Stato e diritti sociali: la necessità di un nuovo approccio

di Fabio Giuseppe Angelini

Abstract:

the research focuses on the reflections of the EU institutional framework on the social rights. The analysis focuses on the impact of the EU economic constitution on social rights and on the implications, dangers and reasons that push towards a theoretical-legal evolution of the concept of social rights as fundamental rights, redefining the perimeter. This evolution would be necessary in order to avoid the risk that the new institutional balances could jeopardize the effectiveness of fundamental rights instead of inducing the governing power to put in place structural reforms concerning the adoption of methods of provision of services capable of to guarantee at the same time the minimum content of social rights and the sustainability of public budgets.

  1. Premessa

L’integrazione europea ha prodotto mutamenti profondi negli ordinamenti interni. Tanto sul piano degli equilibri istituzionali che su quello legislativo ed amministrativo, la cornice istituzionale europea e le relative politiche, incentrate sulla costruzione del mercato unico attraverso la promozione dei valori della concorrenza e della stabilità finanziaria, hanno provocato una trasformazione senza precedenti, la cui portata va ben oltre la regolazione del mercato, interessando tutto lo spettro della vita politica, economica e sociale dei popoli europei. 

L’affiancamento della cornice istituzionale europea a quelle dei Paesi membri, unitamente all’affermarsi di un modello di sovranità sempre più condiviso ed interdipendente sia nei rapporti tra gli Stati che tra questi e i mercati chiamati a finanziare il loro debito sovrano, non è stato privo di conseguenze. Le regole comunitarie, infatti, nel restringere i confini della discrezionalità dei governi nelle scelte di politica economica e sociale entro i paletti posti dalla costituzione economica e finanziaria europea, hanno contribuito ad una ridefinizione degli assetti e degli equilibri di potere esistenti che è tutt’ora in corso e che, specie nei Paesi aderenti all’Unione Monetaria, ha reso evidenti limiti istituzionali e politiche economiche incompatibili con una sana economia sociale di mercato e con il consolidamento stesso del mercato unico.  

Il presente lavoro intende soffermarsi sulle ricadute sul fronte interno della cornice istituzionale dell’Unione Economica e Monetaria e, in particolare, del vincolo della stabilità finanziaria, evidenziando i mutati margini di discrezionalità dei poteri governanti in tema di indirizzo della finanza pubblica, organizzazione ed erogazione dei servizi sociali, con l’obiettivo di evidenziare le implicazioni, i pericoli e le ragioni che suggeriscono un nuovo approccio al tema dei diritti sociali e delle loro modalità di tutela. 

  1. La parabola dei diritti sociali nel contesto istituzionale eurounitario

Il concetto di diritti sociali quali pretese di ricevere prestazioni pubbliche (riguardanti, ad esempio, l’istruzione, la sicurezza sociale, il diritto al lavoro, la libertà sindacale, il diritto di sciopero, la tutela della salute e dell’ambiente, i servizi culturali, e così via), avanzate da soggetti che versano in situazioni di bisogno, è maturato nel contesto del passaggio allo stato di diritto costituzionale tipico delle democrazie pluraliste, fondate su una costituzione rigida e garantita. Laddove, alle tradizionali libertà negative, dirette ad impedire ingerenze dello Stato nelle autonomie degli individui, si affiancò il riconoscimento di posizioni soggettive ulteriori, dalla incerta natura giuridica, identificabili nei diritti politici, afferenti alla partecipazione del soggetto alla vita dello Stato, e nei diritti sociali, invocanti trattamenti più favorevoli per predeterminate situazioni di debolezza, la cui tutela rinviava ad un ruolo attivo dello Stato nel soddisfare l’esigenza di pieno sviluppo della persona e l’effettiva partecipazione dei singoli e dei gruppi alla formazione delle decisioni politiche. 

Quello dei diritti sociali è però un concetto suscettibile di equivoci, anche perché esposto ai condizionamenti politici del momento, specie alla luce della ricorrente loro riconduzione al di fuori della categoria dei diritti fondamentali della persona e, talvolta, finanche in contrapposizione con questi ultimi. 

I diritti sociali sono stati tradizionalmente definiti diritti a prestazione vantati dal singolo nei confronti dello Stato o di altre strutture del potere pubblico ed il loro fondamento giuridico è stato rinvenuto nella parte prima della Costituzione, ovvero, nei principi fondamentali e, in particolare, in quello di uguaglianza sostanziale. 

La stessa giurisprudenza della Corte Costituzionale ha accompagnato la vicenda dei diritti sociali esprimendo posizioni talvolta contraddittorie e, spesso, incapaci di porre un freno alla discrezionalità del legislatore. Come rilevato dalla dottrina, l’analisi delle pronunce della Corte evidenzia piuttosto una sostanziale corrispondenza degli orientamenti del giudice delle leggi rispetto a quelli espressi dal legislatore, seppur con alcune distinzioni in relazione ai diversi periodi storici. Se negli anni ottanta l’atteggiamento della consulta appariva favorevole ad una lettura dinamica degli interessi sociali, che si concretizzò nelle così dette sentenze additive di prestazione, a partire dalla fine degli anni ottanta e inizio novanta, non a caso in ragione dell’introduzione del vincolo europeo sull’indirizzo della finanza pubblica, si riscontra invece un irreversibile cambiamento di rotta verso una maggiore prudenza economico-finanziaria del giudice delle leggi a discapito però di una lettura forte dei diritti sociali, capace di ridimensionare la discrezionalità del potere politico nelle scelte concernenti l’individuazione delle modalità di tutela in rapporto alle risorse disponibili. 

Ai giorni nostri, anche alla luce del nuovo bilanciamento tra valori costituzionali seguito all’introduzione del principio del pareggio di bilancio, il giudice delle leggi ha invece iniziato a fare ricorso alla nozione di «contenuto minimo essenziale» dei diritti sociali, attraverso il riferimento ai «livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali» – la cui definizione è però rimessa allo stesso legislatore ordinario – intesi quali diritti sociali a soddisfazione necessaria in ragione della loro riconduzione entro la categoria dei diritti inviolabili ed inalienabili della persona. 

La giurisprudenza della Corte costituzionale ha così ricostruito il rapporto tra diritti sociali e razionalizzazione della spesa pubblica sulla base del criterio di ragionevolezza. Il giudizio di comparazione si è poi di recente arricchito di ulteriori parametri in ragione, da un lato, della congiuntura economica in cui sono maturate le scelte di politica economica e, dall’altro lato, della presenza di vincoli sovranazionali. E’ stato infatti autorevolmente rilevato come nella giurisprudenza costituzionale siano ormai numerose le pronunce nelle quali ricorre l’argomento della crisi economica, quale circostanza eccezionale idonea a legittimare la rimodulazione delle spese e a consentire eventuali ridefinizioni delle competenze legislative. Il criterio di ragionevolezza impone quindi che la compressione dei diritti sociali sia «eccezionale, transeunte, non arbitraria, consentanea allo scopo prefissato, nonché temporalmente limitata». Più diffusamente, si è detto che «il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, attraverso cui può attuarsi una politica di riequilibrio del bilancio, implicano sacrifici gravosi, quali quelli in esame, che trovano giustificazione nella situazione di crisi economica. In particolare, in ragione delle necessarie attuali prospettive pluriennali del ciclo di bilancio, tali sacrifici non possono non interessare periodi, certo definiti ma più lunghi rispetto a quelli presi in considerazione dalle richiamate sentenze pronunciate da questa Corte con riguardo alla manovra economica del 1992».

