Economie associate e unità delle Nazioni. Il Problema europeo
di CLAUDE BRUAIRE
Lo straniero dipende da un altro diritto politico. È di un altro potere e di un’altra storia. La sua ostilità è minaccia di libertà, la sua alleanza è sostegno dell’indipendenza e possibilità di cooperazione. Di per sé l’economia ignora sia il nemico sia l’amico politico. In essa, l’altro produce altrimenti, e altre cose. Ha interessi simili o contrari, ma in entrambi i casi è solo concorrente, potenziale o in atto. L’altro, infatti, si trova associato per il suo interesse in quanto tale, cioè per sé, e non per me. In qualunque associazione l’intesa è subordinata al calcolo, il suo patto giace dunque su di un fondo di ostilità. L’altro coopera soltanto contro altri, e sempre in via provvisoria, proprio fin quando abbia interesse a farlo.
Anno 4. Numero 2.
Dicembre 2018
“ECONOMIE ASSOCIATE E UNITÀ DELLE NAZIONI. IL PROBLEMA EUROPEO” di CLAUDE BRUAIRE
Lo straniero dipende da un altro diritto politico. È di un altro potere e di un’altra storia. La sua ostilità è minaccia di libertà, la sua alleanza è sostegno dell’indipendenza e possibilità di cooperazione. Di per sé l’economia ignora sia il nemico sia l’amico politico. In essa, l’altro produce altrimenti, e altre cose. Ha interessi simili o contrari, ma in entrambi i casi è solo concorrente, potenziale o in atto. L’altro, infatti, si trova associato per il suo interesse in quanto tale, cioè per sé, e non per me. In qualunque associazione l’intesa è subordinata al calcolo, il suo patto giace dunque su di un fondo di ostilità. L’altro coopera soltanto contro altri, e sempre in via provvisoria, proprio fin quando abbia interesse a farlo.
Queste semplici notazioni non rivelano soltanto l’inganno che stava alla base dell’elaborazione della celebre contraddizione «morale dell’interesse». A patto che, quanto meno, si continui a intendere con morale un comportamento positivo di una libertà nei confronti di un’altra. Queste osservazioni bastano anche a rivelare l’illusorietà dell’invocazione di una fraternità all’interno di una medesima «classe economica» che tradirebbe una solidarietà precaria. Ma, innanzitutto, esse revocano la possibilità di una unificazione politica per il tramite di interessi nazionali. È quanto illustra alla perfezione il problema europeo.
Invero, per molti l’unità politica è evocata solo come un promemoria. Memoria residuale di un passato preindustriale. La preservano alcuni, tra i quali coloro che adducono persino la loro patria. In ogni caso, se c’è bisogno di istituzioni politiche comuni, almeno in ordine alla regolamentazione della «Comunità» economica , si ritiene che l’amministrazione, lungi dal venire dopo, debba avere la precedenza. Si tratta proprio di sopprimere quanto, del politico compiuto, ostacola l’economia moderna. Produrre, consumare, arricchirsi non conoscono né frontiere, né storia, né i limiti degli spiriti nazionali, né le differenze di Costituzione o di legislazione politica. Nella misura in cui l’identità del lavoro tecnico universalizza o, per meglio dire, livella i lavoratori in un medesimo regime di attività, gli imperativi economici assimilano le società le cui differenze politiche sono letteralmente prive di interesse.
Che cosa può, quindi, un passato di guerre tra la Germania e la Francia contro l’interesse economico di una cooperazione motivata dalla concorrenza spietata nel mercato mondiale? Quale assurdità rappresentano i vecchi conflitti di legittimità, le passioni ancestrali, a paragone con l’immensa capacità economica che ringiovanisce i nostri vecchi popoli europei, rigenerati nella medesima funzione del loro comune voler vivere?
Tuttavia ciò è evidente solo per chi si sia fatto un’idea adeguata, cioè in una prospettiva astratta e costruita. In tal caso, l’astrazione consiste non soltanto nel dissimulare l’aspetto negativo di qualsiasi associazione di interessi, ma anche nel rigettare le inevitabili conseguenze di un economicismo esclusivo, che sostituisce alla realtà, alla sua logica implacabile, l’immagine sfocata di una «comunità» apolitica, capace di esorcizzare i poteri dei prìncipi a vantaggio di una medesima direzione della produzione.
