Le rivoluzioni nella teoria della crisi
di Giampiero Magnani
1. Modelli di rivoluzione
Le rivoluzioni costituiscono una categoria politica omogenea anche se ciascuna rivoluzione, presa singolarmente, costituisce un evento storico unico con elementi caratteristici propri, dettagli e circostanze non confrontabili con altri fenomeni dello stesso tipo. Le molteplici differenze che separano, ad esempio, la rivoluzione francese da quella russa non impediscono tuttavia, per entrambi i casi, di parlare di fenomeni di tipo rivoluzionario; il modello idealtipico di rivoluzione è presente infatti in entrambi gli eventi storici, e con le stesse caratteristiche fondamentali: di fronte ad una grave crisi dell’ordine politico esistente, emerge un programma politico alternativo che riesce a sradicare il vecchio ordine in tempi rapidi e lo sostituisce con uno nuovo, radicalmente diverso da quello precedente. La velocità del cambiamento è una caratteristica di ogni evento di tipo rivoluzionario, e così pure il mutamento radicale di quelle che possiamo chiamare le regole di comportamento collettivo, che in ogni sistema sociale comprendono le norme (non solo giuridiche) su cui si fondava il vecchio ordine, ma anche i valori che ne erano, per così dire, le premesse ideologiche; un cambiamento rapido e radicale delle regole del gioco collettivo è l’essenza di ogni evento che si possa definire rivoluzionario.
La letteratura che ha analizzato caratteristiche e tipologia delle rivoluzioni è molto vasta; riprendendo l’analisi approfondita che ne ha fatto Maurizio Ricciardi, possiamo dire che il termine Rivoluzione ha un significato «originario» o degli antichi e un significato «politico» o dei moderni: per gli antichi, rivoluzione era un evento ciclico, un movimento circolare ispirato a quello dei corpi celesti; per i moderni, rivoluzione è invece rivolgimento, è una visione lineare che comporta però una rottura dell’ordine costituito coniugata ad un’idea di modernizzazione e di progresso: in quanto tale, essa include una visione etica che implica l’immoralità dell’avversario, cioè l’immoralità del potere sovrano in quel momento costituito.
La rivoluzione dei moderni ha poi subìto mutamenti fondamentali a partire dalla fine del XVIII secolo, passando da una concezione naturalistica (la rivoluzione come parte di un più generale processo storico) ad una volontaristica che mette al centro l’agire politico dei soggetti rivoluzionari: vi è una rivoluzione politica che si pone il problema della legittimità (chi è il sovrano?), ed una rivoluzione sociale che si pone il problema delle regole di comportamento collettivo (qual è l’ordine della società?). In realtà la rivoluzione sociale non sostituisce quella politica, ma la completa; la rivoluzione francese, scrive Ricciardi, viene «collocata da Tocqueville all’incrocio di altre tre “rivoluzioni”: una amministrativa, una sociale ed una intellettuale. Il convergere di queste tre rivoluzioni ha creato l’evento rivoluzionario del 1789» (1). Il significato moderno di rivoluzione, osserva ancora l’autore, prevede sì «l’esplosione immediata e violenta contro il potere sovrano» (2), ma si distingue tuttavia da altri fenomeni come la sedizione, la rivolta o l’insurrezione perché è caratterizzata da una propria legalità rivoluzionaria che esclude l’anarchia, configurandosi «come sospensione di ogni legalità precedente»(3). Nella rivoluzione americana l’autorità del popolo viene contrapposta all’autorità della corona inglese, introducendo i concetti di rappresentanza e di autogoverno (da parte di un popolo che peraltro è ancora limitato nella sua composizione, in quando non include né i neri né le donne).
Nel Dizionario di Politica Gianfranco Pasquino individua alcuni elementi fondamentali che caratterizzano ogni rivoluzione e la distinguono dagli altri fenomeni di tipo politico: la rivoluzione ha come obiettivo il rovesciamento dell’ordine costituito, al fine di introdurre mutamenti radicali sia nelle istituzioni dello Stato che nei rapporti economici e sociali; per essere tale, una rivoluzione deve agire su entrambi i piani: il cambiamento deve investire sia la sfera pubblica che la struttura socioeconomica. La rivoluzione si differenzia dalla ribellione perché non è limitata ad un’area geografica circoscritta, coinvolge masse di individui (e in questo si distingue dal colpo di Stato, che ha caratteristiche verticistiche e di élite) ed ha motivazioni ideologiche evidenti in quanto vuole il sovvertimento totale dell’ordine costituito.
La rivoluzione per Pasquino porta inevitabilmente con sé la violenza, in quanto intende eliminare un’intera classe dirigente che, evidentemente, non sarà disponibile ad abbandonare la partita senza combattere: nella rivoluzione in senso stretto, che è la rivoluzione di massa, «si ha alta partecipazione popolare, la durata della lotta è lunga e l’incidenza della violenza interna è molto elevata» (4). I fenomeni rivoluzionari sono perciò caratterizzati da un forte radicalismo; tuttavia le rivoluzioni possono essere violente, ma anche non violente: la non violenza, unita a pratiche di resistenza sia individuale che collettiva, ha caratterizzato la rivoluzione anticoloniale in India (Gandhi).
Nella seconda metà del Novecento, inoltre, alcuni grandi fenomeni collettivi hanno assunto caratteristiche rivoluzionarie: Ricciardi cita la rivoluzione femminista, la rivoluzione sessuale e la «rivoluzione dell’indisciplina» (il Sessantotto); in tutti i casi, questi eventi si sono caratterizzati per gli elementi di modernizzazione che venivano introdotti nel dibattito collettivo, e nella negazione della identificazione fra «politico» e «statale». I nuovi fenomeni collettivi che si sono verificati nella seconda metà del Novecento e che Ricciardi non esita a definire «rivoluzionari» possono essere considerati parte non secondaria della rivisitazione del concetto stesso di rivoluzione, che si intreccia con gli altri grandi fenomeni rivoluzionari introdotti dalle scoperte scientifiche e dalle innovazioni tecnologiche moderne. Paolo Prodi, è la spinta rivoluzionaria che ha caratterizzato l’Europa e l’Occidente negli ultimi secoli, ed è il venir meno di questa capacità rivoluzionaria che origina il declino del Vecchio Continente. La prima grande rivoluzione, che fu la premessa di tutte quelle successive, per Prodi risale all’XI secolo e fu la «rivoluzione papale» gregoriana che sancì la divisione del potere religioso da quello politico, «un dualismo istituzionale che renderà inquieta, in fibrillazione continua, tutta la storia politica e giuridica dell’Occidente sino ai nostri giorni» (5). Dalla fine del monopolio politico-religioso nascono infatti l’idea di rappresentanza e quella che il tiranno, non più legittimato, possa essere abbattuto; il costituzionalismo moderno presuppone il dualismo istituzionale fra Stato e Chiesa, «prima si sviluppa la divisione del potere e solo dopo quella dei poteri» (6). La Riforma gregoriana fu quindi per Prodi la prima grande rivoluzione a partire dalla quale furono possibili le altre cinque grandi rivoluzioni della storia moderna: la Riforma protestante, la Gloriosa Rivoluzione e le tre più recenti, quelle americana, francese e russa.
Le rivoluzioni non vanno confuse, anche secondo Prodi, con altre forme di contestazione del sistema politico come possono essere le proteste, i movimenti di piazza, persino le insurrezioni: ciò che la rivoluzione ha di più rispetto a questi moti collettivi, è l’ideologia che porta ad elaborare una visione alternativa del futuro; le «primavere arabe», ad esempio, non rientrerebbero nei fenomeni di tipo rivoluzionario, perché sono prive di un progetto di nuova società. Una tensione rivoluzionaria caratterizza invece tutta la storia moderna dell’Europa, nella quale l’ideologia teologica si spoglia man mano della propria veste teologica, la profezia diventa utopia e la rivoluzione diviene lo «strumento per introdurre un nuovo ordine basato su un diverso progetto di società» (7). Ma mentre in Europa una «religione politica» costruirà nuove divinità secolari (la nazione, la classe e la razza) con le conseguenze drammatiche che ne deriveranno, in America una «religione civica» considererà Dio garante del patto politico e costituzionale del Paese.
2. Stato e rivoluzione
Il rapporto fra Stato e rivoluzione è alla base dell’analisi di Theda Skocpol, che ha elaborato una interessante comparazione fra le rivoluzioni francese, russa e cinese; le rivoluzioni, secondo l’autrice, sono fenomeni tanto importanti quanto rari nella storia moderna, con effetti che si producono ben al di là del paese di origine. Diversamente dalle rivoluzioni politiche, che interessano soltanto la struttura dello Stato, le rivoluzioni sociali mutano in profondità sia le strutture sociali che quelle politiche, attraverso conflitti fra gruppi e classi. Un criterio fondamentale per distinguere le rivoluzioni sociali da altri eventi socio-politici, per l’autrice, è il successo del mutamento: deve potersi riscontrare, attraverso l’analisi storica successiva, che le rivoluzioni hanno prodotto «un mutamento effettivo dello stato e delle strutture di classe» (8). Le situazioni rivoluzionarie però non sono «costruite» ma emergono già nel vecchio regime e gli esiti finali dei processi rivoluzionari sono spesso imprevisti, persino dagli stessi attori della rivoluzione che non sono in grado di programmarli fino in fondo, anche a causa del contesto geopolitico internazionale che incide profondamente sull’esito finale: «le crisi rivoluzionarie non sono rotture storiche totali che tutto ad un tratto aprono la strada a qualsiasi possibilità purché rientri negli obiettivi di volenterosi rivoluzionari!» (9).
