La Rivoluzione permanente

di Stefano Caprio

1. Apocalisse nella storia

Una delle parole d’ordine del movimento comunista nel XX secolo, il «secolo breve» che fu depauperato da spaventose guerre e devastazioni, era quella della «rivoluzione permanente». Si tratta di una delle declinazioni principali della stessa dottrina di Marx e Engels, anche se l’espressione è rimasta storicamente legata al nome di Lev Trotskij. In effetti questa idea, che prevedeva la naturale estensione della rivoluzione socialista a tutti i paesi del mondo, trovò nella rivoluzione russa una nuova applicazione.

Secondo le previsioni del marxismo «ortodosso», com’è noto, la rivoluzione proletaria è una conseguenza inevitabile dello sviluppo democratico-borghese della società, che provoca diseguaglianze e ingiustizie insopportabili per le masse sfruttate. Nell’esperienza russa di Lenin e Trotskij, la borghesia non è in grado da sola di portare a termine il processo di evoluzione del capitalismo, da cui dovrebbe scaturire il cambiamento salvifico. Secondo Trotskij, il proletariato russo avrebbe dovuto invece procedere direttamente alla costituzione dello stato socialista, senza interruzione borghese, da cui la definizione di «permanente». L’altro significato del termine indica la necessità di rimanere costantemente in guerra con il mondo capitalista ostile, cercando di portare il verbo rivoluzionario in ogni paese, appoggiando i movimenti e i partiti «fratelli».
La fase staliniana della rivoluzione russa smentì parzialmente le teorie di Trotskij, che venne infine eliminato per ordine dello stesso dittatore georgiano. L’economia della NEP, istituita da Lenin nel 1921 e gestita da Stalin fino al 1929, ripristinò il passaggio di sviluppo «borghese», per risollevare una situazione devastata dal «comunismo di guerra». A essa seguirono gli anni del Terrore e del culto della personalità del leader, e della scienza marxista si persero le tracce. Rimase però la guerra rivoluzionaria mondiale, sotto forma di «guerra fredda» e divisione del mondo in due blocchi, lo schema che ha governato il mondo dal dopoguerra al 1989, per quasi cinquant’anni.
Quasi trent’anni dopo la fine della guerra fredda, la «rivoluzione permanente» è ormai un vecchio arnese ideologico, condannato all’oblio. Essa doveva portare all’era della giustizia e della felicità, realizzando l’ideale annunciato dall’apocalisse rivoluzionaria.

La caduta dei muri e delle divisioni tra primo, secondo e terzo mondo ha portato invece al trionfo dell’avversario capitalista e liberale, in un nuovo mondo «globalizzato». In questo modo, la profezia si è comunque avverata: dalla rivoluzione sembra che sia nato il volto definitivo della società umana, tanto da far dire a qualcuno che siamo ormai giunti alla «fine della storia»(1).
In realtà, pare che l’umanità sia invece piuttosto insoddisfatta di questo nuovo paradiso. L’apparente vittoria dell’ideologia liberale sta clamorosamente riportando in vita le previsioni marxiste: il capitalismo vive una profonda crisi, crollano i suoi santuari (le banche, le borse, i sistemi finanziari e speculativi) e le sue istituzioni politiche, prive ormai di autorità presso le popolazioni, che preferiscono leader urlanti e promesse egualitarie. La rivoluzione permanente riprende vigore, ma in forme assai diverse da quelle novecentesche.
Gli ultimi decenni sono caratterizzati piuttosto da una galoppante invasione della dimensione virtuale dell’esistenza, grazie alle tecnologie che hanno cambiato il modo di comunicare, di conoscere e perfino di lavorare. La crisi economica mondiale degli ultimi dieci anni ha ulteriormente accelerato questa trasformazione; partendo dal crollo dei prodotti finanziari del credito (soldi virtuali, non corrispondenti a valori reali), assistiamo a un’epocale ristrutturazione dei sistemi di produzione dei beni necessari e di sfruttamento delle risorse energetiche, che sta progressivamente sostituendo la forza-lavoro umana con algoritmi e meccanismi di automazione. Cresce la disuguaglianza tra chi possiede e chi consuma, tra i generi e le generazioni, tra le diverse comunità o «razze» umane stanziali e in movimento. Allo stesso tempo, si dissolve la differenza tra quelle stesse razze e i generi, tra strati e classi sociali, e i mezzi di comunicazione rendono ininfluente il livello di istruzione e l’esperienza accumulata. Il futuro dell’umanità si fa sempre più incerto.
Da un mondo di contrapposizioni religiose e ideologiche si è passati a un mondo di indifferenza religiosa e ideale, in cui le manifestazioni della religione accentuano le tendenze al fondamentalismo (non solo islamico, che è quello più clamoroso, ma in tutte le tradizioni religiose classiche e moderne). La scomparsa dei grandi sistemi di pensiero, spirituale e laico, filosofico e politico, rende estremamente volubile e impercettibile ogni sistema di valori; perdono di significato le leggi, di autorità le istituzioni, di prestigio le personalità pubbliche. Il livellamento sociale non favorisce la coesione, al contrario aumenta a dismisura i conflitti. Quale futuro ci aspetta?
Vivendo in una fase di così radicale transizione, è in realtà vano tentare di immaginare il futuro. Un clamoroso esempio è fornito dalle «scienze» economiche: dopo che per almeno tre secoli si è data massima fiducia alle previsioni dei suoi esponenti, da Ricardo ad Adam Smith, da Marx a Keynes e tanti altri, sacerdoti di una nuova religione laica che descrive e profetizza il futuro dei popoli e dei singoli, oggi gli «economisti» sono ridotti al rango di aruspici e sciamani, costretti a divinare sulle interiora dei fallimenti bancari e i misteri della globalizzazione.
Sono passati cinquant’anni dalla pubblicazione della Scimmia nuda dell’etologo Desmond Morris (2), che distingueva l’uomo dagli altri animali quasi solo per la sua pelle liscia. Di nuovo ci chiediamo chi sia veramente l’uomo, che cosa lo rende speciale, addirittura simile a Dio nella rivelazione religiosa. Possiamo ricordare le intuizioni dello scrittore Clive Staples Lewis, che nel 1943 scrisse un libro sulla «abolizione dell’uomo» (3), in cui già allora immaginava che l’uomo in realtà possa confondere la realtà con le proprie percezioni, che possono rispondere a sistemi di valori molto diversi e complessi, come il satya indiano o il tao cinese, per sintetizzare l’indefinita corrente delle relazioni quotidiane che l’uomo istituisce con ciò che lo circonda. Lewis analizza l’illusione del «potere dell’uomo sulla natura», osservando che il più delle volte esso si riduce al potere di alcuni uomini sugli altri uomini, spesso dei predecessori rispetto ai successori.
È proprio il caso del periodo che stiamo vivendo, la post-modernità di cui ognuno dà una diversa definizione, che oggi diventa anche post-globalizzazione, per il sentimento di rigetto sempre più diffuso nei confronti di quell’ideale di mondo «senza confini» e senza limiti che era stato definito appunto la «fine della storia», il paradiso realizzato. Siamo oltre la fine, alla «fine della fine» della storia, e tutto viene rimesso in discussione. Le giovani generazioni si sentono truffate da quelle precedenti. L’uomo stesso si modifica, diventiamo secondo Lewis «uomini senza petto» incapaci di respirare, senz’animo e senza cuore, o rimaniamo totalmente definiti dal «grande orecchio» di Nietzsche (4), uomini curvi su un piccolo schermo, totalmente dipendenti da un flusso anonimo di informazioni e immagini su cui non abbiamo alcun controllo.
È la fine dell’umano? È l’inizio di un nuovo umanesimo? La bioetica ci parla di «transumanesimo», di esistenza post-umana, nel tentativo di modificare e «migliorare le capacità fisiche e cognitive della persona umana e di applicare le nuove tecnologie all’uomo, affinché si possano eliminare aspetti non desiderati e non necessari della condizione umana come la sofferenza, la malattia, l’invecchiamento, e persino, l’essere mortali», come afferma Nick Bostrom (5), alfiere di questa nuova frontiera del progresso. Egli sostiene che il Transumanesimo rappresenta un nuovo paradigma sul futuro dell’uomo, che raduna scienziati che provengono da diverse aree (Intelligenza Artificiale, Neurologia, Nanotecnologia e altri ricercatori in biotecnologia applicata), filosofi e uomini di cultura con lo stesso obiettivo: alterare, migliorare la natura umana e prolungare la sua esistenza. È la confluenza definitiva della scienza con la religione.
Ci aspetta un nuovo secolo di cambiamenti, forse di nuove guerre e contrapposizioni, come già avviene in molti paesi e nei continui rigurgiti del terrorismo islamico radicale, per sua natura votato alla «rivoluzione mondiale» non secondo Marx, ma secondo il Corano. Conviene riflettere ancora sugli eventi della Russia del 1917, in cui forse si nascondono alcune risposte che l’umanità sta cercando ancora oggi.

