Sergio Cotta, un Cristiano Cattolico Pensante. Ricordi e pensieri di un anziano ex allievo

Sergio Cotta: un Cristiano Cattolico Pensante.

Ricordi e pensieri di un anziano ex allievo

Pierfranco Ventura

Augustine, Kierkegaard, and Rosmini are three great Christian thinkers and they spangle the firmament (together with Husserl and Blondel), which led Sergio Cotta during his long intellectual itinerary. Cotta was a Christian-Catholic author capable of thinking philosophically the Truth with great sense of openness to modernity: the religious Truth of the «living God» (trinitarian and lógos-incarnate God); the metaphysical Truth of the Being and the Spirit (of/by Gift); the existential and co-existential Truth of Love (individual-relational one) and of History (personal, collective and eternal one).

1. Sergio Cotta fu un vero cristiano e un vero cattolico. Credeva, con profonda motivata convinzione personale, nella Verità cristiana e praticava la sua Fede dentro la Chiesa Cattolica Romana, intesa come universalità reale di tale Verità. Testimoniava concretamente questo suo cristianesimo cattolico nella famiglia, con un grande amore verso la moglie, i figli e i nipoti, nell’insegnamento, con una cura partecipe verso gli studenti e gli allievi, nella vita pubblica, con la presenza attiva in varie iniziative culturali, politiche e religiose, nella carità, anonima e delicata; ma soprattutto nella ricerca filosofica, con i suoi studi seri, intelligenti e impegnati, nei quali spandeva, sempre, indirettamente o direttamente, le sue pensanti convinzioni religiose e civili.

Certo, Cotta era un cristiano-cattolico sui generis. Piemontese e nobile di spada, dava a vedere un personale rigorismo, forse un po’ giansenista e gallicano. Fu accusato di protestantismo e di kantismo; ma era solo un «modernista», consapevole cioè della «sfida secolarizzante» che la «modernità tecno-logica» lancia alla filosofia e alla religione, in special modo a quella cristiana e in un modo ancor più penetrante a quella cattolica, da sempre anti-moderna. Egli, poi, nella Resistenza anti-nazista e anti-fascista, prese le armi e combatté valorosamente. E questo, per un cristiano, in genere inerme e pacifico, è particolarmente significativo di una testimonianza «militante» della Fede professata. Un po’ riservato, ma fu sempre rispettoso della gerarchia ecclesiastica, del Papa e delle loro parole autorevoli. Fu sempre estraneo a ogni forma di autoritarismo clericale e di intrallazzi e ingerenze chiesastiche. Fu un «laico», ma non un laicista. Fu un cristiano-cattolico libero e, come detto, pensante.

Una volta mi confidò: «Mi sono fatto una ragione di tutti i dogmi e di tutti gli aspetti della Fede, anche di quelli secondari o marginali». La sua Fede cercava «l’intelletto»; egli «pensava per credere», cioè credeva il credibile a motivo della ragione: ciò che si può e si deve credere secondo il cogitare riflessivo.
Cotta fu partecipe attento ai lavori del Concilio Vaticano II, del quale apprezzò l’intento generale di aggiornamento della Chiesa al mondo contemporaneo, cioè alla «modernità culturale e civile. Fu lettore e interprete vivo della costituzione Gaudium et spes, sulla quale scrisse pagine molto importanti.