Il contesto europeo è stato peraltro particolarmente adatto al verificarsi di tali eventi, perché caratterizzato da una pluralità di Stati fra loro in concorrenza economica (capitalistica) e in competizione militare; sullo sfondo permane sempre l’ineguale sviluppo economico, ma l’evento scatenante di una rivoluzione spesso non è di natura economica bensì politica, come una sconfitta militare o una minaccia dall’esterno:
«Quasi tutti coloro che studiano le rivoluzioni sociali riconoscono che esse hanno inizio con crisi manifestamente politiche, come il caos finanziario della monarchia francese o la convocazione degli Stati Generali nel 1787-89. (…) E tutti riconoscono che le rivoluzioni culminano con il consolidamento di nuove organizzazioni statali» (10).
L’organizzazione dello Stato, ed in particolare dei suoi apparati repressivi, può far sì che questo rimanga stabile per lungo tempo anche se delegittimato, soprattutto se l’apparato militare professionale riesce a rendersi autonomo rispetto alle classi che dominano economicamente il Paese; la storia è piena di rivoluzioni fallite, di cui quella russa del 1905 è solo un esempio. Francia, Russia e Cina erano stati imperiali con gerarchie amministrative e militari ben differenziate e coordinate; ma la loro economia era prevalentemente agricola, divisa fra masse contadine e aristocrazie fondiarie, e furono le rivolte contadine a rendere impossibili sia la controrivoluzione che una svolta liberale della rivoluzione stessa. Per quanto riguarda le rivoluzioni russa e francese, osserva la Skocpol, «i dirigenti rivoluzionari a base urbana, trovandosi nell’impellente necessità di edificare organizzazioni statali sufficientemente forti da sconfiggere i controrivoluzionari all’interno e i nemici all’esterno, dovettero in entrambi i casi dar vita a regimi più accentrati e burocratici» (11).
Le rivoluzioni non abbatterono gli Stati, ma nei tre casi considerati dall’autrice apportarono fondamentali trasformazioni, un mutamento che consisteva in primo luogo nel cambiamento degli orientamenti di valore per l’intera società, nell’introduzione di nuovi valori a livello collettivo grazie al credo universalistico di ideologie rivoluzionarie che, come il giacobinismo e il marxismo-leninismo, erano «totalitarie» nelle giustificazioni che offrivano ai loro proseliti; nel far questo, il risultato finale fu però la costruzione di Stati più forti e più centralizzati. Le rivoluzioni sociali moderne non hanno avuto perciò gli esiti prefigurati da Marx, anzitutto perché sono avvenute in paesi agricoli e non in economie capitalistiche avanzate; e poi perché il marxismo non ha tenuto conto del ruolo fondamentale degli Stati, «la forza autonoma, nel bene e nel male, degli stati in quanto apparati burocratico-coercitivi inseriti in un sistema internazionale di stati militarizzati» (12).
Le analisi di Theda Skocpol ci portano alle tesi espresse anche da Ekkehart Krippendorff, che nel libro Lo Stato e la Guerra parla espressamente di rivoluzioni statalizzate riferendosi in particolare alla riorganizzazione dell’Armata Rossa in Unione Sovietica; il potere sovietico, osserva, «si identificò con il mantenimento dello Stato, al quale venne data la priorità assoluta» (13). La statalizzazione della rivoluzione russa si rivelò peraltro fondamentale per contrastare il nazifascismo: «È assolutamente certo che l’Unione Sovietica non avrebbe potuto contrastare con successo l’invasione tedesca del 1941, se i suoi dirigenti politici non avessero sistematicamente sviluppato la capacità di autodifesa da anni» (14).
Per Carlo Galli la rivoluzione, insieme alla decisione sul «caso d’eccezione», rappresenta il lato drammatico della sovranità. Le tre grandi rivoluzioni europee hanno sostituito ciascuna una sovranità indebolita con una nuova e più efficiente; Galli individua un ciclo sovranità-rivoluzione che è alla base della politica moderna: «La rivoluzione è un eccesso di potenza sociale che si fa politica, è la presenza concreta di un popolo o di una classe che sfonda lo spazio pubblico, che agisce contro la sovranità esistente e che ne genera una nuova, più solida, potente, razionale»15.
La rivoluzione è, prima di tutto, un radicale atto di disobbedienza; è disobbedienza al potere costituito e, dal punto di vista di chi la subisce (classi, ceti o gruppi che fino ad ora detenevano il potere), è in ogni caso illegittima; osserva Norberto Bobbio in proposito: «rispetto all’ordinamento contro cui muove, la rivoluzione è sempre, per definizione, ingiusta. La giustificazione della rivoluzione viene dopo, a cose fatte, quando l’ordinamento nuovo è costituito: ed è in questo ordinamento, non nel vecchio, che la rivoluzione trova i titoli della propria legittimità» (16).
Le rivoluzioni si caratterizzano per imprevedibilità, radicalità, disobbedienza, utopismo: le rivoluzioni sono spesso imprevedibili; e imprevedibili ne sono anche gli esiti, soprattutto perché il progetto politico di rottura che esprimono nei confronti dell’ordine esistente è talmente radicale da divenire utopistico in un contesto differente. Oppure si rivela ugualmente inapplicabile anche alla situazione post rivoluzionaria: l’impossibilità di prevedere le conseguenze delle rivoluzioni fa sì che queste troppo spesso producano disastri; come nella favola dell’orso e dell’uomo descritta da Ortega y Gasset (17).
La storia è piena non solo di rivoluzioni che, una volta istituzionalizzate, non hanno mantenuto le loro promesse originarie, ma anche di rivoluzioni fallite: la Comune di Parigi (1871) e l’insurrezione in Ungheria nel 1956 sono esempi di rivoluzioni non riuscite per l’impossibilità o l’incapacità di stringere accordi con la classe dirigente prerivoluzionaria; alcune rivoluzioni in America centrale e meridionale sono fallite per l’incapacità di portare a termine il progetto di radicale cambiamento che, come ha osservato Pasquino, deve investire insieme le istituzioni e la struttura sociale ed economica del Paese. La storia delle rivoluzioni moderne evidenzia poi una trasformazione dell’agire rivoluzionario: si passa dalla guerra di liberazione nazionale che caratterizza la rivoluzione americana, alla ricerca di un ordine nuovo da parte dei rivoluzionari francesi, fino alle elaborazioni marxiane sulla liberazione dell’uomo produttore: «da questo momento, la rivoluzione apparirà come la panacea dei mali di ogni società e opererà come simbolo potente e come stimolo per il superamento dell’oppressione e della scarsità di risorse» (18).
Il carisma dei leader è un fattore che aiuta la riuscita di ogni rivoluzione: il carisma di Lenin era fuor di dubbio quello di un capo rivoluzionario; come osserva Galbraith, «molto più di Marx, Lenin era un rivoluzionario. Marx scrisse, Lenin guidò le masse. Egli resta il gigante rivoluzionario che sovrasta un’intera epoca» (19). Erich Fromm arriverà perfino ad individuare quello che egli chiamerà il carattere rivoluzionario; che, osserva Fromm, non è quello del ribelle, neppure quello del fanatico o del cinico: non tutti coloro che prendono parte ad una rivoluzione hanno un carattere rivoluzionario, che si caratterizza per spirito critico, indipendenza, libertà e per il coraggio di disobbedire. Scrive Fromm in proposito:
«La maggioranza degli individui, ovviamente, non sono mai stati caratteri rivoluzionari. Ma se non viviamo più nelle caverne è proprio perché nella storia dell’uomo ci sono sempre stati caratteri rivoluzionari a sufficienza per uscire dalle caverne e dagli equivalenti delle caverne. Ci sono però molti altri che pretendono di essere rivoluzionari quando in realtà sono ribelli, caratteri autoritari o opportunisti politici»(20).
Gli appartenenti a queste ultime categorie caratteriali hanno spesso condotto le rivoluzioni ad esiti completamente diversi rispetto alle buone intenzioni iniziali. La storia della rivoluzione russa, dai suoi primi inizi fino allo stalinismo, è una rappresentazione completa di questo fenomeno, la cui natura anche psicologica è stata approfondita da autori come Erich Fromm e Hannah Arendt.