2. Lezioni di una rivoluzione dimenticata

Sono pochi oggi che fanno lo sforzo di richiamare alla memoria, studiando i documenti e le testimonianze, gli avvenimenti di San Pietroburgo nel 1917. Eppure gli elementi che in qualche modo richiamano le problematiche odierne non sono pochi; vale la pena richiamarne alcuni come suggestioni per la riflessione.
Non pochi furono gli avvenimenti dei primi vent’anni del XX secolo, che in qualche modo prepararono il terreno alla svolta rivoluzionaria. Dopo la rovinosa guerra con il Giappone degli anni 1904-1905, e le prime rivolte represse nella «domenica di sangue» del 22 gennaio 1905, la monarchia zarista fu costretta ad aprire una fase di grandi riforme, dal sistema parlamentare con l’istituzione della Duma di Stato al decreto di tolleranza religiosa, che per la prima volta (e ultimo stato d’Europa) permetteva la libertà di coscienza ai propri cittadini. I tentativi del ministro Witte nel 1905-1906, e del capo del governo Stolypin nel 1906-1911, portarono la Russia a uscire dalla palude della sua storica arretratezza, diventando in poco tempo il paese più industrializzato d’Europa dopo Inghilterra e Germania. L’assassinio di Stolypin, il 14 settembre 1911, significò di fatto la fine delle riforme e l’inizio della decisiva crisi rivoluzionaria, provocata dall’improvvida entrata della Russia in guerra nel 1914. Un altro simbolico assassinio fu quello del monaco-stregone Grigorij Rasputin, il 17 dicembre del 1916: in gran parte responsabile della paralisi politica dello zarismo, egli era anche l’unico che avrebbe potuto convincere Nicola II a uscire dalla catastrofe bellica. Lo zar non seppe dunque reagire ai moti di piazza dell’8 marzo 1917 (6), lasciando esplodere la bufera rivoluzionaria che portò i bolscevichi al potere, per inettitudine di tutte le istituzioni russe. La guerra civile tra rossi e bianchi durò fino al 1921, nel frattempo il regime inventò i lager e i tribunali del «terrore rosso». In vent’anni trascorse un’intera epoca, come poche volte nella storia umana.
Molti di questi e altri eventi furono accompagnati, profetizzati e commentati con tutti i mezzi a disposizione dello spirito umano. I russi inventarono la poesia simbolista e futurista, la musica dodecafonica, l’arte astratta e il suprematismo, la filosofia esistenzialista e la teoria del partito-guida, la sofiologia teologica e la neopatristica, perfino il balletto classico e l’analisi delle favole, insieme a molte sfumature e novità della scienza e della cultura. I visionari del «cosmismo» (Fedorov, Vernadskij, Florenskij e Tsiol’kovskij) arrivarono a prevedere i viaggi spaziali e la rete internet, e non a caso oggi vengono ristudiati con avido interesse. Nella frenesia apocalittica di un mondo che andava verso la rovina o la rinascita, i russi si sentirono investiti dal compito di costruire un’arca di salvataggio di ogni specie di creatività umana, e molti di loro finirono per essere effettivamente imbarcati nel diluvio della nuova era.
Cent’anni dopo, un fiume d’inchiostro e di parole si è riversato sui mezzi d’informazione russi e in tutto il mondo. Tra le varie posizioni espresse, si possono distinguere all’incirca tre correnti. Da una parte gli ottimisti, che ritengono che la rivoluzione si potesse evitare, dall’altra i pessimisti, che sostengono che essa avrebbe avuto luogo comunque, anche se gli eventi fossero andati diversamente; e un terzo gruppo, che potremmo chiamare gli apocalittici, che vedono nel 1917 una profezia per il futuro della Russia e del mondo intero.
Secondo gli ottimisti, bastava che lo zar evitasse la guerra (o la vincesse) e non si facesse prendere dal panico rinunciando al trono, e tutto sarebbe andato bene. In fondo, la Russia dei primi anni del secolo si era lanciata in una serie di riforme politiche, economiche e sociali, che se fossero state portate a termine, avrebbero garantito un radioso futuro. Questa opinione in qualche modo rafforza le speranze dei riformisti circa il futuro della Russia stessa; molti aspettano dal presidente Putin una svolta riformista, dopo quasi un ventennio di «nuova stagnazione». A queste speranze si legano anche gli auguri per una ripresa dell’Europa e dell’economia globale, in crisi ormai dalla metà degli anni Duemila.
I pessimisti si basano anche sugli esempi degli altri paesi: in Germania, Italia e Spagna non vi fu alcuna rivoluzione, ma arrivò lo stesso la dittatura, e il mondo precipitò nella catastrofe della guerra mondiale. Riportata al presente, questa lezione insegna che non si può fermare la rabbia degli esclusi, delle classi sociali in sofferenza, delle masse martoriate dallo sfruttamento dei potenti. E quindi si aspettano tempi molto bui.
La visione apocalittica appartiene principalmente ai movimenti religiosi e alle ideologie identitarie estreme, che vedono nella rivoluzione una «prova» e una necessaria «purificazione» per ritrovare la retta via. La guida di questa palingenesi viene attribuita alla Chiesa, al «popolo fedele» contro i mali del mondo, e preferibilmente all’apparire messianico di un «uomo forte» sostenuto dagli ideali religiosi, e in grado di unire tutti gli uomini di buona volontà, come appare a molti (in Russia e all’estero) il presidente russo Vladimir Putin.
Spesso queste diverse visioni attraversano l’opinione pubblica della Russia e di vari paesi, anche all’interno degli stessi corpi sociali o delle comunità religiose. Il Patriarcato di Mosca, ad esempio, ha evitato di prendere troppo nettamente una posizione, organizzando una conferenza scientifica tenuta il 18 febbraio 2017 nella Cattedrale del Salvatore, cui hanno preso parte diverse personalità della cultura, della società e della Chiesa stessa. Il metropolita Ilarion (Alfeev), presidente del Dipartimento per gli affari esterni del Patriarcato di Mosca, si è limitato in essa ad accostare fatalisticamente la rivoluzione ad altri eventi tragici della storia russa (il giogo tartaro, i torbidi del Seicento, la guerra con Napoleone), ricordando che la Chiesa è sopravvissuta a tutto questo, rimanendo sempre vicina al suo popolo. Ben più esplicita la dichiarazione del 10 marzo 2017 di un’altra parte della Chiesa Ortodossa Russa, quella Estera «zarista» che ebbe origine proprio dopo la rivoluzione, oggi tornata formalmente in comunione con il Patriarcato di Mosca, e che vede la necessità di restaurare il potere «voluto da Dio» anche nella Russia di oggi, per la salvezza del mondo.
Il Patriarca di Mosca Kirill (Gundjaev) è poi intervenuto di persona il 29 marzo 2017, dopo le prime dichiarazioni di esponenti del mondo ecclesiastico, rievocando a sorpresa, ma senza citarli, i giudizi dati nel 1918 dagli autori della famosa raccolta di saggi Dal Profondo: la colpa principale della rivoluzione, ha sostenuto il capo della Chiesa russa, ricade sull’intelligentsija. «Tutto ciò che è accaduto nel XX secolo, quel tritacarne che ha macinato tutta l’intelligentsija, non è forse una conseguenza organica delle terribili colpe di cui l’intelligentsija stessa si è macchiata contro la fede, contro Dio, contro il proprio popolo, contro il proprio paese?», si è chiesto il Patriarca, intervenendo durante la riunione della Camera di Patronato per l’assegnazione del premio letterario patriarcale. Secondo Kirill, al presente «continua la guerra degli argomenti storici. La società non si è riconciliata pienamente con tutto ciò che riguarda gli avvenimenti di cento anni fa. Anche se le varie analisi possono essere ragionevoli, è indispensabile fare tutto il possibile affinché la loro molteplicità non provochi nuovi conflitti civili. Troppo sangue è stato versato, un prezzo troppo alto è stato pagato perché noi potessimo superare, nella nostra realtà attuale, le conseguenze dei torbidi passati, per escludere la possibilità della loro influenza sulla nostra vita», ha proseguito il suo monito il pastore supremo degli ortodossi russi. Egli ha proseguito affermando che «la rivoluzione è stata un grande crimine. E coloro che hanno ingannato il popolo, che lo hanno indotto in errore, che lo hanno portato a fa esplodere i conflitti, non perseguivano affatto quegli scopi che dichiaravano pubblicamente. C’era un ordine del giorno completamente diverso, del quale le persone non avevano neppure il sospetto». Secondo le sue parole, chi ha compiuto la rivoluzione «cadde vittima delle conseguenti repressioni»; per lo più i rivoluzionari erano «quelli che hanno versato il sangue innocente, che hanno torturato e fatto soffrire». Nella ricorrenza centenaria, il Patriarca ha richiamato tutti a non ignorare la necessità di dare il giusto significato a quegli avvenimenti, per non permettere che possano ripetersi. «Da questi terribili avvenimenti di cento anni fa, noi dobbiamo trarre una conclusione molto importante: dobbiamo redimerci con le nostre virtù dai nostri peccati, e da quelli di chi ci ha preceduto. Dobbiamo costruire una società buona, giusta, da dove espellere il peccato dalla propria vita personale e da quella sociale… Dobbiamo accorgerci del dolore di chi ci sta a fianco»(7), ha concluso il capo della Chiesa russa.
Le forti parole del Patriarca di Mosca hanno suscitato nel paese reazioni contrastanti, secondo proprio quella diversità di opinioni condannata da Kirill. Molti hanno fatto notare che, prima di accusare, la Chiesa dovrebbe essere la prima a fare autocritica, e riconoscere le proprie colpe passate. Questo riguarderebbe sia le posizioni della «Chiesa di stato» zarista, sia i compromessi ecclesiastici con il potere sovietico e lo stesso Stalin. Secondo l’opinione dei conservatori, la colpa del Sinodo della Chiesa durante la rivoluzione fu di non aver interceduto in favore dello zar, per impedire la sua abdicazione, e appoggiando il governo provvisorio. Così, ad esempio si è espresso lo storico Fedor Gajda, professore dell’Università statale di Mosca MGU (8): «il Sinodo sia prima, che dopo la rivoluzione di febbraio si trovava in una situazione molto difficile. In quegli anni i membri del Sinodo e l’episcopato erano considerati da tutti soltanto dei burattini di Rasputin… oppure come dei burocrati, senza alcuna autorità spirituale». Per i detrattori della Chiesa e del patriarca, ancora molto diffusi in Russia, la Chiesa cercherebbe piuttosto di «lavare i panni sporchi» di oggi con i richiami alle altrui colpe del passato, essendo tornata a rivestire il ruolo di sostegno al potere statale.
Il presidente Putin, del resto, ha scelto di non osservare la scadenza secolare della rivoluzione con alcun atto ufficiale o cerimonia, limitandosi a un’asciutta dichiarazione risalente ancora al 1 dicembre 2016 di fronte alle camere riunite del parlamento russo, nell’incontro annuale dell’Assemblea Federale. In quell’occasione il leader russo, anticipando in parte l’appello del Patriarca, ha invitato a «avere rispetto della nostra storia comune», citando nell’occasione una frase del filosofo Aleksej Losev. «Non è ammissibile trascinare le divisioni, le offese del passato nella nostra vita di oggi. Ricordiamoci di essere un unico popolo, noi siamo un unico popolo e la nostra Russia è una!» (9), ha concluso il presidente tra gli applausi di tutti i deputati e senatori, soprattutto di quelli del partito di maggioranza che porta appunto il nome di «Russia unita», di cui Putin stesso è il capo. I pochi esponenti dell’opposizione liberale, peraltro, hanno osservato che la posizione ufficiale del presidente e del governo russo impedisce di fatto di chiarire le cause dei misfatti che ebbero inizio nel 1917, preferendo lasciare la società russa nell’oblio per coprire le proprie politiche autoritarie, il «bolscevismo contemporaneo» denunciato dal capo storico del partito liberale Grigorij Javlinskij (10).
Non è dunque agevole la memoria della rivoluzione, e anche aderendo all’appello del Patriarca Kirill e del Presidente Putin a non perpetuare la «guerra delle interpretazioni», sarebbe auspicabile una riflessione ampia e condivisa. La questione dell’intelligentsija, del resto, appare oggi quanto mai attuale non solo in Russia, vista la profonda crisi delle classi dirigenti delle società contemporanee; e anche sulla «rinascita religiosa» e il ruolo della Chiesa nella società russa di oggi molto ci sarebbe da dire.