Strettamente connessa a tale profilo è poi la vicenda concernente lo sviluppo di un assetto organizzativo attraverso cui si sarebbero dovute dare risposte concrete alle istanze sociali. Al riguardo, occorre evidenziare come la riconosciuta natura dei diritti sociali come diritti a prestazione – concezione questa ancor oggi largamente prevalente in dottrina e nella stessa giurisprudenza costituzionale – abbia avuto un’influenza determinate nella configurazione dei servizi sociali in chiave essenzialmente pubblicistica. Quest’ultimi, infatti, aventi natura strumentale all’attuazione dei primi, si sono così concretizzati in un esteso intervento pubblico che ha richiesto la creazione di un apparato amministrativo in grado sia di erogare le prestazioni che di svolgere le funzioni burocratiche connesse alla loro erogazione. 

Tale impostazione, in parte superata per effetto della legge 328/2000 nonostante la sua mancata completa attuazione, risulta ormai in crisi oltre che per la sua insostenibilità dal punto di vista finanziario, anche in virtù del diverso criterio distintivo adoperato dal legislatore europeo, laddove la nozione di «servizi di interesse generale», definibili come erogazione di prestazioni ritenute doverose in favore di una data collettività di utenti, si articola in servizi di natura propriamente economica, che debbono quindi essere svolti in regime potenziale di concorrenza, e in servizi invece privi di tale connotazione. 

I primi, per la ragione citata, risultano oggetto di diretta considerazione del diritto europeo, identificandosi nei «servizi di interesse economico generale» di cui all’art. 106 TFUE; i secondi non sono invece direttamente regolati dal diritto europeo, sul presupposto che, risultando privi di rilevanza economica, non richiedono una disciplina che ne assicuri lo svolgimento in regime concorrenziale.

  1. Il mancato riconoscimento della stabilità monetaria come vincolo al potere governante

Di segno del tutto opposto rispetto al percorso che ha segnato l’affermarsi dei diritti sociali sono, invece, le vicende che nel nostro Paese hanno interessato il governo della moneta. Fino all’introduzione del Trattato di Maastricht, infatti, diversamente da quanto avvenuto in altri Paesi (e, in particolare, in Germania), il disconoscimento della stabilità monetaria quale finalità e valore primario espresso dalla carta costituzionale ha di fatto impedito alla consulta di imporre nei confronti del legislatore un ulteriore vincolo costituzionale alla discrezionalità del potere politico che avrebbe potuto/dovuto operare nelle scelte di indirizzo della finanza pubblica o, quantomeno, indurre a porre in essere interventi di contrasto o di riparazione delle dinamiche inflattive. 

In tal modo, oltre a neutralizzare il freno costituzionale all’espansione della spesa pubblica, tale grave omissione ha avuto implicazioni sul risparmio espressamente tutelato dall’art. 47 della Costituzione. In particolare, la giurisprudenza costituzionale, avallata da autorevole dottrina e non senza opinioni di orientamento opposto, ha così finito per degradare la tutela costituzionale del risparmio a semplice enunciazione di un ideale politico, legittimando politiche monetarie in grado di sostenere la spesa pubblica mediante la creazione di moneta e l’assunzione, da parte della Banca d’Italia, dei titoli del Tesoro non aggiudicati alle singole aste, generando una spirale inflattiva senza precedenti.  

Le considerazioni sin qui tratteggiate permettono di evidenziare, seppur a grandi linee, i limiti della cornice istituzionale del nostro Paese e le linee tendenziali di sviluppo del nostro stato sociale nell’ambito delle quali si riscontrano le conseguenze sia di una prolungata assenza di un vero potere governante, sia di un sistema di freni costituzionali (il riferimento è, in primo luogo, all’azione svolta dalla Corte Costituzionale e dalla Banca d’Italia) che non si è dimostrato in grado limitare la discrezionalità del potere politico tanto sul fronte della tutela dei diritti sociali e, in particolare, di quel nucleo essenziale ed incomprimibile avente natura di diritti fondamentali, che su quello della stabilità monetaria. 

Ciò spiega perché, in tale contesto, più che in altri Paesi, la costituzione economica e finanziaria europea e, nell’ambito dell’eurozona, la definitiva cessione della sovranità in ambito monetario, siano venute a configurarsi come un vero e proprio vincolo esterno, capace di incidere in profondità sull’azione di pressoché tutti i poteri dello Stato, dal legislativo all’esecutivo, dal potere giudiziario all’amministrazione, finendo per riverberarsi finanche sulla giurisprudenza della Corte Costituzionale innescando un processo di trasformazione istituzionale che ha stravolto le politiche economiche e sociali e, con esso, i meccanismi di raccolta del consenso, senza però ancora giungere ad un accettabile punto di equilibrio tra la tutela dei diritti sociali e la stabilità monetaria. 

E ciò, tanto per le resistenze presenti nell’ordinamento interno quanto, come si dirà meglio più avanti, per l’incompletezza del progetto di integrazione europea sul fronte della costruzione di un vero e proprio modello sociale.   

  1. Integrazione europea e diritti sociali

È convincimento diffuso che i Trattati originari istitutivi di CECA, CEE ed EURATOM delineassero un’organizzazione internazionale dalla vocazione squisitamente mercantile, perseguendo l’obiettivo di un’unione doganale tra un certo numero di Stati membri, nella convinzione che l’allineamento degli interessi economici di questi ultimi avrebbe prevenuto l’insorgenza di conflitti militari del tipo di quello appena superato. Altrettanto diffusa, nonostante già nei Trattati originari non mancassero taluni timidi riferimenti alla tutela dei diritti umani, è l’opinione secondo cui l’implementazione del loro riconoscimento sia stata per lo più compiuta ad opera della giurisprudenza della Corte di Giustizia, che ha colmato tali lacune rinvenendo il fondamento della tutela dei diritti fondamentali dai principi generali del diritto dell’Unione. 