3. Cause ed effetti
La natura carismatica dei leader rivoluzionari porta ad una sottovalutazione del progetto di società che si vuole costruire, che diventa così meno importante rispetto allo svolgimento del processo stesso; il cambiamento il più delle volte non è progettato ex ante, ma costruito in divenire, nel corso del processo storico: è quanto avvenne in Russia, in quanto il marxismo, che pure era una potentissima teoria critica dell’ordine economico, sociale e politico esistente (e non solo di tipo capitalistico), non proponeva tuttavia alcun progetto articolato per la nuova entità che si voleva costruire, cioè la società comunista, le cui caratteristiche era tracciate soltanto a grandissime linee e con poche idee guida. Un cambiamento che è il più delle volte violento, ma non necessariamente: la rivoluzione d’ottobre del 1917 fu, senza dubbio, una rivoluzione violenta; la stessa cosa non si può dire degli eventi che nel 1989 misero fine a settant’anni di comunismo.
Possiamo considerare quegli eventi come rivoluzionari? Non vi è dubbio, se per rivoluzione intendiamo un processo collettivo di cambiamento, veloce quanto radicale, delle «regole del gioco»; Norberto Bobbio, nel saggio Quale riformismo (che è del 1985, e quindi anteriore alla fine del comunismo), ha distinto la rivoluzione come causa, che consiste per Bobbio nella «rottura violenta di un ordine costituito», dalla rivoluzione come effetto che è invece «la trasformazione radicale di un determinato assetto sociale» (21); non è detto che dall’una consegua l’altra, perché anche un processo prolungato di riforme, secondo Bobbio, può avere effetti rivoluzionari.
Gianfranco Pasquino ha affrontato il dibattito sulle cause della rivoluzione, distinguendo cause primarie da cause secondarie; le cause primarie sono le situazioni di fondo, le condizioni strutturali entro cui può svilupparsi l’agire rivoluzionario, come è, ad esempio, la situazione economica del paese prima della rivoluzione: le crisi, in particolare quelle economiche e specie se intense e prolungate, giocano un ruolo fondamentale per lo svilupparsi di situazioni rivoluzionarie. Le cause secondarie sono eventi o fatti particolari, sono le occasioni che possono scatenare la rivoluzione, quelle che Pasquino chiama gli acceleratori (22). Condizioni strutturali ed acceleratori sono presenti in tutte le situazioni di crisi: Charles P. Kindleberger, nella sua Storia delle crisi finanziarie, distingue cause prossime da cause remote; queste ultime sono di solito cause di natura economica, come possono essere gli squilibri nella bilancia dei pagamenti (fra esportazioni ed importazioni di merci), e più spesso carestie dovute a cattivi raccolti e alla distribuzione fortemente ineguale delle scarse risorse disponibili. Le cause prossime sono le micce che fanno deflagrare la situazione ponendola fuori controllo: «il crollo può precipitare per una semplice informazione» (23). Fra le cause prossime troviamo anche circostanze ed eventi particolarmente favorevoli e non replicabili, come quelli che fecero della rivoluzione russa una rivoluzione bolscevica e non qualcosa di diverso (24).
Le cause prossime possono far apparire gli eventi rivoluzionari molto più instabili di quanto poi la storia dimostrerà; osserva Edward H. Carr: «Pochi in Occidente pensarono da principio che il regime rivoluzionario sarebbe sopravvissuto in Russia più di pochi giorni o di poche settimane. Gli stessi dirigenti bolscevichi non credevano di poter resistere indefinitamente, se i lavoratori dei paesi capitalistici non venivano in loro aiuto rivoltandosi contro i propri governi» (25).
Tutte le rivoluzioni sono eventi sociali di massa? Non è sempre vero, infatti sono esistite anche rivoluzioni volute dall’alto, come accadde in Giappone e che portarono al militarismo (26); e processi rivoluzionari – assolutamente rivoluzionari nelle loro conseguenze – sviluppatisi a partire da scoperte scientifiche ed innovazioni tecnologiche (rivoluzioni come effetti, per dirla con Bobbio). Anzi, storicamente, potremmo dire che la seconda guerra mondiale, l’ultima battaglia della Grande Guerra come la definì Galbraith, ha segnato una sorta di spartiacque temporale fra un certo tipo di rivoluzioni ed un altro tipo di eventi rivoluzionari: prima del secondo conflitto mondiale, le rivoluzioni erano essenzialmente fenomeni violenti e di massa, o che comunque coinvolgevano larghe masse, e che avevano come obiettivo il rovesciamento repentino dell’ordine politico esistente. Erano rivoluzioni politiche e l’agire politico era considerato lo strumento principale per cambiare le «regole del gioco»: fenomeni peraltro causati da ragioni in massima parte di natura economica o comunque di crisi profonda delle strutture produttive della società in questione; la rivoluzione più importante, almeno nel Ventesimo secolo, fu quella russa, nel pieno della crisi provocata dalla Grande Guerra. Tali fenomeni furono possibili in contesti che peraltro erano tutto meno che democratici: la democrazia, osserva Bobbio, è il solo metodo di governo che impedisce eventi di tipo rivoluzionario, «la democrazia intesa come un insieme di regole del gioco che debbono servire a risolvere i conflitti pacificamente esclude la rottura rivoluzionaria»(27).
Dopo la fine del secondo conflitto mondiale, le rivoluzioni violente e di massa non cessarono di prodursi, come dimostra la storia della Cina di Mao; ma nuove forme rivoluzionarie hanno fatto la loro comparsa nella storia umana, causate anch’esse da situazioni critiche, in primis lo stesso conflitto mondiale, ma anche la guerra fredda e la recente «seconda grande contrazione» che ha caratterizzato la crisi prima finanziaria e poi economica del 2007 e del 2011: rivoluzioni non più di popolo, ma capaci ugualmente di modificare alla radice i comportamenti collettivi di intere popolazioni se non del mondo intero; rivoluzioni nelle conseguenze piuttosto che nell’evento scatenante; rivoluzioni non come causa ma rivoluzioni come effetto, direbbe Bobbio.
Le rivoluzioni scientifiche e tecnologiche hanno cambiato in profondità le regole del gioco collettivo: in particolare dopo Hiroshima e Nagasaki, la storia dell’umanità non è più stata la stessa, e così pure dopo la recente grande globalizzazione nata dalla rivoluzione delle ICT. Due fasi storiche differenti, due diverse tipologie di eventi rivoluzionari, profondamente diversi fra di loro eppure così simili in alcuni elementi chiave, tanto da farne un’unica categoria politica.
4. Le rivoluzioni nel XX secolo
Il Novecento è stato il secolo delle rivoluzioni: rivoluzioni politiche, a partire da quella russa del 1917, ma anche rivoluzioni scientifiche e tecnologiche; entrambe, quelle politiche e quelle scientifico-tecnologiche, hanno cambiato radicalmente valori e norme di comportamento collettivo di larga parte dell’umanità, anche se non sempre nel senso di un progresso nell’applicazione dei tre principi – libertà, eguaglianza e fratellanza – che costituiscono tuttora quel grande progetto incompiuto che fu alla base della rivoluzione francese. Il Progetto Ottantanove resta la più rilevante costruzione teorica occidentale, come hanno osservato Martinelli, Salvati e Veca: «siamo convinti che i principi dell’Ottantanove costituiscano tuttora il nucleo normativo del progetto moderno; che questo nucleo abbia generato e possa continuare a generare promesse di società desiderabili» (28).
A partire dall’Illuminismo appare sempre più chiaro che i fenomeni critici, caratterizzati dalla critica dell’ordine sociale e politico esistente, e dalla crisi dello stesso, sono le precondizioni dell’agire politico di tipo rivoluzionario; due condizioni che devono essere presenti simultaneamente: il vecchio sistema è giunto per così dire al capolinea, ed è già disponibile una robusta teoria critica che non aspetta altro che di essere misurata sul campo. La teoria critica senza le circostanze giuste si rivela una speranza o un’utopia, le circostanze prive di lettura critica non potranno, da sole, produrre cambiamenti significativi; entrambi i fenomeni, osserva Koselleck, «sono un fatto storico unitario: la crisi politica, se di crisi si tratta, che spinge verso una decisione, e le filosofie della storia corrispondenti a questa crisi, nel cui nome si cerca di anticipare questa decisione, di influenzarla, di guidarla oppure – come catastrofe – di sventarla» (29).
La rivoluzione è sempre preceduta da un periodo di crisi che è la premessa di ogni evento di tipo rivoluzionario; la crisi, osserva Edgar Morin, «è l’aumento del disordine e dell’incertezza all’interno di un sistema (individuale o collettivo)»30. La decisione nello stato di incertezza per Carl Schmitt identifica il sovrano, cioè colui (individuo o gruppo) che è in grado di ristabilire l’ordine a partire da una situazione non regolata; il sovrano, scrive Schmitt, «decide tanto sul fatto che sussista il caso estremo di emergenza, quanto sul fatto di che cosa si debba fare per superarlo. Egli sta al di fuori dell’ordinamento giuridico normalmente vigente e tuttavia appartiene ad esso poiché a lui tocca la competenza di decidere se la costituzione in toto possa essere sospesa» (31).