3. La diserzione dello zar e la fine delle istituzioni

Come molti hanno osservato, la Russia non è precipitata nel baratro della rivoluzione in seguito alla rovina irreversibile delle sue componenti sociali, o al totale fallimento delle sue misure politiche ed economiche. Se le rivoluzioni settecentesche d’Inghilterra, America e Francia si possono intendere come eventi legati alla fuoruscita dal mondo medievale, alla fine delle dinastie aristocratiche di fronte al nuovo mondo borghese e industriale, per il crollo del trono dei Romanov il discorso è un po’ più articolato.
Da un lato si possono osservare diverse analogie con le rivoluzioni precedenti, in particolare con quella francese del 1789. Le brioches di Maria Antonietta, da distribuire al posto del pane, vengono rievocate dalla rabbia delle donne dell’8 marzo, che chiedono il pane a uno zar assente, che la sera in cui riceve la comunicazione della rivolta, scrive sul suo diario: «giornata noiosa, oggi non è successo nulla, bevo il tè e vado a dormire». La monarchia russa, imparentata con le altre corti europee al punto da non avere che poche stille di sangue russo nelle vene, come la giovane e frivola regina austriaca di Parigi era in realtà molto lontana dal popolo. Nicola II viveva in un mondo artificioso, e coltivava interessi privati poco significativi, anche se non così evidentemente scandalosi come quelli della corte di Versailles, nella reggia pietroburghese di Puškino che ne è la brutta copia. La sua figura di «santo zar» deriva soprattutto dal martirio subito a Ekaterinburg con la famiglia, nell’estate del 1918; per il resto la religiosità degli ultimi monarchi russi suscita diverse perplessità, vista la superstiziosa sottomissione allo sciamano Rasputin. La crudeltà con cui lo zar aveva massacrato i manifestanti nella «Domenica di sangue» del 22 gennaio 1905 (quella sì, una rivolta spinta dalla disperazione per le miserevoli condizioni del paese), sarebbe dovuta a bastare a impedire l’elevazione agli altari di uno zar chiaramente non all’altezza della situazione, né dal punto di vista politico, né da quello morale. La sua abiura al sacro ruolo e la rinuncia al trono, per la stessa tradizione ortodossa, rasenta l’apostasia dalla vera fede.
Dall’altro lato, la stessa situazione si può vedere in una luce diversa, in cui la rivoluzione appare un fenomeno ben più complesso. L’incertezza dello zar fu evidente proprio nel 1905, dopo la rovinosa guerra con il Giappone e di fronte alle proteste di piazza, ma questo diede anche origine a profondi cambiamenti, se non proprio nella struttura amministrativa (la Duma era un sistema parlamentare molto acerbo e inefficace, il governo non aveva basi solide per la sua azione), per lo meno nel mutamento dell’atmosfera sociale. Tra le due rivoluzioni, quella del 1905 e quella del 1917, si esprime la più ampia e multiforme stagione di dibattito e proposta sociale, culturale e religiosa di tutta la storia russa, quel Secolo d’Argento che ha influenzato tutta la cultura mondiale contemporanea. Al contrario dei predecessori ottocenteschi, stretti tra la ferrea censura di Nicola I e gli sbandamenti anarchico-populisti del periodo di Alessandro I, i filosofi e poeti del primo Novecento imposero una revisione aperta e pubblica non solo delle riforme o delle istituzioni, ma della stessa storia e della vocazione della Russia, del suo contributo all’elevazione dell’anima umana.
È tipico della storia russa, del resto, attraversare brevi momenti di straordinaria apertura e creatività, a fronte delle lunghe stagnazioni politiche e ideologiche. Si possono ricordare gli anni della costruzione del mito di Mosca – «Terza Roma» tra Quattrocento e Cinquecento, o delle riforme di Pietro il Grande, per non parlare dei «favolosi anni Quaranta» dell’Ottocento nel dibattito tra slavofili e occidentalisti. Un esempio sono stati anche i recenti anni Novanta dello scorso secolo, nella fuoruscita dal comunismo e prima della lunga fase della «stabilità» putiniana, di cui ancora non si vede la fine. Si tratta di un fattore storico-geografico, legato al ritmo dei lunghissimi inverni e brevi disgeli del territorio russo. Sta di fatto che la Rivoluzione non piovve dal cielo, né sorprese per la sua improvvisa esplosione, al contrario avvenne per l’inevitabile necessità della Russia di ritrovare se stessa annientandosi nuovamente, e ripartendo da zero.
Torneremo in seguito sulle diverse e contraddittorie posizioni degli intellettuali del Secolo d’Argento, ma ci preme ritornare sulla questione della rinuncia al trono di Nicola II. Ricollegandoci proprio alla ciclicità delle tante «rivoluzioni» russe, dobbiamo infatti notare quanto esse siano legate proprio alla diversa comprensione del principio di autorità o autocrazia. Si tratta di uno dei pilastri della triade «ideologica» dello zarismo ottocentesco, che si basava sull’unità di autocrazia-ortodossia-popolarismo, una sintesi efficace, ma di non semplice interpretazione. La figura dello «zar», infatti, risale alle pretese imperiali della Russia, che vennero considerate come una vera e propria «missione divina» dopo il crollo dell’Impero Bizantino di Costantinopoli, la «seconda Roma», per mano dei turchi ottomani nel 1453. È una riedizione dell’antico ideale della restauratio imperii, che aveva ispirato l’ultimo degli imperatori romani, quel Giustiniano che nel VI secolo, dopo che le invasioni barbariche avevano distrutto l’impero d’Occidente, pensò di ricostruire la grandezza di Roma partendo da Oriente. È da quel momento che si parla di impero «bizantino», a cui fecero seguito nel IX secolo il «Sacro Romano Impero» di Carlo Magno e le varie declinazioni occidentali degli Ottoni germanici, della Francia e della Spagna cattoliche e così via, comprendendo le stesse ambizioni del Papato nella prima metà del secondo millennio. Non entreremo ora nella disanima e nel confronto di queste grandi prospettive storiche.