Le origini dell’interesse comunitario per il tema della coesione economica e sociale, intesa come necessità di garantire uno sviluppo armonioso nel territorio comunitario, possono rinvenirsi già a partire dal preambolo del Trattato di Roma del 1957 ove si legge che i firmatari sono «solleciti di rafforzare l’unità delle loro economie e di assicurarne lo sviluppo armonioso riducendo le disparità fra le differenti regioni e il ritardo di quelle meno favorite». Malgrado l’enunciazione di questo obiettivo, tuttavia, lo spazio riservato ai diritti sociali nei Trattati istitutivi delle Comunità economiche è risultato effettivamente molto scarso. Non solo, in tema di garanzie sociali sussisteva un profondo iato tra alcune affermazioni di rilievo sociale presenti nel Trattato e la totale carenza di una traduzione in senso sostanziale delle enunciazioni di principio ivi contenute. 

Nella fase iniziale del processo di integrazione europea il tema dei diritti sociali è rimasto, dunque, relegato sullo sfondo, tanto da sollevare la critica di una ‘frigidità sociale’ della costruzione comunitaria. Più che frutto di una strategia, l’esclusione dei diritti sociali dall’ambito di rilevanza diretta del diritto comunitario trovava in realtà giustificazione nella fiducia riposta dai padri fondatori dell’Europa sulle potenzialità autopropulsive del mercato e sulla relativa idoneità a sostenere e diffondere diritti, ivi compresi quelli sociali. Tale tesi è stata peraltro sottoposta a penetranti rilievi critici, fino al punto da essere ritenuta basata su «errore metodologico», nel senso che l’esperienza dei diversi Paesi non dimostrerebbe affatto che il «libero gioco delle forze del mercato porti in modo naturale all’eguaglianza, bensì a una enorme disparità delle condizioni di vita e di lavoro, a seconda delle condizioni geografiche, professionali e di settore». D’altro canto, l’idea dei padri costituenti era che, a fronte di una riconciliazione politica e sulle basi economiche che ne costituivano il supporto, sarebbe stato possibile, a distanza di tempo, sviluppare la protezione degli stessi diritti e in particolare di quelli sociali. Questi ultimi, inoltre, richiedendo ingenti risorse pubbliche per la loro implementazione, avrebbero imposto di ripensare l’architettura istituzionale, l’assetto delle competenze nonché politiche di bilancio europee più forti.

Sta di fatto che anche alla luce dell’attuale cornice istituzionale europea, nonostante il riconoscimento formale della forza giuridica obbligatoria della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea allo stesso livello dei Trattati, avvenuto con il Trattato di Lisbona, all’UE resta ancora attribuito un mero compito di promozione e coordinamento delle politiche sociali degli Stati membri, risultando sottratta la materia dei diritti sociali a misure di armonizzazione a livello europeo. Essi, pertanto, continuano ad atteggiarsi per lo più a meri criteri-direttiva di politica economica, ponendosi in posizione complementare rispetto alle libertà economiche e lasciando il relativo riconoscimento e, soprattutto, la scelta delle modalità di tutela alla sfera interna degli Stati membri. 

Il Trattato di Lisbona ha dedicato certamente un’attenzione maggiore rispetto al passato alla dimensione sociale, con numerosi riferimenti in varie parti del documento. In particolare, esso contiene una serie di previsioni volte a favorire uno sviluppo ulteriore delle conquiste sociali delI’UE, sempre però nel pieno rispetto delle prerogative nazionali. Un’economia sociale di mercato fortemente competitiva, la piena occupazione e il progresso sociale figurano infatti esplicitamente tra gli obiettivi dell’Unione Europea. 

Innanzitutto, l’art. 2 si preoccupa di fornire un nuovo tessuto valoriale all’UE, conferendole una forte connotazione sociale, laddove sancisce che essa si fonda – anzitutto – sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’eguaglianza e della tutela dei diritti umani, riconoscendo i valori del pluralismo, della non discriminazione, della tolleranza, della giustizia, della solidarietà e della parità tra donne e uomini. Ad esso fa poi eco l’art. 3, comma 3 che definisce gli obiettivi dell’Unione, valorizzando la dimensione sociale con riferimenti espliciti all’economia sociale di mercato, alla piena occupazione, al progresso sociale, alla lotta all’esclusione sociale e alle discriminazioni, alla parità tra donne e uomini, alla solidarietà e alla coesione sociale; tutti nuovi ed importanti riferimenti per la dimensione sociale. 

Proprio il richiamo all’economia sociale di mercato deve essere inteso quale tecnica di bilanciamento tra gli interessi in gioco che deve ispirare sia la produzione normativa che l’esercizio stesso della discrezionalità amministrativa. In questa prospettiva, lo stesso principio di concorrenza viene pertanto espressamente inteso come strumento per il raggiungimento del benessere della società e non come fine in sé stesso. 

Quanto alle politiche sociali, il Trattato di Lisbona si caratterizza invece per: (i) la presenza di una «clausola sociale» secondo cui, nel definire e attuare le varie politiche dell’UE, occorre tener conto degli aspetti sociali (promozione di un elevato livello di occupazione, adeguata protezione sociale, lotta contro l’emarginazione, ecc.); (ii) il riconoscimento dei diritti fondamentali mediante l’inserimento di un riferimento giuridicamente vincolante alla Carta dei Diritti Fondamentali, la quale contiene una sezione dedicata alla solidarietà che enumera una serie di diritti e principi direttamente rilevanti in campo sociale, tra i quali, in particolare, il diritto di accesso alla sicurezza sociale e all’assistenza sociale; (iii) il riferimento all’importanza dei servizi di interesse generale,  (tra i quali ricadono i servizi sociali e socio-assistenziali) nell’ambito dei valori comuni dell’Unione, riconoscendo il ruolo che svolgono nella promozione della coesione sociale e territoriale.

Nonostante tali passi avanti, però, mentre il coordinamento delle politiche economiche e delle politiche del lavoro rientrano ormai tra le competenze dell’Unione, un effettivo coordinamento delle politiche sociali nazionali sembra ancora lontano, sebbene siano stati progressivamente introdotti alcuni strumenti di coordinamento soft, tra cui il metodo di coordinamento aperto, che va a toccare le politiche di inclusione sociale, le politiche previdenziali, le politiche sanitarie e sociosanitarie (il long term care). 

Da un lato, l’intervento normativo e giurisprudenziale dell’Unione resta comunque confinato all’esterno e subordinato alle tutele assicurate dalle legislazioni e dalle giurisdizioni degli Stati membri; dall’altro, sebbene i diritti sociali facciano certamente parte del processo di integrazione europea, che proprio su di essi si fonda, i Trattati prevedono unicamente il coordinamento a livello dell’Unione, ai sensi dell’art. 156 TFUE, e in un numero limitato di materie, l’adozione di misure di incoraggiamento alla cooperazione degli Stati. L’organizzazione dei servizi volti a garantirne l’effettività resta, pertanto, pienamente nella sfera di competenza degli Stati membri in omaggio al principio di sussidiarietà. 