2. Nella ricerca e nella produzione filosofiche, Cotta non fu, certo, uno di quei pensatori che vengono chiamati o si chiamano da sé cristiani o, tanto meno, cattolici. Non era un tomista o un neo-scolastico. Diffidava dell’accostamento di Fabro fra tomismo e pensiero moderno; e, quanto a Maritain, giudicava incerta la sua posizione sulla «modernità». Cotta – lo ripeto – era un «modernista»; e questo spiega anche le sue difficoltà (disagi teoretici e incomprensioni accademiche) con l’Università Cattolica di Milano. Per Cotta, la «modernità» andava esaminata, criticata e sussunta nel suo meglio: «coscienza dinamica», «essere-per-la-vita» della scienza e delle tecniche (la medicina, anzitutto), meditatio mortis. È vero che il primo libro di Cotta verte su S. Tommaso, in uno strano rapporto con Kelsen; ma esso venne da lui ripudiato e ritirato dal commercio.
Fu piuttosto il suo libro su S. Agostino a inaugurare la vera e propria produzione filosofica di Cotta e a influenzarla, con un interessamento costante a questo autore per tutta la vita. Agostino gli appare «modernizzante» nella sua propensione a indagare «le confessioni» dell’anima. Cotta, d’altronde, cominciò molto presto a interessarsi di Montesquieu e Rousseau: due autori «moderni», senza alcun dubbio. E i suoi primi «itinerari esistenziali» sono segnati dalle tracce inconfondibili di Kierkegaard, come filosofo del Singolo esistente relazionale-relazionato, e non invece come scrittore «edificante», cioè religioso-cristiano e critico della «cristianità stabilita».
Cotta ha tenuto sempre a mantenere una netta separazione tra filosofia, da una parte, e teologia (religione e cristianesimo e cattolicesimo), dall’altra. En passant: da questo punto di vista si spiegano molte sue discussioni e polemiche, anche con persone a lui vicine.
La testimonianza di Cotta, del suo essere ed esistere come cristiano-cattolico, in Filosofia è presente indirettamente, ma chiarissima. Dopo Agostino, il suo autore preferito fu Rosmini. Tentò il possibile per districarsi in quello ch’è stato chiamato da Fabro L’enigma Rosmini per il suo inafferrabile tomismo (senza citazioni esplicite di Tommaso) e per la sua indefinibile idea di «essere». Un lavoro lungo e impegnativo, anche sul piano della edizione rosminiana (Filosofia della politica).
Dunque: Agostino, Kierkegaard, Rosmini: tre filosofi innegabilmente cristiani e anche cattolici o cattolicheggianti. Attraverso essi, Cotta dichiara la propria adesione fenomenologico-esistenziale alla filosofia dell’Essere, definendosi esplicitamente un onto-fenomenologo. Ma da Montesquieu e Rousseau riceve quella impronta «moderna» che lo caratterizza come filosofo sempre attento alla storia e alla sua attualità. Essere e storia, eterno e tempo si rinviano reciprocamente in un realismo rinnovato, che pure rimane per molti ed essenziali versi quello classico e della tradizione cristiano-cattolica, fatto di ontologia perennis e di moderna fenomenologia.
Cotta rimane lontano dai grandi filosofi (protestanti) dell’idealismo tedesco: Kant, Hegel, Schelling. Giusto qualche breve riferimento allo schematismo kantiano (inteso come struttura ontico-esistenziale), allo spirito oggettivo hegeliano (descrizione dello Stato); Schelling, invece, era ritenuto da Cotta un autore oscuro.
Migliore e più ampia considerazione, invece, mostra Cotta per Heidegger; ma sempre entro limiti circoscritti: lo «essere-di-fronte-alla-morte», la temporalità dello «esser-ci» (ma con decisa preferenza per la «durata di Bergson», la «questione e l’oblio dell’essere»; ma ciò non bastava a compensarne lo stile faticoso e affaticante e gli equivoci storico-politici.
Negli ultimi anni, Cotta fu molto interessato da Wittgenstein e, soprattutto, da Husserl; cercava infatti una formulazione e una sostanza filosofiche che fossero – mi disse – «le più dure, concise e scarnificate possibile». Seguendo questa esigenza «essenzialistica» cercò e studiò, alla fine, Blondel. Ancora dunque un autore cristiano-cattolico, ma molto particolare: L’essere e gli esseri, ma sempre con riferimento alla esistenza e alla storia: L’azione.
Se si volesse sintetizzare in una sequenza di autori l’ispirazione e la simpatia filosofiche del cristiano-cattolico pensante Sergio Cotta e dunque la sua testimonianza indiretta di Fede in Filosofia, si potrebbe dire: Agostino, Kierkegaard, Rosmini, Blondel.
Non manca, tuttavia, una parte della produzione filosofica di Cotta nella quale egli, direttamente, tratta di questioni religiose, cristiane e cattoliche, anche sul piano civile. Per questo ho sempre auspicato che venissero pubblicate le opere minori di Cotta (numerosissime e interessantissime) in tre volumi: 1. Scritti filosofici; 2. Scritti religiosi; 3. Scritti storici e politici. E per questo sono lieto di avere appreso che, presto, gli Scritti religiosi compariranno presso l’editore Rubbettino a cura di Marco Stefano Birtolo, Angela Landolfi e Lorenzo Scillitani.

3. Può essere interessante, per questo ricordo riflessivo di Sergio Cotta, ripensare qui ai giudizi che Cotta dava su filosofi suoi colleghi e come lui cristiano-cattolici.