Il sovrano stabilisce le regole che ordinano i comportamenti collettivi, cioè le norme e i valori che devono essere accettati e rispettati da una comunità affinché i suoi ordinamenti rimangano validi; ma il sovrano non è un’entità definita una volta per tutte, perché le circostanze possono permettere a singoli individui e gruppi di divenire i nuovi sovrani: il rivoluzionario diventa sovrano nella misura in cui riesce ad essere al posto giusto nel momento giusto; accade così che possano verificarsi eventi del tutto imprevedibili, occasioni fortuite e soluzioni politiche prima impensabili. Infatti, osserva ancora Morin, «in alcuni di questi momenti chiave, è possibile, per una minoranza, per un’azione individuale, deviare il corso degli eventi in una direzione a volte altamente improbabile» (32).
È quello che accadde in Russia nel 1917, la prima e più importante rivoluzione del Ventesimo secolo: la rivoluzione russa non si può spiegare compiutamente senza tener conto del tentativo, fallito, che la precedette e delle condizioni sociali ed economiche del paese a quell’epoca; fu la crisi del 1905 e la sua conclusione disastrosa a porre le premesse per la rivoluzione successiva. E fu la prima guerra mondiale, il principale fattore di crisi del Ventesimo secolo, a costituirne il terreno fertile; la seconda guerra mondiale, che fece più vittime, fu in realtà una conseguenza del primo conflitto, e perciò è stata definita da John Kenneth Galbraith l’ultima battaglia della Grande Guerra.
Osserva in proposito Galbraith:
«La generazione della seconda guerra mondiale, la mia generazione, penserà sempre a questo conflitto come al grande spartiacque moderno del cambiamento. (…) Ma dovremmo tuttavia sapere che, in termini sociali, un cambiamento di gran lunga più decisivo arrivò con la grande guerra. Fu allora che interi sistemi politici e sociali, strutture vecchie di secoli, si sfasciarono – qualche volta in poche settimane. E altri furono permanentemente trasformati. Fu nella prima guerra mondiale che andarono perdute certezze plurisecolari; sino ad allora aristocratici e capitalisti si erano sentiti certi della loro posizione, e persino i socialisti si erano sentiti certi della loro fede. Tutto ciò era finito per sempre. Ebbe inizio l’età dell’incertezza. La seconda guerra mondiale continuò, confermò ed estese questo cambiamento. In termini sociali, la seconda guerra mondiale fu l’ultima battaglia della grande guerra»(33).
Non a caso, il titolo del capitolo da cui abbiamo citato il brano di Galbraith è Lenin e il grande dissolvimento. Ma Galbraith ha effettuato anche una interessante e originale analisi sulla moneta come strumento tecnico fondamentale, tanto importante quanto non riconosciuto dall’analisi storica e politica, per la riuscita delle rivoluzioni: gli italiani, ha osservato, inventarono le banche, gli inglesi la Banca Centrale, ma furono gli americani a inventare la moneta cartacea stampabile ogni qual volta ce ne fosse bisogno, in particolare per finanziare operazioni militari e, prima ancora, la stessa loro indipendenza dalla corona inglese: «furono questi biglietti a finanziare la Rivoluzione americana. Tra il giugno 1775 e il novembre 1779, si ebbero ben quarantadue emissioni di valuta da parte del Congresso continentale»(34). La tassazione in un grande paese come gli Stati Uniti era pressoché impossibile, non esistevano alternative e la conseguenza finale fu l’iperinflazione: «gli Stati Uniti nacquero in un’ondata non di inflazione ma di iperinflazione, cioè in quel tipo di inflazione che può finire solo con la svalutazione totale della moneta»(35). Il finanziamento dei costi della rivoluzione attraverso la stampa di biglietti cartacei fu il metodo utilizzato da tutte le grandi rivoluzioni moderne, da quella francese a quelle russa e cinese; in Francia, osserva Piketty, «alla fine del 1789, i governi rivoluzionari emettono i famosi “assegnati”, destinati a diventare, nel 1790-91, una vera e propria moneta circolante e di scambio (una delle prime banconote cartacee della storia) e a determinare, fino al 1794-95, una forte inflazione» (36). L’importanza della creazione di carta moneta per l’esito delle rivoluzioni è stata descritta da Galbraith in questi termini:
«Se i cittadini francesi fossero stati costretti ad agire secondo i canoni della finanza tradizionale, non avrebbero potuto far niente, esattamente come gli americani. Se la carta era stata utile ai rivoluzionari del tardo Settecento, perché non poteva esserlo di nuovo, come lo sarebbe stata in Russia dopo il 1917 e in Cina dopo la seconda guerra mondiale?
Verosimilmente questo spiega anche perché il ruolo rivoluzionario della moneta cartacea sia così poco esaltato» (37).
Nel 1920, l’85 per cento circa del budget di spesa dei sovietici era coperto da emissioni di moneta cartacea; successivamente, gli stessi governanti russi divennero difensori della stabilità dei prezzi e della solidità monetaria. Tuttavia, osserva Galbraith, se l’utilizzo della carta moneta è stato un fattore tecnico necessario, indispensabile per la riuscita delle rivoluzioni, di per sé non era sufficiente come dimostrano i casi storici di tentativi rivoluzionari pur finanziati allo stesso modo ma non riusciti (Galbraith cita a tale proposito l’esempio di Pancho Villa, nel 1913). La rivoluzione francese, peraltro, impose anche un nuovo sistema fiscale che prevedeva la tassazione dei proprietari terrieri, l’imposta di successione e la «bancarotta dei due terzi», che era in pratica il default dei debiti lasciati dall’ancien régime (38).
La storia del XX secolo è piena di situazioni critiche che in diversi casi approdarono ad eventi di tipo rivoluzionario, più o meno riusciti: la rivoluzione russa del 1917, la più importante di tutte, che fu preceduta dal fallimento di quella del 1905; la rivoluzione nazionalista del Giovani turchi del 1908, la rivoluzione messicana del 1910-1911, la «rivoluzione delle rose d’autunno» nel 1918 in Ungheria, l’insurrezione spartachista del 1919 in Germania, la guerra civile spagnola negli anni Trenta.
Durante e dopo la fine della seconda guerra mondiale, eventi rivoluzionari di vario genere si susseguirono nel mondo, anche in coincidenza con la fine dei vecchi imperi coloniali (39): la prima e la più importante di tutte fu quella cinese condotta da Mao Tse-tung; ma ricordiamo la rivoluzione vietnamita, che condurrà ad una delle più lunghe e sanguinose guerre del secondo dopoguerra; la rivoluzione nasseriana del 1952, quella cubana di Fidel Castro che porterà alla costituzione di uno dei regimi dittatoriali più longevi della storia contemporanea, i guerriglieri dell’America Latina che ebbero in Che Guevara la figura di maggiore spicco, la rivoluzione indonesiana, quella algerina, i diversi movimenti di liberazione africana, la rivoluzione portoghese del 1974. E così via, fino al dissolvimento del blocco comunista in Europa a partire dal crollo del muro di Berlino nel 1989 e, in tempi più recenti, alla controversa Primavera araba con i suoi fallimenti. Senza dimenticare, a proposito di fallimenti, i tragici eventi del 1956 in Ungheria e la Primavera di Praga nel 1968. E senza dimenticare che le rivoluzioni del XX secolo sono in realtà soltanto una parte degli eventi rivoluzionari che hanno contrassegnato la storia moderna, che è stata fortemente influenzata dalle rivoluzioni borghesi e liberali, da quella inglese del Seicento a quella americana del Settecento, a quella francese che, a partire dal 1789, portò nell’Ottocento al susseguirsi di moti e insurrezioni di matrice liberale in tutta Europa. L’emergere di situazioni di crisi, cui non fu possibile in nessun caso trovare soluzioni di riforma, furono le premesse per l’azione politica di tipo rivoluzionario, che nella gran parte dei casi si concluse in modo drammatico e con l’instaurazione di regimi dittatoriali, dal Terrore giacobino fino ai regimi comunisti nelle declinazioni dello stalinismo e del maoismo.
La rivoluzione cinese, in particolare, si caratterizzò fin dall’inizio come rivoluzione delle campagne, da esportare come modello in tutti i paesi sottosviluppati, in Asia, Africa e America Latina; e volle dimostrare che la storia può procedere a balzi, e non per fasi successive come prevedeva l’ideologia marxista: «La Repubblica popolare cinese era sorta sulla punta delle baionette. La teoria di Marx ed Engels della nascita del comunismo dallo sviluppo delle forze produttive era lontana anni luce» (40). Il maoismo, in realtà, finì per scuotere le coscienze giovanili nei paesi sviluppati, influenzate dai grandi avvenimenti dell’epoca: rivoluzione culturale cinese, guerra nel Vietnam, Maggio francese, lotte operaie. E continuò ad influenzare gruppi di antagonisti e movimenti di guerriglia in vari paesi, nonostante fossero conclamati gli esiti disastrosi delle politiche perseguite dall’esperienza storica che ebbe in Mao il principale artefice: «Oggi il giudizio degli storici è pressoché unanime nel considerarlo responsabile di un bilancio immane di vittime, probabilmente fino a 70 milioni di morti» (41).