Di contro, con particolare riferimento ai Paesi aderenti all’Euro, si è realizzata una forte integrazione sul fronte delle politiche monetarie e di bilancio, non priva di implicazioni – sebbene in via indiretta – sul fronte del welfare, proprio in ragione della dipendenza delle politiche sociali dalle scelte di finanza pubblica. I relativi vincoli, infatti, finiscono inevitabilmente per condizionare le decisioni di spesa in campo sociale e, con esse, le stesse scelte concernenti l’erogazione delle prestazioni e l’organizzazione dei servizi sociali. 

  1. La stabilità finanziaria come finalità primaria dell’Unione Europea

Il superamento del sistema dei prezzi Bretton Woods nei primi anni Settanta, seguito dalla libera circolazione dei capitali finanziari, ha segnato l’inizio di un processo di progressiva limitazione della sovranità finanziaria degli Stati, vieppiù condizionati nell’esercizio delle loro funzioni dal vincolo della stabilità monetaria e finanziaria, assurta a «bene pubblico essenziale» della costituzione materiale dell’Unione.

La stabilità finanziaria era un obiettivo già preso in considerazione dal Trattato di Maastricht (art. 127, comma 5) e, persino, nel Trattato di Roma del 1957 (art. 6). Tuttavia, solo con l’irrompere della crisi dei debiti sovrani e di fronte al rischio di contagio su tutta l’eurozona, la stabilità finanziaria è divenuta valore assoluto del diritto UE. Il Trattato di Lisbona pone infatti la stabilità finanziaria al vertice dei valori dell’ordinamento sovranazionale, attribuendone l’esclusiva custodia alla Banca Centrale Europea (BCE) la quale, condizionatamente al vincolo antinflazionistico, è autorizzata a sostenere le politiche economiche generali dell’Unione (art. 127 TFUE).

L’art. 3 TUE annovera, tra gli obiettivi dell’Unione, «lo sviluppo sostenibile dell’Europa, basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi». Ai fini di cui all’articolo 3 TUE, l’azione degli Stati membri e dell’Unione comprende, alle condizioni previste dai trattati, l’adozione di una politica economica fondata sullo stretto coordinamento delle politiche economiche degli Stati membri, sul mercato interno e sulla definizione di obiettivi comuni, condotta conformemente al principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza (art. 119 TFUE). Parallelamente, alle condizioni e secondo le procedure previste dai trattati, questa azione comprende una moneta unica, l’euro, nonché la definizione e la conduzione di una politica monetaria e di una politica del cambio uniche, che abbiano «l’obiettivo principale di mantenere la stabilità dei prezzi» e, fatto salvo questo obiettivo, di sostenere le politiche economiche generali nell’Unione conformemente al principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza. Ancor più esplicitamente, l’art. 119 TFUE sancisce che le azioni degli Stati membri e dell’Unione implicano il rispetto dei seguenti principi direttivi: «prezzi stabili, finanze pubbliche e condizioni monetarie sane nonché bilancia dei pagamenti sostenibile».

Con specifico riguardo alla politica monetaria, infine, l’art. 127 TFUE (ex art. 105 TCE) afferma che «l’obiettivo principale del Sistema europeo di banche centrali, in appresso denominato “SEBC”, è il mantenimento della stabilità dei prezzi»: la disposizione riflette dunque il pensiero economico moderno in relazione al ruolo, alla portata, ai limiti della politica monetaria, la quale può esercitare un’influenza durevole sulle variabili dell’economia reale solo mediante gli effetti positivi della stabilità dei prezzi. L’assenza di inflazione e la stabilità della moneta rappresenta, dunque, un valore costituzionale in sé, senza l’intermediazione di alcun organo politico. Costituisce, anzi, un «meta-valore» da imporre anche alla contingenza dell’indirizzo politico.

L’attuazione delle disposizioni contenute nel Titolo VIII, Capo 2 e ss., TFUE, coincide con il 1° gennaio 1999, data di inizio dell’ultima fase di costruzione dell’UEM e di avvio di operatività del sistema europeo di banche centrali (SEBC), perno istituzionale della politica monetaria unica. Il SEBC è composto dalla Banca centrale europea (BCE) e dalle banche centrali nazionali (BCN) di tutti gli Stati membri, distinguendosi quindi dall’Eurosistema, composto dalla BCE e dalle BCN dei soli Stati che adottano la moneta unica (Euro). I dati normativi di riferimento sono rappresentati, oltre che dal citato art. 127 TFUE, dall’art. 282 TFUE e dal Protocollo n. 4 sullo Statuto del sistema europeo di banche centrali e della Banca centrale europea.

Fatto salvo l’obiettivo della stabilità dei prezzi, il SEBC sostiene le politiche economiche generali nell’Unione al fine di contribuire alla realizzazione degli obiettivi dell’Unione definiti nell’articolo 3 del TUE, conformemente al principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza e di efficace allocazione delle risorse. A tal fine, il TFUE attribuisce al SEBC il compito di definire e attuare la politica monetaria dell’Unione; di condurre operazioni sui cambi e di detenere e gestire le riserve ufficiali degli Stati membri; di promuovere il regolare funzionamento dei sistemi di pagamento, di assicurare una buona conduzione delle politiche perseguite dalle competenti autorità per quanto riguarda la vigilanza prudenziale degli enti creditizi e la stabilità del sistema finanziario (art. 127, nn. 1, 2 e 5).

La BCE rappresenta il centro motore del SEBC. Gli organi decisionali della BCE, esplicitamente indicati dall’art. 129 TFUE, costituiscono al contempo gli organi direttivi del SEBC. Il Comitato esecutivo, anzitutto, è un organo permanente composto dal Presidente della BCE, dal vice Presidente e da altri quattro membri scelti tra cittadini degli Stati membri di riconosciuta levatura ed esperienza professionale. Sono nominati dal Consiglio europeo, che delibera a maggioranza qualificata su raccomandazione del Consiglio, previa consultazione del Parlamento europeo e del Consiglio direttivo della BCE. Il relativo mandato dura otto anni e non è rinnovabile (art. 283 TFUE, art. 11, nn. 1 e 2, Protocollo n.4). Il Consiglio direttivo, poi, è composto dai membri del Comitato esecutivo della BCE e dai governatori delle BCN dell’Eurosistema. Il Comitato esecutivo è responsabile della gestione degli affari correnti e provvede a dare esecuzione alle decisioni e agli indirizzi del Consiglio direttivo, impartendo le necessarie istruzioni alle banche centrali nazionali (art. 12, n. 1, Protocollo n.4). Il Trattato, all’art. 141, n. 1, prevede infine un terzo organo decisionale, di natura tendenzialmente provvisoria, denominato Consiglio generale: esso è composto dal Presidente e dal Vice Presidente della BCE e dai governatori di tutte le banche centrali nazionali, comprese quelle degli Stati che non fanno parte dell’area euro.