Di Augusto Del Noce, aveva stima, ma lo riteneva troppo tradizionalista come interessi storici e teologici e come impostazione teoretica e religiosa; e dunque facile a scadere nel conservatorismo passatista e persino reazionario. Cotta era – lo ripeto – un «modernista» e anche, in un certo senso, un «futurista» della modernità. Non c’ era per lui «post-modernità», se non intellettualistica; siamo ancora in un moderno pieno di possibilità positive e, certo, anche negative, tra le quali occorre scegliere argomentando bene e con impegno nel merito di esso, ancora e per chi sa quanto in atto.
Di Vittorio Mathieu, aveva una grande stima, del resto ricambiata dallo stesso Mathieu il quale diceva, di sé, che aveva proceduto dalla Filosofia generale alla Filosofia giuridico-politica e, di Cotta, che aveva percorso un cammino inverso, dalla Filosofia del diritto e della politica alla Filosofia generale. Mathieu, però, in fatto di religione e di cristianesimo, diceva delle cose un po’ strane: ad esempio, una volta, in un dibattito televisivo, sostenne tranquillamente che sulla pena di morte bisognava riflettere attentamente prima di … abolirla; senza di essa, infatti, non ci sarebbe stata la morte in croce di Gesù Cristo e dunque la redenzione (sic!) … Venne emarginato dal dibattito
Di Luigi Pareyson, del quale pure apprezzava il libro Esistenza e persona, riteneva confusa e oscura l’opera filosofica; e non poteva essere diversamente – diceva – data la sua provenienza da Schelling, la quale spiegava anche, di Pareyson, la Fede angosciosa (ma Schelling, considerato nella sua realtà testuale, è un filosofo, forse anzi «il» filosofo più meta-problematicamente profondo-e-eccelso e quasi tutto ancora da scoprire pensandolo attentamente).
Di padre Cornelio Fabro, diffidava fortemente. Come detto, il suo tomismo per il «pensiero moderno» non lo convinceva affatto. La Alienazione dell’Occidente gli pareva troppo unilaterale. Lo accusava poi di rapporti poco chiari con la Chiesa (e, effettivamente, Fabro mi disse di Papa Giovanni Paolo II: «Il grave non è che dica sciocchezze – tutti diciamo sciocchezze –; ma che lui è convinto di dire cose intelligenti»); e lo riteneva responsabile di propalare scritti anonimi, politici e religiosi, di stampo anti-conciliare, ultra-tradizionalistico e lepantino. Tra Cotta e Fabro non ci fu mai un vero e proprio dialogo filosofico (neppure quando furono chiamati, insieme, a collaborare all’«Osservatore romano»); lo impediva una previa incompatibilità di carattere – laico-coniugato l’uno, monaco-prete l’altro – e un approccio teoretico del tutto differente: «modernista» e «tomista», onto-logico e teo-logico; anche se tutti e due erano filosofi dell’esistenza.
Con Pietro Prini, aveva un rapporto, umano e religioso, molto amichevole. Però non condivideva la posizione di grande apprezzamento che Prini aveva verso Marcel e la «fenomenologia dell’inverificabile». Cotta, come Prini, seguiva un punto di vista filosofico di marca «esistenziale», ma sempre in una prospettiva ontologica; il «mistero dell’essere» era per lui sempre «verificabile», sia pure ad infinitum. Si allontanarono, alla fine, per l’imprevisto, sorprendente «ultra-modernismo» di Prini ne Lo scisma sommerso.
Di Claude Bruaire, Cotta pensava che la sua speculazione non avesse «scientificità filosofica» e fosse dunque sospesa inconcludentemente fra teologia, metafisica e antropologia. Ricordava poi che Bruaire era una persona divorziata; e faceva bene a ricordarlo: per un «filosofo dell’Assoluto», quale Bruaire diceva di essere, divorziare non può che significare: scherzare con l’Assoluto. Si rimane perplessi nel leggere la dedica che Bruaire fece al suo ultimo libro La force de l’esprit: «A Melika Mezghach» (una redattrice televisiva). Ciò non toglie che l’opera di Bruaire, nella sua luminosa grandezza, aspetta ancora di essere ripresa, come auspicato tempo fa da Marion. Ma, forse, questa ripresa è già iniziata con lo scritto eccellente di Davide Galimberti Lo spirito c’ è (Roma, 2016).
Di don Italo Mancini, autore di un corposo L’ethos dell’Occidente, Cotta diceva che era un «maestro di citazioni»; in effetti lunghe e lunghissime
Di don Luigi Giussani, diceva che era un buon «letterato», non un pensatore. E da ciò ricavava la convinzione che tutta la posizione culturale di Comunione e liberazione era molto debole sia sul piano religioso che su quello civile e, soprattutto, politico. Chiara conferma della verità di ciò è il recente, deludente libro di don Julián Carrón, erede di don Giussani, La bellezza disarmata (Milano, 2015).
Grandissima stima, invece, Cotta aveva per Karol Wojtyła e Joseph Ratzinger. Verso il primo, però, si trattava piuttosto della stima per «l’unico grande leader rimasto oggi al mondo»; i suoi scritti filosofici gli sembravano «leggeri», sia quelli tomistici sia quelli fenomenologici (scheleriani). Del secondo, invece, apprezzava il rigore del discorso e l’essenzialità del contenuto.
Tra gli storici – e Cotta stesso fu storico nel suo Quale Resistenza? –, stimava il cattolico-democratico Scoppola, con il quale collaborò in varie occasioni all’Istituto Sturzo, e il liberale De Felice. Tuttavia, riteneva che l’opera voluminosa di quest’ultimo su Mussolini e il fascismo si potesse prestare a equivoci interpretativi dato il suo carattere prevalentemente biografico e cronachistico, e dunque poco pensante e positivamente critico. Storia e Filosofia, secondo Cotta, non si possono separare; così come Filosofia e Storia.