Tuttavia, l’aspetto negativo è il motivo comunemente dichiarato. Non è affatto per l’Europa che bisogna «farla»; il positivo auspicato arriverà più tardi, per magia o per necessità. Ma è un’urgenza farla contro le Potenze americana, sovietica, giapponese , e le loro coalizioni monopolistiche: urgenza di raccogliere la loro sfida economica. Ma chi o che cosa può garantire a ogni partner europeo che l’interesse dell’altro non sarà legato, domani, a queste Potenze che oggi vengono identificate come avversarie? Se la legge dell’interesse è l’unica legge, perché non sarebbe preferibile essere il loro ricco satellite? Poniamo tuttavia che si tratti di un’ipotesi astrattamente legittima o concordata. Ci vorrebbe ancora una bieca cecità per negare le conseguenze che tutti i fatti sottolineano, e che si fanno passare in mala fede per «peripezie». Ora, tali conseguenze fanno proprio emergere le difficoltà politiche che si riteneva di aver soppresso.
Ove la necessità delle cose prende il posto della verità c’è bisogno del pragmatismo. Ove nessuno è d’accordo intorno al tutto, ci si informa sui settori primari di indispensabile cooperazione. L’industria europea è in preda a guerra intestina, per cui si comincerà dall’agricoltura. Qui, con lo stesso ritardo dappertutto, si è davanti a dannosi protezionismi da superare. Ma la regola di divisione che interdice il tutto gioca immancabilmente all’interno di ogni settore. Gli interessi dei cerealicoltori non coincidono affatto con quelli degli allevatori. Lì dove gli uni potrebbero temporaneamente andare d’accordo, gli altri si oppongono. Ciò vale altrettanto in ogni sottocategoria, fino allo scioglimento nel mare di sabbia dove degli individui si impantanano in discussioni interminabili. Probabilmente, le difficoltà hanno ancora molto a che fare con le abituali protezioni politiche. Ma, se è l’interesse a guidare il protezionismo, in nome di quale «superiore interesse» si pretenderà che i poteri sacrifichino questa o quella categoria? E chi pretende? Altre categorie, altri individui? A partire da quel momento le rivendicazioni interne, contro l’elemento politico, si rivestono di rivendicazioni esterne; si richiede ai poteri tutto e il suo contrario, col paralizzare le negoziazioni mediante la coniugazione di nazionalismi economici destinati per principio ad abolire le nazioni politiche. La verità della distinzione introdotta da Raymond Aron, tra cittadino e operatore economico, idonea a risolvere la contraddizione fra i voti politici e le rivendicazioni settoriali, è solo lo sconto, da parte di ciascuno, di un potere abbastanza forte da sacrificare gli altri a sé stesso, ma che non lo è abbastanza per farlo piuttosto in fretta. Ed è lo stesso sconto che si traduce nella richiesta di un potere europeo che preserverebbe i privilegi acquisiti e ne procurerebbe di nuovi.
Il «nazionalismo economico» è un’espressione equivoca. Infatti, lungi dal significare una passione egemonica, esso segna solamente un superamento della nazione a favore del provvisorio vantaggio economico derivante dalle frontiere. La sua verità è, di fatto, lo statalismo, che subordina la ragione all’organizzazione «scientifica» dell’economia. Certo, ognuno, ridotto al suo proprio interesse, vi scommette il vantaggio più grande. Ma si sa che il meccanismo che opera al meglio, per la migliore performance d’insieme, è il più vincolante, dal momento che nessuna volontà di giustizia lo piega alle esigenze di libertà. Certamente, si è visto che il lavoro tecnico implica responsabilità del lavoratore. Ma altro è questa responsabilità nell’opera, e altra cosa il maggior interesse di ciascuno. Posto che il dogma dell’interesse è combattuto, per la ricerca dell’efficacia, soltanto da un vincolo statale che non può imporre ciò che esso revoca: la libertà. Ignorata la libertà nell’elemento politico, viene eliminata la responsabilità nel lavoro; l’efficacia del sistema, sotto il segno illusorio dell’«interesse generale», è un’efficacia mancata, dal momento che essa deve stabilirsi malgrado la legge selvaggia dell’interesse. Non importa, si tratta di una certa efficacia. L’economicismo è contraddittorio, è fatto della vecchia legge dell’individuo, e forgiato dalla sola necessità che la oltrepassa: quella della violenza meccanica. Non si ama quel che si fa, si vuole solo goderne. Col sistema vincolante si godrà poco, adempiendo un ruolo imposto. Ciò che si richiede da un potere sovranazionale è pertanto un po’ di vincoli in più, nella speranza di un interesse meglio servito.