Lo zarismo russo si propone come una delle varianti, addirittura quella «definitiva»: la Terza Roma, e una quarta non vi sarà, afferma la profezia di Filofej di Pskov agli inizi del Cinquecento. In realtà ve ne saranno ancora molte altre, nella Russia stessa e in altri paesi, fino agli imperialismi contemporanei. Quello che ci sembra particolarmente suggestivo è il tono apocalittico della teoria moscovita, che non si limita a raccogliere la sfida degli «agareni» turchi che avevano distrutto i bizantini. Non erano essi, i sultani ottomani, né i primi né gli ultimi a rappresentare la maschera millenarista dell’Anticristo, che da secoli veniva indicato in personaggi della religione e della politica medievale, da Maometto a Leone Isaurico, al Saladino, Gengis Khan e Federico II, fino ai vari papi e antipapi che si erano succeduti nei secoli. La declinazione russa di questa lotta «finale» della storia, in realtà, era nata ancora prima della «Terza Roma» moscovita, quando la stessa Mosca ancora non esisteva. È l’autocoscienza dei russi fin dalla loro origine, nella Rus’ di Kiev della fine del primo millennio.
La sensazione d’incompiutezza dei russi, che si riflette sulla figura del principe-zar, viene dal particolare tempismo della loro apparizione nella storia. Lo stato russo fondato dal principe Vladimir, come ci racconta la Cronaca degli avvenimenti correnti, si formò con il Battesimo del 988 nel fiume Dnepr’, là dove sorgeva la «madre delle città russe», quella Kiev il cui nome significa il «passaggio di Kij», figura quasi mitologica degli antichi variaghi scesi dal nord. Era il luogo scelto per attraversare il fiume, in modo da permettere lo sviluppo meridionale della via «dai Variaghi ai Greci», la ragione storico-economica della nascita del nuovo stato; ma è anche il titolo simbolico della natura della Rus’, terra di confine (u-kraina, la funzione reale della terra russa) tra l’Oriente e l’Occidente, ma anche tra il mondo antico e il mondo moderno.
I russi entrarono nella storia cristiana sospesi sopra il baratro dello scisma tra il papato e il patriarcato di Costantinopoli, avvenuto nel 1054, pochi anni dopo il loro Battesimo. Essi rimasero spettatori passivi e inconsapevoli della lotta di potere tra oriente e occidente, giunti nel momento più critico della vita della Chiesa universale senza poterne modificare i destini. Si aggiungono alla lista delle Chiese del primo millennio, partecipi dell’unità cattolica del cristianesimo antico, ma di fatto sono aggregati all’epoca successiva delle divisioni, dell’ortodossia militante  – la Slavia Orthodoxa (11) – di un cristianesimo smarrito e in cerca di nuove definizioni. Questa oggettiva circostanza storica è l’origine del sentimento di perenne incompiutezza del cristianesimo russo e della sua missione storica: ultima delle Chiese antiche, o prima delle Chiese moderne? Erede del cristianesimo originario, o portatrice di una nuova rivelazione? L’ambiguità storica si aggiunge all’ambiguità geografica di una terra in bilico tra Europa e Asia, tra universale e particolare, tra passato e futuro. La Russia si sentirà sempre un «terzo elemento» della storia, della cultura e della fede: elemento imprevisto, indefinibile, superfluo, ma anche sorprendente, creativo e assolutamente indispensabile. Non a caso la fede russa si concentrerà più di ogni altra sul mistero della Santissima Trinità.
Senza approfondire ulteriormente quest’analisi culturologica generale, riportiamo lo sguardo sul ruolo del monarca nella coscienza russa. A partire dal principe Vladimir, il «nuovo Costantino», tutti i grandi principi e zar testimonieranno una particolare sensibilità alla loro funzione universale e salvifica, ben al di là della stessa grandezza del territorio da essi governato. La Russia sconfinata, o meglio, sempre alla ricerca di una definizione dei propri confini, sembra non essere mai soddisfatta di essi. Lo zar russo non è soltanto il «padre della nazione» o del popolo russo, ma è sovrano «di tutte le Russie», espressione ancora oggi utilizzata dal Patriarca di Mosca, figura ecclesiastica che si sovrappone a quella politica. Dietro questa espressione non stanno soltanto le scansioni del territorio, la Grande Russia, la Piccola e la Bianca o altre regioni confinanti. Oggi si parla non al caso del «mondo russo», che comprende tutti i paesi dove vivono dei russi; sono i paesi ex-sovietici, ma anche quelli dove i russi sono emigrati nei decenni sovietici e di recente. È il mondo delle tante culture e religioni, delle varie lingue e nazionalità, il mondo variegato delle superpotenze in equilibrio, non quello globalizzato e dominato dagli americani oggi, e dai cinesi domani. La Russia si sente al centro di un progetto sempre in via di definizione, ma che senza di essi non potrà mai realizzarsi.
Possiamo immaginare con quali sentimenti il debole e gentile zar Nicola II, erede delle feroci dinastie dei Rjurikidi e dei Romanov, di Ivan il Terribile e di Pietro il Grande, abbia assistito allo sfacelo del suo potere e del suo impero. Un misto d’ineluttabilità e di palingenesi, e forse anche di sollievo, deve aver attraversato il suo animo quando, a Pskov il 15 marzo 1917, cedette il trono al fratello Mikhail, che abdicò a sua volta il giorno successivo, vagheggiando una futura Assemblea Costituente che avrebbe ripristinato il trono dell’Aquila Bicipite. Nicola non ebbe la forza, ma neanche la visione per sostenere un ideale che si perdeva nelle tragedie della Prima Guerra Mondiale, la guerra che mise fine a tutti gli imperi, anche quello austriaco e prussiano, che dissolse l’illusione della Santa Alleanza tra i principi cristiani vincitori di Napoleone. Era svanito il principio stesso dell’autocrazia, difeso con tutte le forze dal nonno Nicola I, il «gendarme d’Europa» che sosteneva perfino i monarchi avversari, come il Papa e il Sultano, pur di non perdere la sacralità del potere. L’ultimo zar fu anche l’ultima figura divinizzata del sovrano, se non consideriamo il lontano dio-imperatore del Giappone, a sua volta annichilito dalla Seconda Guerra Mondiale.
Dopo l’abdicazione di Nicola II, sulla scena sono rimasti solo gli Stati moderni, partoriti dall’Illuminismo settecentesco e oggi in totale crisi di identità. Il potere ha perso la sua giustificazione superiore; in Russia fu sostituito da un’altra forma di sacralità, quella del Partito ideologico e totalitario, la forma religiosamente «rovesciata» dello zarismo concepita dal nuovo Anticristo la cui mummia riposa ancora oggi, moderno Tutankhamon, nel Mausoleo del Cremlino. Lo zarismo scomparve, perché arrivò il nuovo zar comunista, il nuovo vangelo di Lenin, poi realizzato dall’apostolo Stalin, che cercò a sua volta di farsi dio.