4. La maggiore testimonianza che, nella vita pubblica, Cotta ha dato del suo essere cristiano-cattolico è stata certamente quella del suo impegno ai vertici dei Comitati per i referendum sul divorzio (1974) e sull’aborto (1981).
Per la verità, Cotta ritenne questi due referendum iniziative anzitutto laiche e non religiose. Per lui si trattava di fronteggiare i rischi relativistici de La sfida tecnologica con un «supplemento di Assoluto»: l’indissolubilità del matrimonio (eterosessuale, esogamico e monogamico) e l’inviolabilità dell’embrione, «uno di noi», anzi «il più piccolo di noi».
Per il referendum sul divorzio, la mobilitazione del mondo cattolico fu compatta, dai politici D.C. (Fanfani), ai parroci, alle associazioni. Per il referendum sull’aborto, invece, la defezione dei cattolici fu ampia, infastidita nelle parrocchie e reticente negli intellettuali (per fare un esempio: il professore universitario don Giovanni Ferretti fu richiamato dal Vescovo di Macerata per avere pubblicamente aderito alle tesi abortive). Non si voleva perdere di nuovo; perdere la faccia, si diceva … E, di fronte al risultato schiacciante (68% per l’aborto, 32% contro), Cotta fu quasi ritenuto il responsabile della disfatta; e venne così emarginato dal mondo cattolico ufficiale o, almeno, da quello ecclesiastico, che, vergognosamente, si vergognava di esibire un perdente, come se il cristiano dovesse essere uno di successo e non invece il contrario, uno perseguitato, come in effetti fu Cotta. Fu anche accusato di tradizionalismo conservatore e di tradimento (da destra) dello spirito della Resistenza (pretesa indebitamente di sinistra, comunista). Amaro
Cotta, in fondo, fu più prudente (di me ed altri) nel valutare lo scacco. Giudicò la legge sull’aborto un «grave vulnus» all’ordinamento e non la sua dissoluzione. Secondo me ed altri, invece, una volta posto il principio che un/a Singolo/a possa essere «eliminato/a» (per legge e con l’intervento attivo, sanitario dello Stato), non ci fu e non c’è dubbio che il Diritto sia sostanzialmente «dis-ordinato» e la Giustizia «de-stituita». Si pensi, in particolare, al timbro del giudice accanto alla firma dei genitori nella autorizzazione dell’aborto di una minorenne: una vera e propria condanna a morte: il vulnus, nonché in-costituzionalmente radicale, si è raddoppiato. E si pensi poi anche al fatto scandaloso che la legge sull’aborto divenne vigente con la firma di tutti democratico-cristiani: Leone, Andreotti etc. Il vulnus si triplicò. Lì iniziò la morte della D.C.; e l’agonia si chiamò De Mita, Forlani … e simili …
Non ci fu da noi, in Italia, un re Baldovino di Belgio che si dimise per un giorno pur di non firmare la legge belga sull’aborto (= omicidio o, più pudicamente, «interruzione di gravidanza»).
Sia pure posto, come perdente, ai margini del mondo cattolico e civile, Cotta continuò a testimoniare nella vita pubblica le sue convinzioni e la sua Fede: sui giornali, sulle riviste, alla radio, alla televisione, nei convegni, incontri e congressi, in Italia e all’estero continuò a chiedersi costantemente Perché la violenza?. Lo si ricorda, nei terribili anni ’70, girare per l’Università, con il suo barattolino di vernice nera e il suo pennelletto, a cancellare le scritte violente dei simpatizzanti per il terrorismo; e spesso impedito di fare lezione.
Nei Colloqui Castelli (poi Olivetti), Cotta si confrontò a lungo con i migliori esponenti della cultura cristiana e cattolica d’Europa. I suoi numerosi e originali interventi sono negli Atti dei Colloqui autorevolmente insieme a quelli di Ricoeur, Bruaire, Tillette, De Waelhens, Panikkar etc.
Come Presidente della Unione Giuristi Cattolici, e Direttore della rivista «Iustitia», si vantò, alla fine del suo mandato, di avere assolto ai suoi compiti «senza le due ali solite del potere: la politica e la Chiesa».
Si disse che era dell’Opus Dei; ma non era vero, anche se collaborò a molte delle sue iniziative (ma come anche di altre sigle) educative e culturali e alla sua rivista «Studi Cattolici».
Verso la fine della sua presenza pubblica (fine anni ’90), Cotta cercò, con il professor Luigi Capozzi, a Napoli, di organizzare una iniziativa culturale, politica, giornalistica e universitaria nella quale potessero convergere personalità e gruppi cattolici e liberali. Non se ne fece nulla per un banale disaccordo sulla responsabilità della firma della nuova rivista … Ciò dice, comunque, quanto, sino al silenzio finale, Cotta fu un filosofo moderno molto impegnato, da laico, nella attualità religiosa e civile.