Ma la più spietata versione delle rivoluzioni comuniste fu, senza ombra di dubbio, quella dei Khmer Rossi in Cambogia, dove il comunismo fu costruito in condizioni di miseria anziché di abbondanza (come invece prevedeva la teoria di Marx), e anche qui con quel «grande balzo» che caratterizzò il comunismo di Mao; ma, in più, in Cambogia la separazione dal resto del mondo fu totale, come del resto era accaduto anche in Corea del Nord: «la Corea del Nord rimase separata dal mondo. Questa separatezza deve essere considerata la caratteristica più importante del nazionalcomunismo: la troviamo anche nell’Albania e, soprattutto, nella Cambogia» (42). In Cambogia il sogno della ricerca dell’uguaglianza divenne un incubo, l’uguaglianza doveva essere assoluta e per arrivarci occorrevano stragi purificatrici da portare a termine grazie alla individuazione di quel nemico oggettivo che per Hannah Arendt ha rappresentato la caratteristica fondamentale di ogni sistema totalitario: mentre la dittatura persegue i propri oppositori, nel totalitarismo i nemici vengono individuati prima, sono intere categorie sociali i cui membri singolarmente possono anche non essere oppositori del regime, possono non avere alcuna ragione di contrasto contro di esso, ma facendo parte delle categorie scelte in via preliminare, diventano sospetti per definizione e solo per tale ragione devono essere puniti o addirittura uccisi.
Nel caso della rivoluzione russa, gli elementi preliminari comuni a tutti i movimenti totalitari, e cioè la massificazione ed atomizzazione degli individui, non erano immediatamente presenti ma furono creati successivamente, ad opera di Stalin; scrive Hannah Arendt in proposito: «per trasformare la dittatura rivoluzionaria di Lenin in un regime totalitario, Stalin dovette prima creare artificialmente quella società atomizzata che in Germania per i nazisti era stata preparata dagli avvenimenti storici» (43). Non è un caso che per Stalin il principale nemico da combattere, sul piano internazionale, fosse la socialdemocrazia, più ancora che il nazismo con cui arrivò a firmare un patto di non aggressione nel 1939 che permise la spartizione della Polonia.
Ernesto Galli della Loggia ha sintetizzato alcuni elementi fondamentali che hanno caratterizzato la rivoluzione d’ottobre: essa, per molti, fu la continuazione in forma diversa della tragedia della prima guerra mondiale; ma sembrava anche svolgere una funzione quasi religiosa, di redenzione e di «grande levatrice dei tempi nuovi» (44); l’impianto teorico del marxismo diede inoltre grande importanza alla figura dell’intellettuale, che da quel momento diventerà centrale nei rapporti con le grandi masse. Ma i bolscevichi apparvero anche come eredi dei giacobini, ed alla mitologia positiva se ne contrappose una negativa, dal carattere demoniaco, con gli sviluppi successivi nella Russia sovietica e la crescita della sua potenza militare; soprattutto, con le masse operaie europee che rimasero in gran parte fedeli alla socialdemocrazia e alle sue declinazioni sindacali, pluraliste e democratiche, impedendo così la realizzazione della «vocazione internazionalista» del comunismo.
5. Riforme
In Germania il marxismo-leninismo ebbe infatti meno successo in quanto il partito socialdemocratico, che rappresentava a tutti gli effetti la classe operaia, aveva come proprie basi costitutive ed organizzative le associazioni sindacali, i cui dirigenti si mossero fin dall’inizio nel senso del revisionismo e del riformismo, con programmi di rivendicazione piuttosto che di rivoluzione. Riforme e rivoluzione divengono in tal modo i due fondamentali metodi di cambiamento a disposizione del movimento operaio, ma sono e resteranno in forte contrasto fra di loro: per i rivoluzionari conta solo il fine, cioè la fine violenta del sistema capitalistico e la sua sostituzione col comunismo; per i riformisti conta il mezzo, cioè la lotta per migliorare le condizioni del lavoro e della classe lavoratrice, in una cornice di libertà. Scrive in proposito Massimo Salvadori: «Senza la libertà il socialismo, secondo Kautsky, snatura se stesso e non può raggiungere il proprio scopo. La storia del movimento operaio e delle sue conquiste conferma anzitutto nei fatti che esso ha potuto farsi strada solo unendo rivendicazioni economiche e conquiste delle libertà di associazione, riunione e stampa» (45).
Sarà la storia a dimostrare, decenni dopo l’inizio della contrapposizione fra riformisti e rivoluzionari, e in una logica temporale estesa che vada al di là della singola generazione e comprenda più generazioni, che il riformismo si è dimostrato il vero soggetto rivoluzionario del Novecento: l’opzione di sovvertire l’ordine sociale, economico ed istituzionale esistente, con un «colpo di mano» tipico dell’agire rivoluzionario, ha prodotto regimi autoritari e totalitari che non sono sopravvissuti alle dure repliche della storia; il riformismo, agendo con gradualità e per piccoli passi, è riuscito ad introdurre miglioramenti sociali significativi, sistemi avanzati di welfare, conquiste dei lavoratori in un contesto di democrazia e di libertà di espressione.
Anche il riformismo, per la verità, si trova oggi in crisi, sia perché sono in crisi i soggetti politici che del riformismo storico sono stati i principali protagonisti, e cioè i partiti socialdemocratici, che sembrano non essere più in grado di ottenere e mantenere quelle maggioranze parlamentari che sono il presupposto necessario per lo sviluppo di politiche di tipo riformista; sia perché l’equivalenza fra riformismo e cambiamento fa sì che i riformisti siano ovunque, e quando tutti sono riformisti, ha osservato acutamente Bobbio, «nessuno è riformista» (46).
La rivoluzione implica un processo di cambiamento istantaneo, il riformismo presuppone un processo evolutivo e di governo democratico; nessuno dei due termini, però, ci dice il senso del cambiamento: sono concetti avalutativi, contenitori dentro i quali possiamo trovare i più diversi sistemi di valori. La «stella polare» del riformismo socialista era per Bobbio la giustizia sociale; per Bernstein, scrive Salvadori, «la “democratizzazione” nell’ordine esistente sarebbe stata non la premessa, bensì la sostanza di un socialismo cui si sarebbe pervenuti per un processo evolutivo coscientemente diretto e facendo valere progressivamente l’istanza sociale su quella privatistica»47. Riccardo Lombardi, rifacendosi a Gilles Martinet, individuerà invece un riformismo rivoluzionario, che dovrebbe caratterizzarsi «come una formula che perseguisse una politica di riforme, di direzione politica dello sviluppo, ma la perseguisse in legame diretto e non in contrasto con una vasta azione di massa» (48); non è l’esito del cambiamento nel lungo periodo ma l’aspetto quantitativo dell’azione di massa che determina per Lombardi il carattere rivoluzionario dell’approccio riformista. La rivoluzione incruenta del 1989, che ha portato al crollo del muro di Berlino e alla fine dell’esperienza comunista in Europa, può forse essere ricondotta a questa visione di riformismo rivoluzionario; che, in effetti, era implicita nel fattore scatenante di quella rivoluzione, e cioè l’idea di Gorbachev che il comunismo fosse in qualche modo riformabile attraverso processi come la Glasnost e la Perestrojka. In realtà il comunismo sovietico non era riformabile, e cadde sotto i colpi incruenti di una rivoluzione democratica, poco più di settant’anni dopo la rivoluzione d’ottobre.
Una interpretazione interessante del cosiddetto «riformismo rivoluzionario» è anche quella che ha dato Altiero Spinelli, secondo il quale la costruzione stessa dell’Europa unita avrebbe dovuto essere un processo di tipo rivoluzionario; scrive Spinelli:
«Ci sono alcune premesse fondamentali – Federazione europea, socializzazione dei monopoli, ridistribuzione della proprietà – che non possono essere realizzati altro che in situazioni rivoluzionarie, durante le quali siano crollate tutte le resistenze conservatrici che ne impediscono la realizzazione. Successivamente si apre un periodo di trasformazione che si estende per tutta un’epoca» (49).
Distinguiamo dunque l’agire rivoluzionario come una tipologia particolare, una modalità specifica di agire politico: come tale, l’agire rivoluzionario è solo un tipo di agire politico che non esaurisce tutte le modalità in cui questo può esplicarsi; ma si rivela una risposta frequente, talvolta persino inevitabile, alle situazioni di crisi che la precedono. Sono possibili alternative politiche alle rivoluzioni? Certamente il riformismo è la soluzione politica alternativa, che permette cambiamenti anche radicali però attraverso un processo di negoziazione che richiede inevitabilmente tempi più lunghi; ma nelle diverse situazioni storiche che hanno generato eventi di tipo rivoluzionario, politiche riformiste non erano possibili, soprattutto perché mancava del tutto quell’elemento istituzionale che è la precondizione di ogni politica di tipo riformista, e che conosciamo come democrazia.
