una versione islamica «chiaramente compatibile con i valori»[397] occidentali di «libertà, eguaglianza, fraternità, laicità e femminismo»[398]. Inoltre, grazie al finanziamento «garantito da un’imposta di culto»[399] che preveda anche l’ateismo e l’agnosticismo, questa nuova forma di Islam non sarebbe più sostenuta da Paesi che non evitano di mostrare e dichiarare il proprio antagonismo nei confronti dell’Occidente.

Nel corso della storia «è successo spesso che il sangue venisse versato in nome di Dio. Credere in Dio non rappresenta quindi una garanzia etica o morale»[400]. Per questo Onfray propone «un’alternativa filosofica alla proposta religiosa, […] una spiritualità non religiosa»[401] che eviti «di trattare della figura di Dio, senza per questo negarla, ma lasciandola alla discrezione di ognuno»[402], e affermi che «si può essere morali indipendentemente da Dio, addirittura senza Dio»[403]. L’affermazione di «una morale dissociata dalle morali religiose»[404] consentirebbe di «poter leggere con occhi da storici i testi sacri di tutte le religioni come si fa con i testi filosofici, spirituali e politici – tanto più che i tre testi monoteisti sono anche testi filosofici, spirituali e politici»[405] – oltre a consentire la nascita di un’etica

 

fondata sul vecchio comandamento «Non uccidere»: […] etica minimale ridotta a praticamente a un nulla […] che però vale tutto, perché afferma che nessuna ragione è mai buona per uccidere un uomo. Nessuna. In ambito etico, basterà questo per cominciare[406].

 

«L’Islam, che non nasconde la propria natura bellicosa e invadente, merita una politica internazionale molto diversa da quella dei cannoni. Questa politica alternativa avrebbe certo degli effetti, […] il primo dei quali sarebbe quello di allontanare la minaccia terroristica»[407]. Tuttavia, «fintanto che la legge in vigore sarà quella del taglione, non ci sarà diritto né pace. Incrementare i bombardamenti significa incrementare il rischio di ritorsioni terroristiche»[408]. Adesso che «il potere costituito ha […] deciso che questa è una guerra»[409], si «dovrebbe dare dimostrazione di un po’ di modestia e di molto senso della storia e ammettere infine che la carta della pace vale la pena di essere giocata»[410]. «Potrebbe darsi che il pensiero islamico abbia compreso il pensiero occidentale più di quanto ne sia stato compreso»[411]; per questo bisognerebbe agire al fine di «rendere popolare la ragione»[412] e accrescere la conoscenza e la comprensione dell’Islam, […] discuterlo, valutarne le opposte letture e confrontarle, […] per non lasciare il monopolio della lettura a individui che vorrebbero farne soltanto un libro di guerra. Occorre creare dei luoghi laici di lettura […] dove leggere il Corano da filosofi, cioè da amanti della saggezza[413].

 

Si dovrebbe capire che «per avvicinarsi al Corano, […] più che la fede, l’obbedienza e la sottomissione, occorrono la scienza e l’intelligenza»[414]; e in particolar modo ricordare sempre che «la risposta peggiore alla violenza è la violenza»[415].

 

Pietro Candeliere*

* Pietro Candeliere, Dottore in Scienze della Comunicazione, Università degli Studi del Molise. Email: pietro.candeliere@gmail.com.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

 

  • Alberti L., 1993, L’Islàm e la modernità, in A.M. Delcambre (a cura di), Maometto il profeta e l’Islam, Universale Electa/Gallimard, Trieste.
  • Alberti L., 1993, Musulmani nel mondo, in A.M. Delcambre (a cura di), Maometto il profeta e l’Islam, Universale Electa/Gallimard, Trieste.
  • Berman P., 2004, Terrore e liberalismo. Perché la guerra al fondamentalismo è una guerra antifascista, Einaudi, Torino.
  • Chomsky N., Polychroniou C.J., Horror Beyond Description: Noam Chomsky on the Latest Phase of the War on Terror, disponibile all’URL: http://www.truth-out.org/news/item/33888-horror-beyond-description-noam-chomsky-on-the-latest-phase-of-the-war-on-terror (letto il 12/03/2016).
  • Delcambre A.M., 1993, Corano e Sunna, fonti dell’Islàm, in A.M. Delcambre (a cura di), Maometto il profeta e l’Islam, Universale Electa/Gallimard, Trieste.
  • Huntington S. P., 2013, Ordine politico e scontro di civiltà, Il Mulino, Bologna.
  • McDonald K., Isis jihadisaren’t medieval – they are shaped by modern western philosophy, disponibile all’URL: http://www.theguardian.com/commentisfree/2014/sep/09/isis-jihadi-shaped-by-modern-western-philosophy (lettoil 12/03/2016).
  • Onfray M., 2016,Pensare l’Islam, Corriere della Sera, RCS MediaGroup, Milano.
  • Pace E., Guolo R., 1998,I Fondamentalismi, Laterza, Roma-Bari.
  • Scarcia Amoretti B., L’Islam tra tradizione e modernità, disponibile all’URL: http://www.pedagogia.it/UserFiles/File/Islam_ScarciaAmoretti.pdf (letto il 09/03/2016).
  • Scillitani L., 2012,Tra (parziale) de-islamizzazione e (tentata) re-islamizzazione del diritto: un difficile esperimento di (teo)democrazia, in Shahid Mobeen (a cura di), Religione e libertà in Pakistan dal 1970 al 1990, Editrice APES, Roma.
  • Talbi M., introduzione di Pacini A., 1999, Le vie del dialogo nell’islam, Fondazione Giovanni Agnelli, Torino.
  • Žižek S., 2015, L’Islam e la Modernità: Riflessioni Blasfeme, Ponte alle Grazie, Adriano Salani Editore, Milano.

 

ISLAM, MICHEL ONFRAY, MODERNITÀ, SLAVOJ ŽIŽEK

I nostri recapiti

Redazione

Via delle Rosine, 15 - 10123 Torino

Sede di studio

Via delle Rosine, 11 - 10123 TORINO

 

ISSN

ISSN 2421-4302

powered by