5. La Scuola romana di Filosofia del diritto, guidata da Sergio Cotta, non si poteva certo dire, ex professo, né cristiana né cattolica. Esprimeva, semmai, una compatibilità filosofica di fondo con la Fede per il suo indirizzo realistico-fenomenologico-esistenziale; e manifestava, nei suoi componenti, un vario interessamento filosofico-religioso senza pre-giudizi confessionali o, tanto meno, clericali.
L’appartenenza alla Scuola dipendeva, informalmente, dal riconoscimento di Cotta, da parte di una persona, quale «autorità magistrale» in ambito scientifico; era suo allievo chi riconosceva il suo giudizio, sempre critico e costruttivo, sui propri scritti e partecipava, in senso culturale e didattico, alle attività dell’Istituto di Filosofia del diritto nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Roma La Sapienza. Gli allievi, dunque, dialogavano con Cotta nel merito della propria ricerca e condividevano un certo orizzonte di studi.
Non mancarono casi, limitati, di incomprensione scientifica e di rottura personale o accademica.
Cotta, come già accennato, fu sempre favorevole ad una separazione precisa tra filosofia, intesa come «scientifica», e teologia o religione. Per lui intelligere e credere erano collegati ma solo indirettamente. I relativi spazi e metodi disciplinari erano in sé del tutto diversi; anche se la Fede restava sempre quaerens intellectum. Nell’ambito della Scuola e tra gli allievi, però, non mancarono in proposito sfumature, differenze, confronti e contrasti.
Ad esempio, Francesco D’Agostino fu sempre considerato dallo stesso Cotta, con me espressamente, un teologo, non un filosofo. E tanto ciò era vero che, alla fine, si dichiarò pubblicamente uno «studioso di San Tommaso», inteso come il definitivo ipse dixit, il non plus ultra in teologia-e-(ancillare-)filosofia, in sancta doctrina. Si può dire, inoltre, che, per questo, D’Agostino fu l’effettivo rappresentante della Scuola presso la Chiesa ufficiale, ricevendone riconoscimenti e incarichi. Ancora di recente, rappresentava in un convegno diocesano i «laici di Roma».
Significativa fu la polemica sorta fra Cotta e Luigi Lombardi Vallauri, il suo primo allievo, quando questi, già espostosi contro l’aborto («sadistico») con un cattolicismo energico, passò ad un violento attacco pubblico contro la Chiesa cattolica come «romana» (ad un Congresso internazionale di Filosofia del diritto a Tubinga) e ripensò, addirittura, l’aborto quale marron glacé. Tutto cominciò con uno screzio tra Lombardi e Cotta sulla opportunità o meno di interrogarsi circa «Dio e il sesso»; Lombardi, divertito, vivacemente favorevole, Cotta, infastidito, del tutto contrario.
Un non-detto originario, invece, ci fu sempre tra Cotta e Bruno Romano. Quest’ultimo era un cattolico praticante; ma, con Heidegger, si dichiarava «a-teos». Come al solito quando c’è Heidegger di mezzo, tutto resta equivoco: di quale Dio si tratta? Non certo del Dio che «solo ormai ci può salvare»; il «Dio ultimo» per «l’‘uomo ultimo». O sì? Cotta mi disse di non capire proprio perché bisognasse sforzarsi di capire uno come Heidegger che non vuole farsi capire e, dunque, a maggior ragione, un heideggeriano, doppiamente oscuro. Ma forse la causa della frizione era, all’origine, l’interpretazione romaniana del cristiano Kierkegaard, freddamente hegeliana, che Cotta, in qualche modo, aveva dovuto mandar giù per ragioni di urgenza concorsuale.
Sorprendente fu, da parte di Cotta, l’indicazione di Bruno Montanari come titolare dell’insegnamento di Filosofia del diritto all’Università cattolica di Milano, lasciato vacante da Lombardi Vallauri, il cui militante orientalismo post-cattolico fu ritenuto dalle autorità ecclesiastico-accademiche incompatibile con una docenza presso «il Sacro Cuore». Montanari era un divorziato (intenzionale, cioè uno che aveva «giocato con l’Assoluto», come ebbi a dirgli); non mi sembrava più adatto di Lombardi per dare dalla cattedra una testimonianza esemplare di cristianesimo cattolico. Cotta mi obiettò che Montanari «continuava a interessarsi dei figli»; ma io gli replicai che questo non c’ entrava nulla con l’insegnamento alla Cattolica. Comunque, venni poi a sapere che una parte consistente dei docenti titolari di affidamento alla Università del Sacro Cuore erano … separati … divorziati …: un refugium peccatorum
Non mancavano, peraltro, nella Scuola romana allievi di Cotta che dichiaravano esplicitamente il proprio credo. Ricordo tra questi, ad esempio, Paolo Pasqualucci, osservante tradizionalista «duro e puro», dai tratti ascetico-afflittivi (non a caso – si dice – finito tra i monaci d’Irlanda).
C’erano poi i cosiddetti «padovani»: già allievi di Enrico Opocher (cattolico e «resistente»), si erano aggregati alla Scuola, portandosi dietro tutto il peso dottrinario della loro super-ortodossia: Cavalla, Gentile, Todescan, Andreatta, Zaccaria. Insieme a loro, si scrisse, verso i primi agitati anni ’70, La società criticata, un libro culturalmente combattivo, ricco di spunti e ragionamenti «diversi» dal clima «secolaristico» del tempo.
Nel sottinteso filosofico-religioso cristiano-cattolico, comune a Maestro e allievi, ci furono diverse iniziative culturali della Scuola romana in collaborazione e confronto con realtà filosoficamente e religiosamente affini. Basti qui ricordare il convegno di Pamplona (fine anni ’80), all’ Università Cattolica di Navarra, su «Amore, matrimonio e famiglia», i cui Atti, tuttavia, non vennero pubblicati per divergenza di opinioni tra la redazione e i testi di alcuni autori ritenuti da censurare (in particolare quelli di Lombardi e del sottoscritto). Questo per dire quanto l’apertura mentale e filosofica di Cotta, e della sua Scuola, si distinguesse dalla chiusura accademica e culturale di istituzioni sedicenti «cattolicissime».