4. La mistica del bolscevismo

Spesso si parla di «due rivoluzioni» russe del 1917, quella di febbraio e quella d’ottobre. In realtà gli eventi di quell’anno vanno letti in continuità, ricordando il fallito golpe di luglio e l’altro fallimento di Kornilov a settembre, e la resa finale per assoluta incapacità del Governo Provvisorio di gestire la situazione, così che la presa del potere finale di Lenin e Trotskij appare la logica conseguenza di una serie di eventi tra loro concatenati.
Più che ricostruire le varie vicende, impegno su cui gli storici si stanno ancora adoperando, soprattutto nell’anno delle celebrazioni centenarie, conviene guardare alla sostanza di esse. Il crollo dello zarismo ha portato infine alla vittoria del bolscevismo per mancanza di alternative credibili. La vera lezione della rivoluzione russa è stata l’impotenza della democrazia e dell’ideologia liberale, che si è dimostrata inadeguata alla comprensione della realtà e priva di modelli applicabili alla situazione. I governi di L’vov e Kerenskij erano formati da persone rispettabili e preparate, con figure di spicco come il liberale Miljukov e il socialista Kerenskij, che fino all’ultimo sembrava il vero protagonista della rivoluzione. Come fu possibile la loro completa dissoluzione?
Al fondo della debolezza dei «cadetti» e dei socialisti stava una grave mancanza: senza lo zar, non esisteva più la giustificazione del potere. La rivoluzione fu vinta dai bolscevichi con gli slogan degli anarchici: «Abbasso l’autocrazia!» e «Tutto il potere ai Soviet!», con l’idea dell’anarchia e della gestione diretta del potere, quindi con una definizione del non-potere come il vero potere. In realtà, come la storia ha dimostrato, il comunismo ha fatto tutto, tranne che dare il potere in mano al popolo. Il nichilismo anarchico è stato sostituito dalla mistica del partito, annunciata da Lenin nelle «Tesi di aprile» e realizzata definitivamente da Stalin, dopo la morte del «padre fondatore». I democratici russi non hanno mai saputo invece su quale slogan mobilitare le folle, che infatti hanno seguito le sirene bolsceviche. Se in occidente le democrazie sono nate con lunghi processi costituzionali, seguiti spesso a sanguinose guerre intestine, la guerra civile russa è nata invece dalla negazione della stessa Assemblea Costituente, il cui scioglimento nel febbraio 1918 fu il vero inizio della fase bolscevica della rivoluzione.
L’Assemblea Costituente, meta illusoria del processo iniziato a febbraio, non aveva uno scopo preciso. Non cercava la restaurazione della monarchia in forma costituzionale, ciò che aveva permesso agli inglesi di salvare e perpetuare il proprio stato, né il deciso rovesciamento dell’ideale monarchico con principi liberali, come nella mistica della rivoluzione francese, e neppure fondare uno stato completamente nuovo e dinamico come avvenuto in America. Andava verso il nulla, e il nulla prevalse, per essere poi riempito dalla dittatura del partito. Questo dovrebbe accendere qualche lampadina di fronte ai tanti «populismi» recenti, che nella crisi della globalizzazione sguazzano proponendo di abbattere il potere costituito in nome del nulla, o della «rabbia popolare» contro le classi dominanti. Gli slogan tonitruanti nascondono sempre una volontà di ferro, che si manifesta dopo la catastrofe.
Confrontando, ad esempio, la dialettica di Kerenskij con l’efficacia propagandistica di Lenin, appare evidente quanto la prima fosse raffinata e distante, mentre il profeta del bolscevismo, secondo il filologo Georgij Kazagerov (12), era solo «mordacità polemica di basso livello». Lenin sapeva ridurre ogni oppositore a caricatura, impedendo una vera comprensione delle posizioni in campo; la volgarità e la semplificazione erano le sue vere armi vincenti. Antesignano dei commenti selvaggi del web dei nostri giorni, il linguaggio leninista si orientava sugli umori del «popolo», inteso come umori di piazza. Seguendo i bolscevichi, il popolo cominciò a ripetere ossessivamente l’appellativo di «borghesuccio» (burzhuj) nei confronti dei rappresentanti di altre forze in campo, liberali, socialisti, menscevichi, mentre i «lavoratori» erano solo i membri dei Soviet e i rappresentanti delle fabbriche (i contadini verranno poi disprezzati come kulaki), anche se lavoravano pure gli impiegati di banca, gli insegnanti o i musicisti.
Capolavoro della disinformazione e della propaganda populista fu, ad esempio, il poema I dodici di Aleksandr Blok, che lanciò definitivamente la retorica dei compagni (tovarishy) e del burzhuj «figlio di cane». Il racconto quasi in presa diretta della rivoluzione riporta il disprezzo per il «pope», figura ancora più esemplificativa del vecchio mondo da abbattere (Passata è l’allegria / Compagno prete?… Sulla pancia sporgente / La croce splendeva / per la gente…), e la caustica denuncia dell’impotenza dei liberali che volevano la Costituzione (Sulla fune – un cartello: / «Tutto il potere alla Costituente!» / Una vecchia piange – ahimè, / Non capirà mai perché / C’è quel cartello. / Che spreco con quel telo – / Quante pezze per i piedi dei ragazzi / Spogliati e scalzi…). I versi di Blok rivelano l’ansia religiosa e apocalittica della rivoluzione, la contro-religione rivoluzionaria che è alla base della mistica bolscevica (Libertà, libertà, / E la croce via di qua! / Tra-ta-ta!), che si conclude con la nuova chiamata di Cristo ai suoi nuovi «apostoli» (Con passo dolce e lieve / Tra mille perle di neve, / Il capo ornato di cisto – / Chi li guida? – Gesù Cristo.). I bolscevichi seppero arruolare scrittori e poeti per fondare la nuova arma della politica, la propaganda. Satira e mistica, polemica e nuova mitologia, nella propaganda comunista si rivela la natura del nuovo potere: la divinizzazione laica, la demonizzazione dell’avversario, la falsità eretta a sistema ideologico, il pregiudizio assoluto sul bene e sul male, definiti secondo le convenienze. È questa l’eredità che la rivoluzione russa ci consegna ancora oggi. Blok, Belyj, Esenin, Majakovskij e molti altri che non staremo qui a richiamare fecero da cassa di risonanza del nuovo verbo e del nuovo regno divino.
La rozza propaganda vinse sulla cultura e sulla religione, che sono state sistematicamente perseguitate e rinnegate per tutto il periodo del regime sovietico. L’intelligentsija fu la vera grande categoria sconfitta, e ha dovuto poi cercare di risorgere negli anni del «dissenso» sovietico. Oggi pare sia nuovamente scomparsa, di fronte alla nuova retorica populista e alla religione identitaria del terzo millennio, in cui si divinizza non più il partito, ormai anch’esso scomparso dalla scena, ma il «popolo» nella forma frammentata e virtuale del mondo della rivoluzione informatica.