I Trattati assicurano al sistema una marcata indipendenza dagli Stati membri e dalle istituzioni europee, non potendo la BCE e le BCN, nell’esercizio delle proprie funzioni, «sollecitare o accettare istruzioni dalle istituzioni, dagli organi o dagli organismi dell’Unione, dai governi degli Stati membri né da qualsiasi altro organismo» (art. 130 TFUE). 

A tali notazioni sul disegno istituzionale del governo europeo della moneta, va poi aggiunto che la crisi del debito sovrano ha imposto un profondo, ulteriore, ripensamento delle politiche di bilancio dei singoli Stati membri dell’UE, in ragione degli stringenti vincoli derivanti dai Trattati internazionali stipulati per affrontare la contingenza economica. Tali vincoli condizionano fortemente la discrezionalità dei legislatori nazionali, imponendo una strutturale revisione della spesa pubblica, che inevitabilmente si riverbera, a sua volta, sulle politiche sociali.

Sul punto di particolare interesse è il rapporto tra diritto dell’Unione Europea e il diritto europeo della crisi (Six Pack, Fiscal Compact, Trattato MES) anche alla luce delle funzioni di controllo affidate alle istituzioni europee. Al fine di fronteggiare la recente crisi economica, infatti, le istituzioni dell’UE e gli Stati membri hanno adottato una serie di piani di intervento, tra i quali assume particolare importanza l’accordo del Consiglio europeo per stabilire un meccanismo europeo permanente di stabilizzazione finanziaria, istituito mediante la firma di un trattato internazionale siglato, in data 2 febbraio 2012, da venticinque Stati europei con la denominazione di Trattato sul Meccanismo europeo di stabilità (TMES) e volto a sostituire, a partire dal 2013, il MESF ed il FESF. Il successivo 2 marzo 2012 è stato firmato il Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance (TSCG); infine, il 28-29 giugno 2012 è stato adottato il «Patto per la crescita e l’impiego», unitamente a modifiche al MES ed all’attribuzione di poteri di controllo prudenziale alla BCE.

Dal Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance discende in capo agli Stati l’obbligo di introdurre, in disposizioni collocate al vertice della gerarchia delle fonti nazionali, la regola del pareggio di bilancio, prevedendo altresì all’art. 5 una procedura di sorveglianza specifica nel caso di contestazione di una situazione di deficit eccessivo.

Il Trattato in parola prescrive allo Stato membro di produrre un programma di partenariato budgetario ed economico contenente una dettagliata descrizione delle riforme strutturali che intende operare. Il programma è quindi sottoposto all’approvazione del Consiglio e della Commissione che provvedono alla sorveglianza, atteso che tale procedura si inserisce nel quadro di vigilanza previsto dal Patto di Stabilità e Crescita. Da tali previsioni emerge, dunque, chiaramente che gli Stati membri mantengono formalmente intatto il potere discrezionale di definire le politiche di spesa pubblica, sebbene tale potere risulti fortemente condizionato dal vincolo di equilibrio di bilancio.

È opportuno sottolineare che i suddetti vincoli del Trattato sono applicabili nel rispetto dei vincoli derivanti dal diritto dell’Unione e, pertanto, ai sensi dell’art. 2 «il trattato è applicato ed interpretato dalle parti contraenti conformemente ai trattati sui quali si fonda l’Unione europea». Peraltro, il successivo art. 16 prevede, entro cinque anni dall’entrata in vigore, l’integrazione del Trattato nel quadro giuridico del diritto UE, configurandosi quella attuale, come un fase temporanea e di transizione.

Ciò posto, va rilevato che la regola del pareggio di bilancio non rappresenta una novità assoluta, se si considera che già il Trattato di Amsterdam del 1997 aveva integrato nel Patto di stabilità e crescita l’obiettivo di bilancio a medio termine di raggiungimento di una posizione vicina all’equilibrio di bilancio. La portata innovativa del Trattato del 2012 risiede pertanto nei limiti entro i quali è possibile discostarsi dall’equilibrio di bilancio (oggi divenuti più stringenti), e nell’obbligo per gli Stati firmatari di introdurre tale vincolo nella normativa interna, preferibilmente di rango costituzionale. 

Peraltro, la golden clause non costituisce l’unica regola di bilancio introdotta dal Trattato. Ad esempio, l’art. 4 statuisce che quando il rapporto tra il debito pubblico ed il prodotto interno lordo di una parte contraente supera il valore di riferimento del 60% di cui all’art. 1 del Protocollo sulla procedura per i disavanzi eccessivi, tale parte contraente opera una riduzione ad un ritmo medio di un ventesimo all’anno: orbene, anche quest’ultima previsione non presenta profili di effettiva novità, essendo già prevista nell’ambito del Six Pack dal Regolamento n°1177/2011.

Nel nostro ordinamento, in attuazione dei suddetti obblighi sovranazionali, la l. cost. n. 1/2012 ha modificato l’art. 81 Cost., introducendo la regola del pareggio di bilancio, temperata dalla necessità (anch’essa espressa nel testo costituzionale) di tener conto «delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico», legittimando quindi politiche anticicliche «in modo che nelle fasi di recessione, nelle quali il gettito delle entrate fiscali si riduce ed aumentano in maniera automatica le spese dovute agli ammortizzatori sociali, l’equilibrio tra entrate e spese sia costruito rendendo le seconde eccedenti rispetto alle prime, mentre nelle fasi di espansione economica, in cui il gettito fiscale aumenta e gli ammortizzatori sociali generano minore spesa, l’equilibrio sia costruito in maniera esattamente opposta». 

Secondo parte della dottrina, il pareggio di bilancio oltre a non rappresentare una novità, non costituirebbe neppure una regola rigida, quanto piuttosto un processo di controllo dei conti pubblici attraverso il quale porre un freno all’indebitamento. In merito a tale profilo l’art. 81 Cost. prevede che «il ricorso all’indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali». Sul punto, la prevalente dottrina sostiene che la norma vieti di presentare un saldo negativo tra entrate finali e spese finali al netto di quelle di natura meramente finanziaria, tra cui quelle per il rimborso dei prestiti già contratti: si vieta quindi l’indebitamento, se non per quanto necessario al fine di rinnovare i prestiti già contratti. Al contempo, si consente espressamente di ricorrervi a fronte di «eventi eccezionali ed al fine di considerare gli effetti sul ciclo economico». Tuttavia, non si registra unanimità di vedute in ordine alla natura alternativa o cumulativa delle condizioni indicate dalla norma costituzionale. A fronte di una tesi che richiede la contestuale presenza delle stesse, sembra preferibile il diverso indirizzo per cui richiedere contestualmente la presenza dei due presupposti limiterebbe troppo la possibilità di scostamenti tra entrate e uscite: dovrebbe quindi ritenersi sufficiente, ai fini del ricorso all’indebitamento, la presenza, alternativamente, di eventi eccezionali o di valutazioni sul ciclo economico.