6. Personalmente, ho sempre avuto, con Cotta, un rapporto di grande simpatia e intesa sul piano sia filosofico che religioso. Ammiravo la sua serietà rigorosa, nel pensare e nel credere, la sua intelligenza essenziale nella ricerca filosofica e nella professione di Fede. Veramente un uomo e un pensatore «di carattere».
Sin dalla mia tesi di laurea, su Abbagnano (1967-1969), assegnatami dopo che un assistente mi voleva far perdere tempo con un lavoro su ‘ Giovanni XXXIII e Kelsen (?!), Cotta mi dimostrò la sua grande apertura intellettuale accettando, della tesi, un intermezzo, giovanilmente entusiasta, d’un centinaio di pagine di chiara impronta teilhardiana, pur non condividendone egli l’ impostazione e gli sviluppi evoluzionistici; ne intese bene, cioè, il suo carattere di mio primo tentativo «sistematico» di «capire per credere», pur richiamando criticamente la mia attenzione su alcune ingenuità («La Weltstoff … no … ce la risparmi …», disse in seduta di laurea …), facendomi poi però assegnare la lode e invitandomi calorosamente a proseguire la ricerca.
Negli anni a seguire, curò con prossimità tutte le mie vicende universitarie. E mi fu favorevole in uno scontro esistenziale, scientifico e accademico con l’a-teo heideggeriano Romano, che ne uscì perdente (Università di Macerata, 1979).
Cotta appoggiò con grande interesse scientifico e personale il mio progetto e lavoro di ricerca su «Psicoanalisi e diritto». Tale interesse, non era scontato, nei primi anni ’70, soprattutto in ambito cattolico. Ad esempio, l’esperto cattolico di allora, il professor Ancona, non vide di buon occhio, e lo disse in pubblico a un convegno, la mia doppia intromissione, culturale e religiosa, in quello che riteneva un suo stretto ambito di competenza professionale e delimitazione del campo d’ indagine. Diversamente da Cotta, l’ambiente cattolico era percorso da piccole e grandi chiusure. La rivista conservatrice, ma ottima, «Studi Cattolici», diretta da Cesare Cavalleri, mi rifiutò la pubblicazione di un saggio storico-critico, da essa richiestomi, su «Il cammino neo-catecumenale», dopo avermene edito uno su Quali cristiani per quale socialismo? E la redazione della rivista progressista «La tenda», diretta da Gianfranco Solinas, mi rifiutò un lavoro storico-critico, da essa richiestomi, su «L’ Anno Santo». Mi fu anche materialmente impedito di leggere la mia relazione in un convegno della Assemblea Ecclesiale Romana, responsabile il catto-comunista professor Marcello Vigli.
Solo una volta, in occasione di un convegno a Lugano su «La famiglia», verso la metà degli anni ’90, ebbi una incomprensione con Cotta: non riuscimmo ad accordarci sull’argomento dei rispettivi interventi; Cotta voleva per sè «I princìpi della famiglia», riservando a me «La Psicoanalisi della famiglia». Ma io, ben sapendo che su «i princìpi» (amore e matrimonio) tra noi due non c’era accordo teoretico, preferii rinunziare, dopo un piccolo screzio telefonico. In effetti, Cotta evitava filosoficamente il tema dei due sessi e dell’amore e riteneva il matrimonio una questione, pratico-contrattuale, di reciproca assicurazione; io invece facevo del secondo una primaria questione co-esistenziale e del primo il tema proto-logico «donna-uomo»; questo e quella, per di più, secondo me, risalgono in apicibus alla meta-problematica trinitaria del «Dio creatore, a sua immagine e somiglianza, dell’uomo e della donna», questa donna e questo uomo, Eva e Adamo.
Non ci fu tempo per formulare pacatamente i termini filosofici di un disaccordo di fondo che, tra l’altro, avvertivo, e che probabilmente era, caratteriale, generazionale e di formazione.
Del resto, Cotta continuò a interessarsi generosamente di me e della mia famiglia. Cercò di trovarmi una appropriata sistemazione universitaria definitiva, a Roma e a Napoli. E fece il mio nome per la successione sulla cattedra di Filosofia della politica tenuta da Dario Composta alla Pontificia Università Urbaniana, nell’ambito di un accordo di vertice per la sostituzione dei docenti religiosi con docenti laici sulle cattedre di Filosofia del diritto e della politica nelle Università pontificie di Roma ( la cosa si realizzò poi, nel 2004, grazie all’ intervento amichevole della professoressa Gabriella Cotta e durò sino al 2008, quando mi dimisi con delusione pari a quella, accademica e ambientale, che mi aveva costretto, nel 2001, a pensionarmi anticipatamente dalla Università statale).