L’assenza della democrazia, unita a condizioni critiche, è una premessa dell’azione politica di tipo rivoluzionario; in condizioni di democrazia, le rivoluzioni vengono sostituite da fenomeni politici meno appariscenti, ma che in realtà si rivelano capaci di determinare profondi cambiamenti, specie se affiancati o seguiti da progetti articolati di riforma sociale. Mi riferisco in particolare a quei fenomeni politici noti come movimenti collettivi, che in particolare in Europa Occidentale nel secondo dopoguerra hanno evidenziato le loro principali manifestazioni: i movimenti di contestazione, dal 1968 in avanti, ed i movimenti sindacali, di rivendicazione dei diritti sociali ed economici.
Sia i movimenti collettivi che le rivoluzioni hanno un fenomeno in comune, che Alberoni ha chiamato stato nascente:
«Il gruppo di uomini entro cui si costituisce uno stato nascente tenta ogni volta di costruire una modalità di esistenza totalmente diversa da quella quotidiana e istituzionale; ma nel far questo, proprio per esplorare questa possibilità, è costretto a darsi una forma, una struttura, a divenire a un certo punto progetto concreto e storico, a scontrarsi con le forze concrete e storiche presenti e a divenire in tal modo esso stesso istituzione, e quotidianità» (50).
La parte che più ci interessa dell’analisi di Alberoni è l’individuazione di due stati del sociale, il primo dei quali è quello che egli ha chiamato di «stato nascente» e che è comune ai movimenti collettivi e a tutti i fenomeni di tipo rivoluzionario, mentre l’altro è l’istituzione, il partito, lo Stato, la chiesa, cioè la trasformazione del processo rivoluzionario in un ordinamento che vuol essere stabile e duraturo. Lo stato nascente è solo un modo in cui può trasformarsi una società; altri processi collettivi, fra cui il mercato, le decisioni organizzative e i progetti di riforma possono condurre a cambiamenti significativi dell’ordine sociale. Ma solo nei movimenti e nelle rivoluzioni troviamo fenomeni di stato nascente: «esso, creando una solidarietà alternativa, unisce protagonisti in precedenza separati e si contrappone all’ordine esistente» (51).
6. Le rivoluzioni nel XXI secolo
Il concetto stesso di rivoluzione è mutato radicalmente nel passaggio dal Ventesimo al Ventunesimo secolo, ed è sempre più utilizzato, anche nel linguaggio corrente, per descrivere trasformazioni epocali che investono in modo repentino sia la sfera economica, sia quella sociale che quella politico-istituzionale di una comunità; dove anche la globalizzazione sembra assumere aspetti rivoluzionari, senza però che vi siano più i soggetti tradizionali della rivoluzione, quegli attori politici che nel Novecento (ma anche nei secoli precedenti, con le rivoluzioni liberali e borghesi), riuscirono a trasformare radicalmente l’ordine sociale e politico esistente. La nuova rivoluzione che sta investendo il nostro modo di vivere, e sta modificando la stessa governance politica introducendo nuovi soggetti politici come i mercati e le grandi aziende sovranazionali, non è stata originata da gruppi di rivoluzionari interessati, come un tempo, a sovvertire l’ordine collettivo esistente, bensì vede ora come attori ricercatori e scienziati di varie parti del mondo, che in tal modo assumono il ruolo di veri e propri soggetti politici in quanto protagonisti dei grandi cambiamenti in corso.
Sono soggetti spesso inconsapevoli del ruolo politico che stanno svolgendo, più o meno come gli scienziati dell’era atomica che, costruendo i primi ordigni nucleari e dando la possibilità ai governi di utilizzarli, hanno di fatto cambiato la storia contemporanea ben più e ben oltre di quanto avrebbero potuto fare i condottieri dei secoli passati o i capi rivoluzionari dell’era moderna.
Luciano Floridi descrive quattro grandi rivoluzioni scientifiche che hanno mutato profondamente il significato stesso dell’essere umano e i fondamenti della nostra esistenza collettiva; tre di queste rivoluzioni appartengono alla storia: la prima rivoluzione fu quella copernicana, nel Cinquecento, la seconda quella darwiniana nell’Ottocento, la terza quella freudiana. Tutte queste rivoluzioni ebbero un elemento in comune: riuscirono a cambiare la concezione dell’uomo e della condizione umana; la cosmologia eliocentrica, l’evoluzionismo e l’analisi della mente inconscia finirono per mutare le credenze, i valori su cui si fondano i nostri comportamenti collettivi. Il padre della quarta rivoluzione, osserva Floridi, fu invece Alan Turing, e porterà alla società dell’informazione che si svilupperà a partire dagli anni Trenta del secolo scorso.
La rivoluzione di cui parla Floridi è prima di tutto una rivoluzione culturale, che segna il passaggio dalla società storica a quella iperstorica dei big data; ma è anche una rivoluzione nei modi di vita e nella struttura stessa dell’economia: «una società iperstorica, che riposa integralmente su tecnologie di terzo ordine, può in linea di principio essere indipendente dall’umano» (52). Dove le tecnologie di terzo ordine, precisa Floridi, sono tecnologie che interagiscono con altre tecnologie, come le ICT e cioè le tecnologie digitali dell’informazione e della comunicazione. La caratteristica peculiare della società dell’informazione, e della rivoluzione culturale che l’ha accompagnata, è che essa «è attualmente testimone della più rapida crescita della conoscenza nella storia dell’umanità. È una crescita al contempo qualitativa e quantitativa sia per ampiezza che per andamento»(53). La quantità diventa qualità, e l’accesso alle nuove tecnologie reso disponibile su larga scala per quasi tutti gli individui è l’elemento che fa la differenza e cambia le regole. A guidare l’innovazione, osserva ancora Floridi, sono le applicazioni nel comparto militare e nell’intrattenimento; ed è quanto mai singolare che siano le due attività umane più in contrasto fra di loro, la guerra e il divertimento, quelle che maggiormente trainano lo sviluppo tecnologico dell’intero genere umano nel mondo contemporaneo. Modificando nel contempo le caratteristiche stesse sia del divertimento che della guerra, che diventa ora asimmetrica; e con conseguenze che sono molto rilevanti sul piano politico: infatti, mentre nell’ordine di Vestfalia lo spazio fisico e quello giuridico erano sovrapposti ed entrambi sottoposti al potere sovrano dello Stato, nella società dell’informazione sono possibili più agenti informazionali, organismi non governativi, importanti società che operano a livello globale ed i cui bilanci sono spesso più grandi di quelli di molti Stati sovrani: «lo Stato non è più l’unico, e talora neppure il principale, agente nell’arena politica in grado di esercitare potere informazionale nei confronti di altri agenti informazionali»(54). L’effetto principale della quarta rivoluzione è quello di rendere obsoleti i principali protagonisti della storia degli ultimi secoli, i soggetti tradizionali della politica: «ciò che è moribonda non è la politica tout court, ma la politica storica, fondata su partiti, classi, ruoli sociali definiti, manifesti e programmi politici, e lo stato sovrano, che ricercava la propria legittimazione politica una sola volta e che l’usava finché non gli era revocata» (55).
Anche Patrizio Bianchi ha individuato quattro grandi rivoluzioni, rivoluzioni di natura strettamente economica, che hanno cambiato radicalmente il lavoro e i rapporti sociali ad esso connessi, e che tuttavia sono state rese possibili da rivoluzioni scientifiche e politiche avviate rispettivamente da Isaac Newton e John Locke. La prima rivoluzione industriale fu quella inglese, descritta da Adam Smith e che ha come simbolo la locomotiva a vapore; la seconda rivoluzione industriale venne a coincidere con l’affermazione dello Stato-nazione ed ha nel taylorismo la propria base teorica: «elettricità e petrolio, acciaio e automobili diventano i perni di questa lunga fase»56. La terza rivoluzione industriale vede nella fine della seconda guerra mondiale la fase iniziale del proprio sviluppo, e si caratterizzerà come «rivoluzione delle tecnologie dell’informazione e delle telecomunicazioni (in inglese, Information and Communications Technology, ICT)» (57). La terza rivoluzione industriale è quindi la grande rivoluzione economica e tecnologica del XX secolo, la più importante del Novecento per effetti globali. Solo nel XXI secolo una nuova rivoluzione industriale, denominata Industria 4.0, sarà in grado di superare per effetti quella del Novecento. Anche per questa, l’emergere della nuova economia è connessa ad una grande crisi globale; come nel Novecento la terza rivoluzione industriale ebbe bisogno prima della fine della seconda guerra mondiale e poi della guerra fredda per emergere in tutta la sua potenza, così la quarta rivoluzione industriale è emersa insieme a quella che è stata definita la seconda grande contrazione, cioè la più grave crisi economica e finanziaria dopo la Grande Depressione degli anni Venti del secolo scorso:
«La crisi finanziaria globale più recente – che abbiamo denominato la “Seconda grande contrazione” – è chiaramente l’unica crisi finanziaria globale verificatasi durante il periodo successivo alla Seconda guerra mondiale. Anche se la Seconda grande contrazione non dovesse sfociare nella Seconda grande depressione, rimane il fatto che essa supera per intensità altre turbolenze, come la fine degli accordi di Bretton Woods, il primo shock petrolifero, la crisi del debito degli anni ottanta nei paesi in via di sviluppo e l’ormai famosa crisi asiatica del 1997-98» (58).