Appare quindi evidente che, sebbene le scelte di politica economica e sociale continuino ad essere di competenza statale, i legislatori nazionali risultano sempre più condizionati nell’esercizio della propria sovranità finanziaria, con inevitabili ripercussioni in ordine alle risorse destinabili ai servizi sociali e, per l’effetto, al livello di tutela dei diritti sociali e alle modalità di funzionamento e organizzazione dei relativi servizi. 

I servizi sociali nella prospettiva europea

Le considerazioni che precedono conducono a negare l’esistenza di un unico modello di welfare state europeo, stante invece la presenza di più modelli statali di welfare. Essi risultano per lo più accomunati da una certa uniformità nella scelta dei valori da proteggere, differenziandosi invece in relazione al funzionamento e all’organizzazione dei relativi servizi. Nonostante questo, è però innegabile l’esistenza di un nucleo fondamentale di diritti sociali europei, che possiamo sintetizzare come segue: il diritto al lavoro, il diritto all’istruzione professionale e all’educazione, il diritto ad una tutela della salute, il diritto ad avere un sistema previdenziale e di assistenza sociale e, infine, il diritto a vivere in un ambiente sano e sicuro. 

L’assenza di forme di intervento diretto a livello europeo (dei veri e propri servizi sociali europei), unitamente alla generale contrazione della spesa pubblica connessa al perseguimento di quelle finalità di stabilità finanziaria di cui si è detto poc’anzi, risulta non privo di conseguenze sul fronte delle prestazioni e dell’organizzazione dei servizi sociali da parte degli Stati membri. Basti pensare che, in taluni casi, tali politiche hanno comportano una tale ridefinizione dei livelli di tutela dei diritti sociali la cui compatibilità con le costituzioni nazionali rappresenta un’incognita tutt’altro che marginale. Se da un lato, infatti, la contrazione della spesa sociale risulta un’inevitabile conseguenza delle politiche di austerità imposte nei confronti di alcuni Paesi particolarmente esposti finanziariamente, dall’altro occorre evidenziare come la struttura finanziaria dell’UE non risulti tale da permettere lo svolgimento di funzioni redistributive con effetti paragonabili a quelle poste in essere dagli Stati membri, non potendo così contribuire ad attenuare i costi sociali delle politiche di risanamento dei conti pubblici e dei processi di riforma strutturale richieste ai Paesi membri. 

Coerentemente con l’esiguità dei compiti assegnati all’UE in materia di diritti sociali, anche i servizi sociali hanno ricevuto una scarsissima attenzione a livello europeo in ragione della loro non rilevanza economica e per l’assenza di implicazioni per il mercato unico europeo. Le istituzioni europee, nonostante il formale riconoscimento della categoria, hanno mostrato una tendenziale indifferenza per il settore dei servizi sociali, individuano nell’assistenza sociale non tanto un obiettivo qualificato da garantire direttamente, quanto piuttosto un limite allo svolgimento delle attività economiche e all’applicazione del regime concorrenziale. 

La categoria dei servizi sociali è stata così delineata in negativo rispetto ai servizi di interesse economico, costruendo una nozione comunitaria di servizio sociale che necessariamente rinvia a quegli elementi caratteristici che contraddistinguono il modello dei servizi sociali erogati dagli Stati membri. Si è così operata una distinzione tra i servizi di interesse generale (SIG), i servizi di interesse economico generale (SIEG) e i servizi sociali di interesse generale (SSIG), in relazione ai quali, il Trattato di Lisbona ha dedicato uno specifico protocollo (n. 26) ribadendo che «le disposizioni dei trattati lasciano impregiudicata la competenza degli Stati membri a fornire, a commissionare e ad organizzare servizi di interesse generale non economico».

La Commissione ha precisato che, sebbene i servizi sociali, secondo la normativa comunitaria applicabile in materia, non costituiscano una categoria giuridica distinta nell’ambito dei servizi d’interesse generale, questa enumerazione basta da sola a dimostrare il loro ruolo in quanto pilastri della società e dell’economia europee, grazie principalmente al loro contributo a diversi obiettivi e valori essenziali dell’Unione, quali il raggiungimento di un elevato livello occupazionale e di protezione sociale, un elevato livello di protezione della salute, la parità fra gli uomini e le donne  e la coesione economica, sociale e territoriale. Tuttavia questo valore specifico è determinato anche dal carattere vitale delle esigenze che sono destinati a soddisfare, garantendo in tal modo l’applicazione di diritti fondamentali quali la dignità e l’integrità della persona. 

I servizi sociali, alla luce di tali annotazioni, sembrerebbero perciò rilevare solo marginalmente nella prospettiva europea in quanto non direttamente esposti al regime concorrenziale cui invece sono assoggettati i servizi di interesse economico. Invero, proprio la rilevanza dei vincoli finanziari europei sulle decisioni concernenti la spesa destinata all’erogazione degli stessi induce a ritenere che la competenza esclusiva riconosciuta agli Stati membri sul fronte della fornitura, commissione ed organizzazione dei servizi di interesse generale non economico risulti quanto meno ridimensionata alla luce dell’evidente connessione esistente tra tali scelte e la sostenibilità dei bilanci pubblici. Tale aspetto, che finisce per incidere anche sulla «sovranità sociale» dei Paesi membri e, in particolare, sulle implicazioni dei vincoli finanziari sulle scelte in materia di funzionamento e organizzazione dei servizi sociali, rappresenta in realtà un ambito di attenzione del tutto inedito e di rilevantissima portata in quanto teso ad indurre i poteri governanti alla ricerca delle modalità organizzative più efficaci al fine di garantire che l’erogazione degli stessi avvenga in un quadro di adeguatezza delle prestazioni sociali e di sostenibilità della spesa. Nel disegno istituzionale europeo, il mancato raggiungimento di un equilibrio tra tali esigenze, infatti, a seconda di casi, potrebbe delineare la violazione della clausola costituzionale a tutela dei diritti fondamentali della persona o, in alternativa, del principio di pareggio di bilancio, con la conseguenza di attribuire a tali valori il ruolo di veri e propri freni al potere governante.   

Se questo è il disegno istituzionale europeo, occorre però essere consapevoli del fatto che la politica di irrigidimento dei vincoli di bilancio, volta a contrastare gli effetti della crisi economico-finanziaria e ad indurre i Paesi membri ad avviare riforme strutturali, rischia di avere nel breve e medio periodo delle conseguenze negative sull’esercizio concreto della sovranità statale in materia di politiche sociali, finendo per indebolire le già fragili basi su cui si fonda il modello sociale europeo e il conseguente progetto di integrazione europea.