7. Negli ultimi tempi della sua vita, intorno agli anni 2000, prima del grande silenzio, Sergio Cotta era molto impegnato a «essenzializzare» sempre più il suo studio e la sua riflessione. Si applicava alla lettura di testi, appunto, «essenziali», come L’ essere e gli esseri di Blondel; e continuava la sua assidua frequentazione delle Idee di Husserl. Mi disse che solo così si poteva approdare ad una vera «scarnificazione metafisica»; lo poteva dire senza equivoci, lui che aveva scritto il luminoso saggio La trasfigurazione del corpo.
La progressiva incertezza di parola non gli impedì di difendere ancora una volta in pubblico la sua «Filosofia della pace», polemizzando vivacemente con Cavalla e la sua interpretazione heideggeriana di Eraclito inteso come filosofo del lògos=essere=pace; «filosofo del pólemos, della guerra», obiettò duramente Cotta: «il padre, la madre di tutte le cose», sottintendendo ovviamente che quella interpretazione era stata la scusa di Heidegger per il suo consenso, sia pure transitorio, al nazional-socialismo tedesco. La pace, sì; ma non quella statica della morte (requiescat in pace), bensì quella dinamica dello Spirito di Verità (Deus est Amor), quella dello «eterno nell’ uomo» (Pax vobiscum), quella della Vita eterna (Pax aeterna).
Nella stessa occasione, Cotta indicò chiaramente la sua ultima prospettazione filosofico-religiosa: occorre ri-pensare il Lògos e la Trinità; approfondire cioè «la interiorità e la superiorità», con Agostino: Le confessioni e il De trinitate. In definitiva: una Filosofia cristianamente ispirata e metafisicamente aspirante.
Si può allora concludere: Sergio Cotta non fu, in senso stretto, un filosofo cristiano e/o cattolico; fu un cristiano-cattolico pensante filosoficamente, ma con grande attualismo storico, la Verità (cristiana: «Io sono la verità») e, con ciò, testimoniando il suo stesso personale essere e voler divenire sempre più cristiano e cattolico (= universale-ecclesiale).