È significativo che da questa grande crisi non siano scaturite conseguenze politiche e sociali di grave conflitto, ma sia invece emersa una nuova economia che ha cambiato radicalmente la struttura produttiva e distributiva non solo delle economie più avanzate, ma del mondo intero.
Una economia caratterizzata da aziende del tutto nuove, che pochi anni prima non esistevano, ma che sono riuscite a sfruttare l’innovazione tecnologica nei campi dell’informatica e delle comunicazioni, fino ad avviare una vera e propria nuova fase rivoluzionaria, che è tuttora in corso ed i cui esiti finali non sono per nulla certi o definiti. Durante la crisi, in particolare, abbiamo visto l’emergere di nuovi soggetti politici, vere e proprie entità sovrane impensabili fino a pochi decenni prima: «L’appello di Karl Marx, “Proletari di tutto il mondo unitevi”, si realizza, ma al contrario. I mercati finanziari diventano un’istituzione strutturata e iniziano a esprimersi come i governi»(59). Ma i mercati finanziari non saranno i soggetti della nuova rivoluzione, che è tecnologica e non finanziaria, e le cui conseguenze si riveleranno ben presto di grande rilevanza sul piano sociale ed economico, oltre che su quello politico-istituzionale. Una rivoluzione, anche questa, sviluppatasi non per caso ma a partire da situazioni critiche e per la quale i mercati, semmai, hanno svolto un ruolo di acceleratori.
La rivoluzione russa scoppiò dopo che la Russia zarista era entrata in guerra; il contesto tragico della prima guerra mondiale, insieme ad altre circostanze favorevoli, permise ai bolscevichi di divenire gli attori politici della rivoluzione russa del 1917; la prima guerra mondiale, e il trattato di pace che ne seguì, fecero precipitare il mondo nella più grande crisi economica della storia moderna che fu precondizione per l’affermazione del nazifascismo in Europa.
La seconda guerra mondiale fu poi la premessa per la grande rivoluzione industriale del XX secolo, che fu anche – e soprattutto – una rivoluzione scientifica e tecnologica: non dimentichiamoci che nel 1945, con Hiroshima (e Nagasaki) inizia l’era atomica che cambierà in modo definitivo e perpetuo le regole stesse della convivenza collettiva a livello planetario. Poi la grande rivoluzione iniziata nel 1989, col crollo del muro di Berlino e il dissolvimento del blocco comunista nell’Est Europa, fino agli accordi di Doha (2001) che hanno dato via libera all’odierno processo di globalizzazione, con l’emergere di nuove potenze planetarie, Cina in testa; ma che è stata anche concausa della Seconda Grande Contrazione da cui è emersa la quarta rivoluzione industriale, che è cronaca dei nostri giorni:
«in realtà gli anni della crisi hanno incubato una nuova economia in cui ad una riduzione degli scambi materiali si è contrapposto un crescente scambio di dati, quindi di beni immateriali, sotto forma di trasferimento di file, di video, di software e altre modalità di condivisione di comunicazioni interattive; potremmo quindi definire questa nuova fase dello sviluppo mondiale digital globalization a significare quanto rilevante, nella nuova configurazione dell’economia, sia oggi il peso di questo nuovo modello di interazione sociale»(60).
Da profonde situazioni di crisi sono derivate rivoluzioni di entità tali da modificare le regole della convivenza collettiva a livello globale. La storia delle rivoluzioni è, prima di tutto, la storia delle crisi che le hanno precedute ed accompagnate: non è possibile una teoria politica delle rivoluzioni senza una teoria politica delle crisi. La caduta dell’Unione Sovietica e la fine del comunismo in Europa Orientale, osserva Paul Krugman, portarono le lancette della storia ante 1917, quando la proprietà privata e il libero mercato senza regole erano considerati gli unici principi economici fondamentali. In realtà il collasso dell’economia socialista avvenne dapprima in Cina; scrive Krugman:
«Nel 1978 Deng Xiaoping aveva spinto il suo paese su quella che poi sarebbe stata conosciuta come la via al capitalismo, solo tre anni dopo la vittoria dei comunisti in Vietnam e solo due anni dopo la sconfitta interna dei maoisti radicali che volevano ricominciare la Rivoluzione culturale» (61).
Ma i grandi nemici del capitalismo sono stati da sempre la guerra e la depressione; la Grande Depressione, in particolare, «riuscì quasi a distruggere sia il capitalismo sia la democrazia e portò più o meno direttamente alla guerra» (62). La nuova crisi esplosa a partire dal 2008, ha osservato Nouriel Roubini, «è stata un’ondata di panico tipica dell’Ottocento che si è abbattuta con una velocità da Ventunesimo secolo» (63). A scatenare gli eventi, secondo Luciano Gallino, è stato il prevalere dell’ideologia liberista, una vera e propria controrivoluzione che ha prodotto la finanziarizzazione del mondo con l’aumento delle diseguaglianze e la comparsa di una classe capitalistica transnazionale in grado di sfuggire al controllo degli Stati nazionali e anche di condizionarne le politiche interne. Il potere finanziario globale, che Gallino ha chiamato finanzcapitalismo, si quantifica in appena una decina di milioni di individui, «meno dello 0,15 per cento della popolazione mondiale» (64), ma in grado di condizionare il resto del mondo. Per Giuseppe De Rita il numero degli operatori che operano sui mercati finanziari è ancora più ridotto: «una comunità di non più di 60.000 persone, che orienta la nostra vita collettiva» (65). Per De Rita i mercati globali non sono però soggetti sovrani ma anzi producono come conseguenza l’impotenza della governance globale: «la sovranità nazionale è ormai fittizia, quella sovranazionale ancora non realizzata» (66). L’economia liberista, secondo Carlo Galli, si configura invece come fenomeno rivoluzionario in grado di darsi una propria legittimità fondata sull’unità del mercato globale e quindi di farsi essa stessa sovrana: «La pretesa del neoliberismo è di essere un paradigma storico alternativo» (67). Il cambiamento radicale delle regole di comportamento collettivo prodotto dall’ideologia liberista ne farebbe dunque un autentico fenomeno rivoluzionario del nostro tempo, ci piacciano o meno gli esiti che Le rivoluzioni scientifiche e tecnologiche del XXI secolo, e della seconda metà del XX secolo, nascono proprio nel contesto di quelle situazioni critiche che ne costituiscono, per dirla con Kindleberger, la causa prossima: paradossalmente, l’enorme sviluppo delle ICT ha coinciso con la più grande crisi economica e finanziaria dopo la Grande Depressione; anche se gli imponenti sviluppi scientifici e tecnologici più recenti hanno avuto come causa remota l’altra grande crisi che è culminata con la seconda guerra mondiale: durante lo sforzo bellico, «le collaborazioni tra diversi organi dello Stato portarono allo sviluppo di tecnologie come i computer, i jet, l’energia nucleare civile, i laser e le biotecnologie» (68).
Che Industria 4.0 sia una rivoluzione in grado di cambiare ulteriormente la struttura delle nostre società è indubbio, in quanto essa ha sostituito la produzione lineare fordista con un modello alternativo, interconnesso ed integrato, che si interfaccia sempre più con l’università e la ricerca e che prevede lo sviluppo di sistemi robotizzati in grado di svolgere attività prima precluse agli esseri umani, e soprattutto capace di produrre a costi marginali decrescenti sempre più vicini allo zero; scrive Bianchi in proposito:questo produce.
«il salario medio orario di un lavoratore americano nel settore automotive è di 30 USD, quello di un operaio cinese a pari qualifica è di 3 USD, ma il costo medio di un’ora di lavorazione effettuata da un robot si riduce a 0,30 USD. Questo dato sta generando processi di massiccia automazione non solo negli Stati Uniti, ma ora anche in Cina» (69).
Il fatto che Industria 4.0 non sia semplicemente una rivoluzione industriale, con conseguenze solo di carattere economico, bensì una rivoluzione tout court con effetti sociali e politici di grande portata, è stato chiaramente evidenziato da Paul Mason, che ha denominato postcapitalismo il nuovo sistema che sta emergendo dalla rivoluzione tecnologica del modo di produzione capitalistico che è tuttora in corso; un sistema che sta portando verso lo zero la dinamica dei prezzi in molte produzioni, con eliminazione di forza lavoro che non viene più compensata dalla creazione di nuova occupazione in altri settori. Il nuovo capitalismo è in realtà Infocapitalismo, cioè un’economia di tipo cognitivo che, grazie alle nuove tecnologie, sta sostituendo le forme tradizionali del capitalismo, che erano mercantili e industriali, ed il cui carattere rivoluzionario sta nell’essere incompatibile con l’economia di mercato, cioè nel divenire qualcosa di radicalmente diverso da un’economia di tipo capitalistico: «un’economia basata sull’informazione, con la sua tendenza a generare prodotti a costo zero e diritti di proprietà deboli, non può essere un’economia capitalista» (70).