5. Idolatria spirituale e diserzione dei chierici

Nel dialogo della raccolta Dal Profondo, da lui composto col titolo A banchetto con gli dei, il filosofo Sergej Bulgakov esprime con parole forti l’accusa all’intelligentsija rievocata dal Patriarca Kirill. Secondo lui «non c’era altro da attendersi se la classe istruita, cioè l’intelligencija, disertò in massa la Chiesa e fece dell’ateismo il primo dogma del suo credo, della rivoluzione il secondo e del socialismo il terzo. La Chiesa è certo incrollabile in tutto ciò che riguarda il settore divino della Grazia, ma come forza storico-culturale ha avuto e ha bisogno di persone istruite, come ne possiede in gran numero la cristianità occidentale». Bulgakov ammirava la potenza culturale del cattolicesimo, ma qui il grande filosofo e teologo fa riferimento a una condizione storica della cultura cristiana in Russia. La teologia e le scienze ecclesiastiche rimasero nel paese a lungo separate dal vivo del dibattito pubblico; nell’Ottocento, una serie di riforme impediva ai professori e agli studenti delle Accademie Teologiche patriarcali (attive a San Pietroburgo, Mosca, Kiev e Kazan’) la frequentazione delle università pubbliche. Le conseguenze di questo isolamento furono molteplici, e non tutte negative: proprio a causa del regime separato in cui erano relegate, le Accademie si potevano permettere riflessioni e studi anche più aperti e meno condizionati dei vari circoli slavofili e occidentalisti, sottoposti alla censura di stato e dominati dalla faziosità ideologica delle polemiche socio-politiche e storico-religiose.
Il primo a tentare di rompere questa barriera fu lo stesso Vladimir Solov’ev, che iniziò le sue ricerche frequentando entrambi gli ambienti della formazione intellettuale, quello statale e quello ecclesiastico, ma fu proprio per questo assai criticato. Agli inizi del Novecento, i discepoli di Solov’ev, come gli autori di Vechi e Dal Profondo, tentarono di riunire le forze della cultura cristiana ufficiale e libera nei già citati Seminari filosofico-religiosi, cui tra gli altri presero parte anche personaggi della gerarchia statale ed ecclesiastica, come l’oberprokuror Konstantin Pobedonostsev, il grande nemico di Lev Tolstoj, e i metropoliti Antonij (Khrapovitskij) e Sergij (Stragorodskij), che erano i migliori teologi dell’ortodossia ufficiale (13). Questi Seminari ebbero anche il merito di ispirare il movimento pre-conciliare, e l’istituzione delle Commissioni preparatorie del Concilio della Chiesa russa che ebbe luogo negli anni più drammatici della Rivoluzione, nel 1917-1918 (14). Il Concilio, che si aprì nella parentesi tra la rivoluzione di febbraio e quella di ottobre, aveva grandi ambizioni riformatrici (erano presenti più membri laici che ecclesiastici), che non si riducevano certo alla restaurazione del Patriarcato, che fu di fatto l’unico risultato finale, condizionato dalla necessità di individuare un interlocutore autorevole del nuovo regime bolscevico. Tra i protagonisti del Concilio, come già ricordato, vi era lo stesso Sergej Bulgakov, che guidò la commissione «sociale» cercando di infondere nelle riforme le sue proposte di economista e politico cristiano.
Le speranze conciliari si scontrarono con la dura realtà della persecuzione, e a Bulgakov non rimase altro che denunciare i falsi dogmi «dell’ateismo, della rivoluzione e del socialismo» che hanno dominato tutto il periodo sovietico. Il nuovo potere si organizzò di fatto come una «religione rovesciata» della negazione di Dio e come una «Chiesa rossa» del partito-guida, i cui principi erano stati esposti dallo stesso Lenin nelle «Tesi di aprile» da lui pronunciate appena giunto in Russia dalla Germania nel 1917. L’egemonia culturale comunista fu diretta conseguenza del totalitarismo, che portò infine alla divinizzazione del potere negli anni del «culto della personalità» di Stalin. Simbolo della religiosità atea fu il mausoleo di Lenin e Stalin sulla piazza Rossa di Mosca, in cui è rimasto fino a oggi il corpo mummificato di Lenin; invano si rinnovano da varie parti, anche dagli stessi rappresentanti del Patriarcato, gli appelli a seppellire la mummia e chiudere quel simbolo del paganesimo moderno (15). Del resto, lo stesso Bulgakov aveva profetizzato circa la natura pseudo-religiosa del nuovo potere, conseguenza proprio delle deviazioni degli intellettuali: «Per questa ragione l’intelligencija arriva soltanto all’idolatria spirituale, come lo è ogni sorta di divinizzazione del popolo o populismo; per questa ragione non s’è nemmeno accorta dell’ortodossia quale forza culturale in genere e principio estetico dell’esistenza in specie». Per combattere l’idolatria, dicono in coro gli autori di Dal Profondo, serve un’autentica rinascita religiosa.
La Russia ha conosciuto in realtà molte «rinascite», tutte legate alla riscoperta della vera fede. È in fondo la natura stessa del cristianesimo russo, che dal Battesimo del 988 si propone come il «nuovo popolo» cristiano chiamato alla rinascita della fede in un mondo pagano. Nell’autocoscienza russa tale missione si è rivelata in modo eclatante alla fine del Medioevo, quando il crollo di Bisanzio passò a Mosca il testimone della «Terza Roma», come ricorda lo stesso Bulgakov nel tentativo di riformulare il compito del cristianesimo ortodosso:

«La Chiesa “una, sobornaja e apostolica” durerà certamente fino alla fine dei tempi, ma non è così pacifico che l’ortodossia greco-russa attuale le sia adeguata. Personalmente io ritengo che abbiamo ormai oltrepassato i confini dell’ortodossia storica e che nella storia della Chiesa sia incominciata una nuova epoca, almeno altrettanto diversa dalla precedente come la Chiesa costantiniana da quella primitiva. La Chiesa costantiniana è terminata nel 1453 per Bisanzio, e per tutta la Chiesa ortodossa il 2 marzo 1917» (16)

Le preoccupazioni di Bulgakov si ripresentano anche oggi dopo la fine della grande persecuzione, quando la Russia attraversa di nuovo una fase molto importante di «rinascita religiosa».
Alla fine del comunismo, proclamata da Boris Eltsin a Natale del 1991, caddero infatti tutte le limitazioni alla libertà religiosa in Russia. Già nel 1990 erano state approvate ben due leggi sull’argomento, una sovietica e una russa, che aprirono la fase del ritorno spontaneo e incontrollato all’espressione pubblica della propria fede. A essere presa in contropiede fu proprio la Chiesa ortodossa, che a causa della sua compromissione col regime veniva giudicata poco credibile dalla popolazione. Furono molto attive nei primi anni Novanta le comunità protestanti e le associazioni religiose più disparate, dalle cosiddette «sette» tipo Scientology a gruppi legati alle religioni orientali, fino ai gruppi neo-pagani. Anche la Chiesa Cattolica mise in atto un piano di restaurazione della propria presenza in Russia, animato da missionari stranieri (provenienti soprattutto dalla Polonia) e nominando nel 1991 due vescovi-amministratori, mons. Tadeusz Kondrusiewicz a Mosca e mons. Josif Werth a Novosibirsk. Il Patriarcato di Mosca si mise ben presto di traverso, giudicando tutto questo attivismo una forma di «invasione» nel proprio territorio canonico, aprendo anche un’aspra controversia con i greco-cattolici ucraini che pretendevano la restituzione delle chiese confiscate da Stalin. Infine, la stagione della «rinascita religiosa» spontanea si trasformò in un processo di «rinascita ortodossa» imposto dall’alto, dopo l’approvazione di una nuova legge sulla libertà religiosa nel 1997, in cui l’Ortodossia veniva messa su un piano superiore a tutte le altre confessioni, i cui diritti vennero molto compressi. Questo fu possibile in seguito al fallimento della politica filo-occidentale di Eltsin e l’affermarsi di un patriottismo grande-russo, che ha trovato proprio nella Chiesa Ortodossa il proprio principale punto di riferimento ideologico. È la Russia di Putin, una nuova edizione della «Terza Roma» che non staremo qui ad analizzare nei dettagli.
Come affermava Valerian Murav’ëv in Dal Profondo, «le radici dell’azione e di tutta la concezione del mondo dell’antica Russia stanno nell’ortodossia, l’essenza interiore dell’ortodossia è la sua pienezza autosufficiente». Proprio il confronto con il cristianesimo occidentale, che si rinnova nella Russia odierna, era uno dei temi che stavano più a cuore ai filosofi religiosi d’inizio secolo, come prosegue Murav’ëv:

«Il cattolicesimo è una salda roccia che sostiene l’uomo all’esterno, l’ortodossia una morbida onda che lo penetra e allo stesso tempo lo abbraccia da ogni lato. Il cattolicesimo tutto taglia, l’ortodossia tutto compenetra. Lo spirito dell’ortodossia è uno spirito che abbraccia tutto, non conosce divisione e separazione. Impressionante è la differenza di queste due confessioni nei confronti degli elementi che stanno fuori dalla Chiesa. Il cattolicesimo li spazza via oppure li conquista, parte dal considerarli come esteriori, a sé estranei, laterali. La Chiesa ortodossa semplicemente non li conosce, per lei non esistono; conosce solo ciò che si trova nel suo recinto, giudica soltanto coloro che già si trovano in questo recinto: per l’ortodossia, nella sua forma vera più pura, non ci sono non-ortodossi perché esistono soltanto coloro che sono ortodossi» (17).