8. Dopo tanto pensare e parlare e scrivere, dopo tanta magistrale Parola, docente, colloquiante e testimoniante, furono per Cotta lunghi cinque anni di grande silenzio. Il mysterium magnum della assenza di parola lo involse in un qualcosa che, unicamente forse, può essere chiamato in senso vissuto scientia crucis: un sapere, tutto e solo interno, direttamente già rivolto all’ Eterno.
Con il professore e Maestro Sergio Cotta, un uomo forte, intelligente e sensibile, sento di avere condiviso profondamente l’affermazione filosofica e cristiano-cattolica-pensante: Magis amica veritas. La Verità: quella religiosa del «Dio vivente» (trinitario e lògos-incarnato); quella metafisica dell’Essere e dello Spirito (di/da Dono); quella esistenziale e co-esistenziale dell’Amore (singolare-relazionale) e della Storia (personale, collettiva e eterna). Dunque: «a verità intera»: quella dell’Assoluto che, vivendo e eternando, «rende liberi».

P.S.

Oggi, a distanza di dieci anni dalla morte di Sergio Cotta e di quindici dal suo silenzio finale, mi capita ogni tanto di chiedermi, e talora proprio pensando a lui, cosa ne è della «nostra Verità». A volte, mi sembra di averla «trovata», dopo tanto cercare: Bruaire e l’Assoluto negativo-positivo …; Kant-Hegel-Schelling-Kierkegaard e le loro filosofie «positive» della religione e della rivelazione …; il giudizio radicale critico-propositivo sulla «cattolicità ecclesiale» del cristianesimo …; il plesso veritativo-amorevole di «donna-uomo-bambino» …; la famiglia e la sua familiarità, anche se non facile …; la «profondità» psicoanalitica …; la Poesia …; la musica … A volte, invece, nella sensazione di una stupidità generale, ho l’impressione che tutto sia un po’ ridicolo … Mi sento come sospeso tra queste due diverse percezioni della Verità, una chiara e distinta, l’altra vaga ma dominante; sono perplesso, però … tranquillamente: il ricordo edificante di Cotta, della sua serietà umana, religiosa e filosofica, mi incoraggia e mi rasserena. Un uomo, un credente e un filosofo, che ha, come Cotta, lucidamente vissuto e luminosamente testimoniato, fa pensare alla (sua) morte come all’Eterno già interamente in atto e, in quanto tale, persuadente la (nostra) speranza ancora incerta di immortalità. Il Maestro continua a insegnare.

Agostino, Blondel, Husserl, Kierkegaard, Rosmini

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