Se gli Stati nazionali sono sistemi vincolanti, tra di loro sono incompatibili: un meccanismo funziona bene solo se la sua legge non transige. Se gli Stati nazionali non sono sistemi vincolanti, vi si sostituirà un superStato, supervincolante. La scelta puramente economica è tra maggiore o minore vincolo, non tra una unità politica o una più vasta. Ma un sistema più vasto non transige più con un altro. Un’Europa integrata si troverebbe opposta ad altri imperi economici. A meno che l’interesse non diventi esso stesso la molla superata di un’integrazione che lo rovina: il meccanismo universale governerebbe il mondo solo a dispetto dell’appetito che lo suscita. L’unica pace promessa all’animalità non è che un addomesticamento senza scopo.
Non è quindi soltanto illusorio, ma derisorio aspettarsi una unità politica da una coalizione di interessi. Il senso non sopravviene a partire dal non senso. Quando analizzavamo la categoria di nazione , avevamo dedotto dalla sua legge costitutiva, legge di libertà, l’irriducibile molteplicità delle nazioni. E avevamo altresì mostrato che la trasposizione dei nazionalismi in lotta di classe altro non è che un’ideologia smentita dalla logica e dai fatti. Ma la logica invocata si radica nel voler essere, nel desiderio di libertà. E i fatti, per esempio quelli dei nuovi imperi socialisti , sono forse non accertati, se legano il risveglio di antiche passioni alla pallida aurora di immensi meccanismi economici. Supponevamo così preservate una logica dell’esistenza e le sue implicazioni sociali che, volente o nolente, nonostante i nazionalismi, la nostra storia politica perpetuava. Era un’ipotesi, questa, nella quale si imponevano allo spirito, come legge della sua vita, le correnti contrarie dell’indipendenza e dell’alleanza, dell’autocontrazione e dell’espansione generosa, del negativo e del positivo, dell’autodeterminazione e della pace. Ma, se lo spirito si ritrae, se il regno dell’interesse partorisce l’oppressione universale, il nostro unico futuro mondiale si configura mediante opposizioni di sistemi senza opposizione di ideologie. E la sola fine concepibile di questa storia sarebbe anche la compiuta organizzazione della schiavitù planetaria.
I sistemi, difatti, neppure imitano le nazioni. La loro indipendenza non significa una medesima libertà di cittadini che vivono di un medesimo diritto, ma l’autonomia di un funzionamento interno. Di conseguenza, i loro rapporti sono di pura e semplice esclusione; non presentano mai la positività di una pace internazionale. Se allora è quest’ultima che ancora si vuole, è necessario volere ancora che una nuova nazione abbia inizio soltanto cominciando col volere l’indipendenza politica. Ma, di nuovo, è impossibile tornare indietro: la libertà non si affermerà se non imponendosi alle seduzioni dell’economicismo dentro l’economia moderna.
La pace resta il compito della ragione politica. Occorre darle motivo di imporsi. La libertà deve riacquistare senso chiamando le nazioni a una qualche responsabilità che metta l’economia al suo servizio. Se non lo si crede del tutto impossibile è per via del fatto che l’avvenire di un’illusione non la rende assolutamente una realtà, quando invece è una minaccia reale: illusione di una libertà sazia quando il vivere meglio la rende inutile; illusione che, in materia di giustizia, non ci sia alcunché da dire né da fare, quando la distribuzione è razionalizzata; illusione, infine, di un esaurimento delle ragioni per esistere. Illusione di un’epoca che si rassegna al destino, e che vede i popoli abbandonarsi alla rassegnazione.