Queste parole tornano oggi di grande attualità: la «morbida onda» dell’ortodossia cerca di espandersi anche al di là del «mondo russo» in patria e fuori, venendo in soccorso, o in alternativa, a un cattolicesimo che non appare più in grado di «conquistare e spazzare via» i propri nemici, al contrario sembra piegarsi ad essi, almeno a giudizio dei russi.

6. Catastrofe antropologica e nuove apocalissi

Iosif Pokrovskij ha scritto in Dal Profondo usando una parabola apocalittica, tratta dalla storia della religiosità russa:

«Un’antica leggenda racconta che quando i cittadini di Novgorod al tempo di san Vladimir gettarono l’idolo di Perun nel Volchov, il dio in collera nuotò fino al ponte e vi lanciò un bastone esclamando: “Cittadini di Novgorod, eccovi il mio ricordo!”. Da allora gli abitanti di Novgorod nei tempi fissati si radunano armati di bastone sul ponte del Volchov e incominciano a pestarsi come invasati. Così Perun rovesciato si vendicò degli abitanti di Novgorod e questi ultimi dopo averlo rovesciato incominciarono a governarsi in ultima analisi con la legge del bastone. Ma la vendetta di Perun s’è limitata ai soli cittadini di Novgorod? Adesso sappiamo che purtroppo non fu così: la maledizione gravò su tutto il popolo russo e su tutta la sua storia fino al presente» (18).

La maledizione oggi si estende ben al di là della Russia, in tempi di nuove guerre di religione, di terrorismo fondamentalista e movimenti anti-sistema di ogni salsa e ogni colore in Oriente e in Occidente. La crisi sociale e istituzionale è stata illuminata nel saggio di Askol’dov sul «Significato religioso della rivoluzione russa», quando afferma che «La dinamica del potere popolare, in quanto vero dominio dell’intero statale e della sua vita da parte della moltitudine che lo costituisce, è lo stadio specifico di una certa fluidità di tutte le strutture, stadio che caratterizza appunto i periodi rivoluzionari nella vita dei popoli». in questo senso, possiamo ben dire che il secondo decennio del XXI secolo sta ripercorrendo diverse prospettive di quelle di un secolo fa in Russia. La crisi economica e di fiducia nelle istituzioni, gli attentati terroristici e le guerre locali, i movimenti populisti e la scomparsa delle ideologie, tutto fa pensare che il mondo intero attraversi un «periodo rivoluzionario», di cui non si vedono gli esiti.
Le ansie per il futuro dei sistemi sociali e politici nasce infatti dalla crisi spirituale e antropologica che gli autori di Dal Profondo avevano ben identificato, basandosi sulle dimensioni interiori dell’anima russa (gli «spiriti della rivoluzione» di Berdjaev). Nel suo intervento, Aleksandr Izgoev-Lande osserva che «secoli di cristianesimo hanno nobilitato la natura umana, l’ortodossia ha educato l’anima dell’uomo russo. Quando i bolscevichi fecero il loro esperimento e ci mostrarono l’uomo senza Dio, senza religione, senza ortodossia, ce l’hanno mostrato nella condizione di cui diceva Dostoevskij: “se Dio non esiste, tutto è lecito”, e tutto il mondo rimase raccapricciato da questa scimmia sanguinaria e sadicamente malvagia». Secondo Struve, «La spiegazione abituale corrente della catastrofe che d’ora in poi verrà probabilmente chiamata rivoluzione russa (benché sia abbastanza dubbio il suo diritto a questo titolo pur sempre moralmente significativo) si rifà anzitutto all’ignoranza e inciviltà del popolo». Inciviltà o nuova fase della civiltà: questo è ancora oggi il dilemma, di fronte a cambiamenti epocali anche dal punto di vista tecnologico e antropologico, con la sostituzione di antiche certezze e riferimenti sociali (la famiglia, la scuola, la Chiesa e così via) con forme individuali e immediate («dis-intermediate») di gestione delle questioni cruciali della vita dell’uomo e dei popoli. Nella politica contemporanea, la spinta alla dis-intermediazione ha portato finora a fughe in avanti o nel passato, senza ancora individuare modelli sociali credibili e condivisi. Come ricorda Pavel Novgorodcev in Dal Profondo,

«L’intelligencija russa assorbì insieme al veleno del socialismo una dose mortale di tossico populista. Per tossico populista intendo la credenza populista che il popolo è sempre pronto, maturo e perfetto, che bisogna solo distruggere il vecchio ordinamento statale perché al popolo risulti immediatamente possibile realizzare le riforme più radicali e il lavoro più grandioso di edificazione sociale. Il primo apostolo di questa fede fu Bakunin con il suo insegnamento sulla forza costruttiva della distruzione. Non accorgendosi delle radici anarchiche di questa fede, l’intelligencija russa si propose come compito politico fondamentale la lotta totale contro il potere, la distruzione dell’ordinamento statale esistente, nella fiducia che tutto si sarebbe messo a posto da sé quando in seguito a questa lotta il vecchio regime fosse caduto. La duplice esperienza della rivoluzione russa ha dimostrato che questa fede populista era la più pura illusione anarchista, assolutamente errata nella teoria ed esiziale nella pratica» (19).

L’illusione populista è di nuovo ampiamente diffusa, e non è un caso che il termine stesso di «populismo» sia stato inventato in Russia già nell’Ottocento, dagli esponenti dei primi movimenti rivoluzionari. Illuminanti anche le osservazioni di Vjačeslav Ivanov, quando intervenendo in difesa della lingua russa si scaglia contro il gergo rivoluzionario: «La nostra lingua è santa: la profanano sacrilegamente con un demonismo blasfemo, con la creazione di parole incredibili, insensate, anodine che sono quasi unicamente suoni appena alle soglie della parlata distinta, e comprensibili soltanto come urli d’intesa tra complici» (20). Sembra che il grande poeta stia parlando delle discussioni in auge sui moderni social media.
Stiamo andando verso una nuova Apocalisse nella storia? Ne è convinto uno dei migliori filosofi russi contemporanei, Vladimir Kantor, che ne ha scritto in molti testi da lui pubblicati in questi anni (21). In un lungo saggio apparso sul giornale-web «Gefter» (22), egli afferma che «non a caso il tema dell’anticristo fu sollevato dal pensiero filosofico-religioso russo. Quest’immagine perenne possiede una grande forza euristica ed ermeneutica. Proprio il suo dito indicatore può illuminare di luce inattesa il subbuglio della nostra realtà contemporanea, delle sue guide politiche, dei programmi e degli aridi provvedimenti… Appare così che come la Russia ha fornito la prima immagine dell’anticristo del XX secolo, anche noi, come diceva Leont’ev… cent’anni dopo generiamo lo stesso anticristo».
La storia dirà se hanno ragione i profeti di sventura, oggi del resto molto numerosi, o se possiamo fare nostro l’augurio finale delle lucide sentinelle di Dal Profondo, espresso nelle parole di Semen Frank:

«Tuttavia, una sete organica insopprimibile di vita genuina, d’aria e di luce, ci spinge a strapparci convulsamente dalla tenebra della tomba, ci chiama a svegliarci dal torpore sepolcrale e da questo assurdo balbettare di morti. Se alla Russia è dato rinascere – un miracolo in cui nonostante tutto vogliamo credere, anzi dobbiamo credere finché siamo in vita – questa rinascita ora può essere soltanto una vera e propria risurrezione, un sorgere dai morti con un’anima nuova a una vita nuova completamente diversa. Con la forza del libero pensiero e della libera coscienza, che nessuna calamità esterna, nessuna oppressione ed arbitrio ci possono togliere – dobbiamo innalzarci sopra il momento che passa, comprendere e valutare l’incubo del presente in nesso con tutto il nostro passato, alla luce non dei fuocherelli incerti e fatui delle esalazioni mefitiche, ma delle illuminazioni intranseunti e transtemporali della vita umana e nazionale».