  1. La necessità di un nuovo approccio ai diritti sociali nel contesto eurounitario?

Arrivati a questo punto della riflessione, pur consapevoli dell’ampiezza dei temi trattati e, nello stesso tempo, del carattere preliminare dell’analisi sin qui proposta, si tenterà di fornire alcuni spunti che possano risultare utili per i successivi studi in ambito giusteorico, giuspublicistico e giuseconomico, ipotizzando un approccio parzialmente diverso rispetto al modo in cui, nel nostro ordinamento, sono stati solitamente ricostruiti i diritti sociali (a prestazione) e delineato il conseguente ruolo dello Stato. 

L’elevazione della stabilità finanziaria a finalità primaria dell’Unione sta producendo effetti rilevanti sulle scelte di indirizzo politico dei poteri governanti, con particolare riferimento alla spesa sociale e al settore dei servizi sociali. Effetti, però, rispetto ai quali non è corrisposta in sede europea una pari attenzione sul fronte della costruzione di un modello sociale europeo in grado di affiancare i processi di riforma strutturale di quei sistemi di welfare in essere negli Stati membri, ormai incompatibili con la costituzione economica e finanziaria europea. Tale situazione crea un pericoloso squilibrio istituzionale che rischia di porre in serio pericolo la tenuta democratica e sociale degli Stati membri con un maggiore debito pubblico, oltre che della stessa Unione Europea. 

Le considerazioni che precedono inducono a ritenere che, se è vero che il progetto europeo si ispira al modello teorico tracciato dagli ordoliberali, per quanto avanzato esso possa apparire, il processo di integrazione pare in realtà tutt’altro che concluso ed anzi, ancora lungo e non privo di incognite. Su tutte, va segnalata la crisi dell’euro e la debolezza dei Paesi più esposti finanziariamente che ha segnato una forte disaffezione rispetto al progetto europeo, facendo riemergere preoccupanti sacche di resistenza al cambiamento capaci di raccogliere un consenso crescente alimentato da politiche di riduzione della spesa pubblica incentrate sulla compressione delle garanzie sociali piuttosto che su una strutturale riforma delle modalità di tutela. 

Da un lato, il contenimento della spesa pubblica rappresenta un passaggio ineludibile nella costruzione di un ordine politico e sociale coerente con la costituzione economica e finanziaria europea, dall’altro, le resistenze a quei cambiamenti istituzionali che esso presuppone, si manifestano in due tendenze apparentemente opposte ma che rappresentano, in realtà, due facce della stessa medaglia: tagliare la spesa scaricandone i costi sociali principalmente sui cittadini, oppure, ricorrere alla leva monetaria per anestetizzare gli effetti negativi di un eccesso di spesa pubblica. 

Nel primo caso, si tratta però di politiche particolarmente costose dal punto di vista elettorale, la cui implementazione induce a ritenere auspicabile (sebbene pericoloso dal punto di vista democratico) la previa sterilizzazione degli effetti mediante un consolidamento degli assetti di potere esistenti attraverso riforme costituzionali e leggi elettorali in grado di garantire un male inteso concetto di governabilità. Nel secondo caso, si tratta invece di politiche rischiose in quanto la loro adozione potrebbe comportare, a seconda dei casi, il fallimento del progetto europeo, ovvero, enormi costi economici e sociali per i Paesi che dovessero scegliere tale strada. 

La mancanza di leadership capaci di esprimere un potere governante in grado di rinunciare all’uso delle finanze pubbliche quale strumento di consolidamento del consenso elettorale – ridefinendo le modalità di tutela dei diritti sociali in un’ottica di welfare society, giungendo cioè ad una qualificazione degli stessi come diritti fondamentali della persona il cui soddisfacimento non si configuri come pretesa nei confronti dei pubblici poteri, bensì, come esercizio della sovranità popolare nel rapporto con l’autorità – rappresenta forse l’incognita più minacciosa per il futuro dell’Unione Europea. 

Del resto, al di là di qualche affermazione di principio e della stessa costituzionalizzazione della Carta Europea dei Diritti Fondamentali avvenuta con il Trattato di Lisbona, le stesse istituzioni europee sembrano spesso ignorare quanto stretto sia il legame tra il futuro del progetto europeo e quello del welfare e, in taluni casi, finanche concepire la tutela dei diritti sociali come funzionale alle esigenze del mercato piuttosto che come valore in sé. 

Al contrario, nell’ottica di quell’economia sociale di mercato altamente competitiva a cui allude lo stesso Trattato di Lisbona, si renderebbe auspicabile sia una riconduzione dell’intera disciplina delle finanze dell’Unione, oggi sparsa in fonti eurounitarie e di diritto internazionale, nell’ambito delle fonti primarie del diritto europeo, sia un ampliamento dei suoi ambiti di intervento diretto, sebbene in chiave sussidiaria e conforme al mercato, a supporto dei processi di riforma strutturale dei Paesi meno virtuosi, contribuendo così al rafforzamento di modello sociale europeo. Ciò, peraltro, richiederebbe un complessivo ripensamento delle finanze dell’Unione e delle sue politiche sociali, rispetto al quale manca ancora un unanime consenso politico. 

Nell’ambito dell’esercizio della sovranità finanziaria, ripartita tra istituzioni europee e Stati membri, tale accorgimento permetterebbe di assoggettare le relative scelte al controllo di compatibilità con la Carta Europea dei Diritti Fondamentali da parte della Corte di Giustizia, obbligando ad un bilanciamento tra l’interesse alla stabilità finanziaria e le finalità sociali dell’Unione, in linea con le previsioni del Trattato di Lisbona. Si arginerebbe così, da un lato, il rischio di intervento in chiave difensiva delle corti costituzionali dei Paesi membri mediante l’attivazione dei cosiddetti contro-limiti costituzionali e, dall’altro, si avvierebbe un processo di rafforzamento della legittimazione democratica alle istituzioni europee per effetto del supporto offerto agli Stati nell’adozione delle necessarie riforme strutturali.

Quello dei diritti sociali, d’altronde, è un settore che sebbene risulti apparentemente meno interessato dalle vicende connesse all’integrazione europea, rappresenta invece la chiave di volta per il futuro dell’Unione. Se nel corso del processo che portò alla stipula del Trattato di Roma si scelse di tenere fuori dal progetto di integrazione dei mercati l’armonizzazione dei sistemi sociali nazionali, già così diversi tra i vari Stati membri, in questa fase sembrerebbe auspicabile l’esatto opposto. Tale scelta era alimentata dalla convinzione che proprio le politiche europee tese allo sviluppo di un mercato unico avrebbero provocato un incremento della ricchezza complessiva, aumentando la capacità della sfera pubblica di soddisfare tali istanze. Un presupposto questo che, in questa particolare fase dell’integrazione europea, pare però del tutto superato.