Quello che un tempo era, insieme alla terra e al capitale, uno dei fattori della produzione, cioè il lavoro, diventa ora un costo che va ridotto in ogni modo; il valore della produzione non è più misurato dal lavoro in esso contenuto, come voleva l’ideologia marxista, ma al contrario aumenta col diminuire della forza lavoro impegnata nella produzione: non potrebbe esserci ribaltamento di prospettiva più totale, con le conseguenze che ne derivano.
Ci avviciniamo infatti ad un’economia a costo marginale zero: la terza rivoluzione industriale, ha osservato Jeremy Rifkin, è caratterizzata dal prevalere dell’Internet delle cose (che è l’intreccio interattivo fra Internet delle comunicazioni, Internet dell’energia e Internet della logistica) e si avvia ad eliminare il lavoro di massa così come la prima rivoluzione industriale (simboleggiata dalla macchina a vapore) eliminò il lavoro servile e schiavistico e la seconda rivoluzione industriale (che ha nel motore a scoppio, nell’elettricità e nel telefono i propri elementi costitutivi) quello agricolo ed artigianale, «la proprietà diventa meno importante della libertà d’accesso, ai mercati si sostituiscono le reti» (71). Nuove sfide per i modelli di governance si aprono, a partire dalla necessità di gestire, tutelare e garantire l’accesso ai Commons, i beni comuni che diverranno sempre più importanti in un’economia che non sarà più di mercato. Che si tratti di una rivoluzione, Rifkin non ha dubbi, ed è destinata «a generare un nuovo ordine economico, nella sua essenza tanto diverso dal capitalismo di mercato quanto quest’ultimo lo è stato dai sistemi feudali e medievali dai quali è emerso» (72). Le rivoluzioni del XXI secolo, e della seconda metà del XX secolo, sono profondamente diverse rispetto alle rivoluzioni liberali e a quelle socialiste; l’elemento politico lo troviamo non all’inizio ma alla fine del processo rivoluzionario, negli effetti più che nelle cause, e si caratterizza come cambiamento non superficiale bensì radicale delle modalità e delle regole di esistenza collettiva: è indubbio che l’era del world wide web ha cambiato profondamente i comportamenti individuali e collettivi degli esseri umani a livello globale, sia quelli formali che quelli informali; ed è altrettanto indubbio che un cambiamento radicale nei rapporti fra Stati e nelle politiche di potenza è avvenuto dopo Hiroshima e Nagasaki: l’incubo della morte della morte, cioè dell’estinzione della specie umana, e forse della vita stessa sulla Terra a seguito di un’escalation nucleare incontrollata, ha modificato le regole di azione collettiva, rendendo ancora possibili guerre e rivoluzioni, ma solo a livello locale, mentre l’unica rivoluzione globale ancora possibile risulta essere soltanto quella scientifico-tecnologica, i cui esiti sono peraltro del tutto incerti se non altro perché non ha senso, riferendosi alle trasformazioni tecnologiche, parlare di una fine in quanto, per dirla con Popper, nessuno è in grado di prevedere oggi le scoperte che faremo domani. Ma con i tweet, ha osservato Paolo Prodi, «è impossibile rappresentare la complessità del reale e tanto meno elaborare un progetto di società» (73); il progresso tecnologico, in particolare nelle comunicazioni, ha prodotto un rovesciamento semantico nel concetto di rivoluzione, che ora prevede non più la costruzione bensì la distruzione di nuovi progetti e di nuove visioni del futuro.
La rivoluzione è, peraltro, soltanto una delle modalità con cui si può esplicare quello che abbiamo chiamato agire politico; la forma alternativa più importante è l’azione riformista o riformatrice, che però dà il meglio di sé in condizioni strutturali adatte, come sono quelle dei sistemi democratici e pluralistici; questo perché, osserva Bobbio, «la democrazia è sovversiva. Ed è sovversiva nel senso più radicale della parola perché, dovunque arriva, sovverte la tradizionale concezione del potere» (74).
Rivoluzioni e riforme si contenderanno ancora la storia a venire, così come le rivoluzioni di massa e quelle scientifico-tecnologiche hanno fatto la storia moderna; sta ai filosofi politici e agli storici il doppio compito: da un lato, interpretare e spiegare gli eventi accaduti, dall’altro riuscire ad orientare i protagonisti dei futuri cambiamenti (gli attori politici) affinché le conseguenze del loro agire, a tutti i livelli, siano migliorative e non peggiorative della condizione umana. È una grande responsabilità, ma è forse anche la grande sfida intellettuale del nostro tempo.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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SPINELLI Altiero, 1991, Il Manifesto di Ventotene. Il Mulino, Bologna.
NOTE A PIÈ DI PAGINA
1 M. Ricciardi, 2001, 135.
2 Ivi, 9.
3 Ivi, 87.
4 G. Pasquino,1990, 977.
5 P. Prodi, 2015, 40.
6 Ivi, 72.
7 P. Prodi, 2016, 27-28.
8 T. Skocpol, 1981, 24.
9 Ivi, 292.
10 Ivi, 57.
11 Ivi, 391-392.
12 Ivi, 484.
13 E. Krippendorff, 2008, 135.
14 Ibidem.
15 C. Galli, 2019, 22.
16 N. Bobbio, 1984, 60.
17 Scrive l’autore: «L’orso è amico dell’uomo e questi, sdraiato di fianco a lui, sta schiacciando un pisolino. L’orso veglia e protegge il suo sonno. Improvvisamente una mosca si posa sulla fronte dell’uomo. L’orso non può tollerarlo e, data la sua amicizia per l’uomo, decide di uccidere la mosca. Dà una zampata sulla fronte dell’uomo e uccide la mosca, sfondando però anche la testa del suo amico. Molte pretese utopistiche sulle quali non si è mai avuto il minimo dubbio, in pratica equivalgono a questa favoletta esotica dell’uomo e dell’orso». (J. Ortega y Gasset, 1978, 254).
18 G. Pasquino, 1990, 979.
19 J.K. Galbraith, 1977, 141.
20 E. Fromm, 1982, 172.
21 N. Bobbio, 2009, 61.
22 G. Pasquino, 1990, 979.
23 C. Kindleberger, 1991, 125.
24 Scrive in proposito Daniel J. Goldhagen: «la rivoluzione bolscevica e tutto ciò che ne seguì, compresa l’ascesa al potere di Stalin, non sarebbero probabilmente mai avvenuti, come ammise anche Leon Trockij, un marxista convinto, se Lenin non fosse tornato in Russia dall’esilio in Svizzera; il che, a sua volta, avvenne solo grazie all’astuta e strategicamente brillante decisione dei tedeschi di riportarlo essi stessi nel 1917 in patria perché vi fomentasse la rivoluzione, affrettando così la sconfitta della Russia da parte della Germania nella prima guerra mondiale». (D.J.Goldhagen, 2010, 271 nota).
25 E.H. Carr, 1980, 188-189.
26 B. Moore Jr., 1969, 487 e ss.
27 N. Bobbio, 2009, 64.
28 A. Martinelli, M. Salvati e S. Veca, 1989, Premessa.
29 R. Koselleck, 1972, 7.
30 E. Morin, 2017, 19.
31 C. Schmitt, 1972, 34.
32 E. Morin, 2017, 60.
33 J.K. Galbraith, 1977, 131.
34 J.K. Galbraith, 1976, 74.
35 Ivi, 76.
36 T. Piketty, 2014, 164.
37 J.K. Galbraith, 1976, 78.
38 T. Piketty, 2014, 198.
39 Cfr. R. Romano, 1973.
40 A. Lepre, 2001, 115.
41 F. Rampini, 2006, 6.
42 A. Lepre, 2001, 141.
43 H. Arendt, 1978, 440-441.
44 E. Galli della Loggia, 2017, 16.
45 M. Salvadori, 1977, 77.
46 N. Bobbio, 2009, 66.
47 M. Salvadori, 1977, 83.
48 R. Lombardi, 1977, 323.
49 A. Spinelli, 1991, 122.
50 F. Alberoni, 1981, 37.
51 Ibidem.
52 L. Floridi, 2014, 35.
53 Ivi, 92.
54 Ivi, 202.
55 Ivi, 212.
56 P. Bianchi, 2018, 33.
57 Ivi, 36.
58 C.M. Reinhart e K.S. Rogoff, 2010, 264.
59 G. Ruffolo e S. Sylos Labini, 2012, 11.
60 P. Bianchi, 2018, 47-48.
61 P. Krugman, 2009, 14.
62 Ivi, 19.
63 N. Roubini, 2010, 110.
64 L. Gallino, 2013, 107.
65 G. De Rita e A. Galdo, 2014, 12.
66 Ivi, 9.
67 C. Galli, 2019, 112.
68 M. Mazzucato, 2013, 105.
69 P. Bianchi, 2018, 85.
70 P. Mason, 2016, 213.
71 J. Rifkin, 2014, 188.
72 Ivi, 383.
73 P. Prodi, 2015, 101.
74 N. Bobbio, 1976, 53.