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

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VLADIMIR Kantor, 2008, San Pietroburgo: l’impero russo contro il caos russo. Sul problema della coscienza imperiale in Russia. Mosca.
VLADIMIR Kantor, 2010, «Giudicare la creatura di Dio». Il pathos profetico di Dostoevskij. Saggi. Mosca.
VLADIMIR Kantor, 2017, L’Anticristo, o l’inimicizia in Europa: il formarsi del totalitarismo. La Russia e l’anticristo: il pan-umanesimo in un solo paese?. In http://gefter.ru/archive/22483.

NOTE A PIÈ DI PAGINA

(1)    F. Fukuyama, 1992.
(2)   D. Morris, 1967.
(3)   C. S. Lewis, 1943.
(4)   Vedi: F. Nietzsche, 1883-1885.
(5)   Filosofo svedese, fondatore della World Transhumanist Association nel 2006, autore di testi come Anthropic Bias, 2009.
(6)   È in realtà proprio questo evento, in cui le donne di San Pietroburgo scesero in piazza a chiedere il pane per le ristrettezze imposte dalle spese belliche, che diede origine alla «Festa della Donna» dell’8 marzo.
(7)   Dichiarazioni riprese dal sito https://ria.ru/religion/20170219/1488324263.html, consultato il 05.06.2017.
(8)  Opinione raccolta dal sito http://foma.ru/1917-pochemu-sinod-ne-vstupilsya-za-tsarya.html, consultato il 05.06.2017.
(9)  Vedi, tra gli altri, il sito https://www.business-gazeta.ru/news/330448, consultato il 05.06.2017.
(10) Dall’intervento a «Radio Svoboda» del 27.02.2017, in https://www.svoboda.org/a/28329308.html, consultato il 05.06.2017.
(11) Gli studiosi di storia slava antica a tutt’oggi sono incerti sui criteri di suddivisione dell’unità slava originaria. Da una parte, la «Grande Moravia» evangelizzata da Cirillo e Metodio fu separata in una parte sud-orientale, corrispondente in origine al Primo Impero Bulgaro, assorbita dall’Impero bizantino e grecizzata con l’introduzione dell’alfabeto cirillico in sostituzione dell’originario glagolitico; e in una parte nord-occidentale, sottoposta alla germanizzazione e latinizzazione forzata dei missionari sassoni. Si parla quindi di Slavia Orthodoxa o graeca in contrapposizione alla Slavia latina o catholica, ma si può anche semplicemente parlare di Slavia orientalis e occidentalis. Di fatto, dopo l’insuccesso della missione cirillo-metodiana, la Rus’ di Kiev assume il ruolo riassuntivo di unico regno slavo, che rimarrà attestato sulla frontiera orientale, intrecciandosi con il regno di Lituania e Polonia, che in seguito rappresenteranno la parte «occidentalizzata» degli slavi orientali.
(12) Da un’intervista sul sito https://rg.ru/2017/07/05/rodina-lenin.html, consultato il 13.07.2017.
(13) Antonij (Khrapovitskij, 1863-1936) era il leader dell’ala conservatrice della Chiesa Ortodossa. Vescovo e professore a Kazan’, metropolita di Volynia, nel 1905 aveva fondato l’Unione del Popolo Russo (Sojuz Russkogo Naroda), un’associazione di politica cristiana che ha ispirato un’analoga formazione della Russia attuale, presieduta dallo stesso Patriarca Kirill. Autore di una delle più importanti opere di teologia ortodossa del tempo, Il Dogma della Redenzione, pubblicato proprio nel 1917, partecipò al Concilio del 1917 e fu il più votato della terna dei candidati alla nomina di Patriarca, anche se poi per sorteggio la scelta cadde su Tikhon (Bellavin), che divenne il primo patriarca dopo la sospensione del 1700. Durante la Guerra Civile si schierò con l’armata bianca, da metropolita di Kiev propose addirittura l’unzione dell’atamano ucraino a zar dell’Ucraina indipendente. Fu poi il primo presidente della Chiesa russa all’estero (Zarubežnaja), istituita nel 1921 a Sremski Karlovtsy in Serbia dai vescovi russi in esilio, che Antonij guidò fino alla morte nel 1936.
A lui si contrappone nettamente la figura di Sergij (Stragorodskij, 1867-1944), teologo di tendenze più progressiste. Unico metropolita rimasto in libertà negli anni staliniani, fu di fatto il capo della Chiesa russa dal 1925 fino alla morte; nel 1927 firmò una dichiarazione di lealtà al regime sovietico, diventando il simbolo del collaborazionismo ortodosso. Nel 1943, in una dacia messa a disposizione da Stalin, i pochi vescovi ancora liberi lo elessero Patriarca per volere dello stesso dittatore, che intendeva sfruttare la Chiesa per rinforzare lo spirito patriottico nella lotta contro i nazisti. Morì l’anno successivo, e al suo posto venne scelto Aleksij (Simanskij), a sua volta chiamato il «Patriarca di Stalin», che rimase alla guida del patriarcato fino al 1970.
L’oberprokuror Konstantin Pobedonostsev (1827-1907) fu il più importante ministro del culto della Russia zarista, ideologo della politica conservatrice di Alessandro III a cui si ispira l’attuale presidente Putin. Occupò la carica di tutore della Chiesa dal 1880 al 1905, quando si dimise in polemica con le aperture statali alla tolleranza religiosa e con le proposte conciliari. Personaggio di grande statura morale e intellettuale, traduttore in russo dell’Imitazione di Cristo di Tommaso da Kempis, polemizzò duramente con Lev Tolstoj e con ogni forma di modernismo religioso, qualificandosi come l’ultimo baluardo dell’ideologia zarista che si fondava sulla triade «Autocrazia-Ortodossia-Popolarismo» (Samoderžavie-Pravoslavie-Narodnost’). Fu un punto di riferimento imprescindibile nel dibattito in cui erano impegnati gli autori di Dal Profondo.
(14)Il Concilio si riunì il 28 agosto 1917, per chiudersi il 20 settembre 1918. Oltre ai vescovi e ai superiori dei monasteri, a esso parteciparono membri eletti in ogni diocesi russa (2 chierici e 3 laici), per un totale di 564 membri, dei quali 299 erano laici. L’elezione del nuovo Patriarca avrebbe dovuto costituire la conclusione del processo conciliare, ma fu affrettata dal colpo di stato bolscevico; il 18 novembre fu dunque eletto per sorteggio Tikhon (Bellavin, 1865-1925), il candidato della terna eletta che aveva avuto il minor numero di voti. Tikhon tentò all’inizio di opporsi alla politica antireligiosa del nuovo regime, ispirando la posizione contro-rivoluzionaria che da lui venne chiamata tichonovščina; arrestato nel 1922, dovette cedere e sottomettersi al nuovo potere, aprendo la strada alla dichiarazione di lealtà di Sergij Stragorodskij, fatta poco dopo la sua morte.
(15) L’ultimo tentativo è stato messo in atto il 20 aprile 2017, quando 6 deputati (3 del partito di Putin e 3 del partito nazionalista di Žirinovskij) hanno presentato un nuovo progetto di legge alla Duma per spostare il corpo del padre della rivoluzione russa dalla piazza Rossa. Lo stesso giorno, peraltro, i deputati putiniani hanno ritirato le proprie firme, in seguito alle critiche provenienti da tutte le parti; i comunisti di Zjuganov hanno fatto appello al presidente in nome della memoria e dell’unità del popolo russo, e Putin ha preferito affossare di nuovo la questione, nonostante i timidi pronunciamenti del Patriarcato in favore della sepoltura del dittatore.
(16)S. Bulgakov, 2017, 127.
(17)V. Murav’ev, 2017, 195.
(18) I. Pokrovskij, 2017, 229.
(19)P. Novgorodcev, 2017, 218.
(20)V. Ivanov, 2017, 249.
(21)Ricordiamo, tra gli altri: K. Vladimir, 2010, 2008 e 2007 e molti altri saggi e articoli.
(22)K. Vladimir, 2017, in http://gefter.ru/archive/22483, consultato il 12.06.2017.

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