La conseguenza di tale approccio è stata una sempre maggiore differenziazione tra i diversi modelli di welfare europei, nella convinzione che la materia dei diritti sociali avesse una dimensione propriamente politica e che, pertanto, dovesse restare strettamente ancorata alla sovranità statale e, quindi, saldamente nelle mani del potere governante. Così facendo, ogni Stato membro ha adottato un proprio modello di stato sociale, basato su specifici equilibri politico-istituzionali – soprattutto nei rapporti tra potere esecutivo e legislativo e tra questi e le corti costituzionali e le banche centrali – alimentati da coerenti scelte di indirizzo della finanza pubblica e di organizzazione della pubblica amministrazione la cui messa in discussione richiede oggi politiche in grado di accompagnare l’evoluzione verso nuovi equilibri istituzionali coerenti con la costituzione economica e finanziaria europea. In particolare, risulta ormai un dato incontrovertibile il nesso tra il perseguimento della stabilità finanziaria e la sostenibilità di un determinato sistema di garanzia delle istanze sociali che, a sua volta, richiede risorse pubbliche e un apparato organizzativo chiamato ad assicurarne un’effettiva tutela.

Le riflessioni che precedono portano a soffermarsi sull’ulteriore evoluzione del modello di divisione dei poteri che si sta affermando per effetto dei nuovi equilibri istituzionali che stanno emergendo in risposta ai vincoli di finanza pubblica, all’introduzione dell’Euro, alle politiche della Banca Centrale Europea e alla nuova governance economica dell’Unione. 

Volgendo lo sguardo al nostro Paese, se può dirsi parzialmente superata quell’anomalia istituzionale che aveva ostacolato per molti decenni l’affermazione di un vero potere governante e favorito la costruzione di un imponente stato sociale, la crisi economica e l’esigenza di adottare politiche di contenimento della spesa pubblica ha evidenziato l’assenza di sicuri ancoraggi costituzionali a garanzia dell’effettività dei diritti sociali. 

Il rischio, tutt’altro che ipotetico, è che al segnalato squilibrio determinatosi nella fase di espansione del nostro stato sociale, al mancato riconoscimento della stabilità finanziaria come valore costituzionale possa corrispondere ai giorni nostri un nuovo squilibrio, di segno opposto, capace di provocare un sostanziale svuotamento delle garanzie costituzionali poste a tutela dei diritti sociali e, in particolare, del principio di eguaglianza sostanziale per effetto della costituzionalizzazione, in sede Europea, della stabilità finanziaria e del suo operare, nella rinnovata cornice istituzionale dell’Unione Economica e Monetaria, quale vincolo nelle scelte di indirizzo della finanza pubblica del potere governante. 

La costituzione economica europea, sia direttamente che indirettamente, ha comportato un nuova gerarchia di valori costituzionali nell’ambito della quale alla stabilità finanziaria viene riconosciuta un’assoluta centralità. Se da un lato ciò ha introdotto un freno, prima non solo assente nel nostro ordinamento ma fortemente contestato dalla stessa Corte Costituzionale, al potere governante in ordine all’indirizzo e al governo della finanza pubblica, dall’altro, ha però generato una pericolosa tensione sul fronte della tutela dei diritti sociali, tradizionalmente definiti diritti finanziariamente condizionati e, perciò, direttamente esposti agli effetti delle politiche di contrazione della spesa pubblica. 

Pur non essendo questa la sede per proporre una puntuale ricostruzione delle recenti pronunce della Corte Costituzionale vertenti su alcuni interventi di riduzione della spesa pubblica, merita di essere evidenziato come quest’ultima, applicando la nuova gerarchia di valori costituzionali, avallata nel nostro ordinamento anche dalla costituzionalizzazione del principio del pareggio di bilancio, abbia ormai ridisegnato i confini della discrezionalità del potere governante sul fronte della tutela dei diritti sociali, senza tuttavia spingersi sul terreno dell’applicazione ai cosiddetti contro-limiti costituzionali. 

A tal fine, uno dei parametri a cui la Corte costituzionale ha fatto maggiormente ricorso è il canone di uguaglianza-ragionevolezza in virtù del quale, la riduzione della spesa pubblica imposta dal vincolo di pareggio di bilancio e dal nuovo assetto istituzionale dell’eurozona è stata ritenuta legittima in presenza, tra l’altro, di una «ragionevolezza temporale», ossia quando essa risulti «eccezionale, transeunte, non arbitraria, consentanea allo scopo prefissato, nonché temporalmente limitata». Sotto un ulteriore profilo, la ragionevolezza ha assunto un ruolo di criterio di contemperamento tra perseguimento dei vincoli di bilancio e salvaguardia del nucleo fondamentale dei diritti. 

Anche la congiuntura economica è stata ritenuta dalla consulta un presupposto in grado di legittimare misure delimitative delle situazioni giuridiche individuali, con il solo limite rappresentato dal «nucleo intangibile dei diritti fondamentali della persona umana», parametrato ai livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali. 

Dalla giurisprudenza costituzionale emerge, in definitiva, che i parametri di legittimità delle misure incidenti sui servizi sociali sono rappresentate dal principio di ragionevolezza, dalla valorizzazione dei livelli essenziali delle prestazioni civili e sociali, e dal principio solidaristico. In senso parzialmente critico, tuttavia, autorevole dottrina ha manifestato particolari cautele in relazione al parametro della ragionevolezza, considerato che l’allocazione delle risorse è espressione di un potere discrezionale del legislatore, censurabile in sede di legittimità costituzionale solo in caso di manifesta incongruenza o intrinseca illogicità della scelta normativa.

Al contrario, merita senz’altro condivisione il riferimento al parametro dei livelli essenziali delle prestazioni quale nocciolo duro non sacrificabile e, pertanto, vero controlimite al rigore di bilancio. Criticabile è, però, l’individuazione dell’ubi consistam di tale limite ed il relativo fondamento costituzionale in quanto assai problematico risulta il riferimento della giurisprudenza costituzionale ai livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali ex art. 117, II c., lett. m), Cost. La riconosciuta derogabilità, mediante legge ordinaria, di tali livelli prestazionali, innesca infatti un pericoloso cortocircuito nel ragionamento proposto, in quanto configurerebbe l’intervento del legislatore statale in sede di definizione dei livelli essenziali come un’autolimitazione tale per cui, da un lato, spetterebbe al legislatore imporre dei sacrifici in relazione ai diritti dei cittadini e, dall’altro lato, sarebbe lo stesso legislatore ad delineare l’argine del proprio intervento.

Alla luce di tali annotazioni, pur dovendo riconoscere lo sforzo della Corte Costituzionale teso ad evitare un sostanziale sgretolamento del nostro stato sociale, avvenuto principalmente attraverso il riconoscimento di un nucleo incomprimibile di diritti sociali – la cui tutela prescinde da qualsivoglia valutazione finanziaria, dovendosi invece fondare sui livelli essenziali dei diritti civili e sociali e sul canone della ragionevolezza – non può non esprimersi preoccupazione per l’assenza nell’assetto istituzionale che va delineandosi di un solido ancoraggio giuridico – sottratto alla discrezionalità del potere governante – in grado di garantire l’effettività degli stessi. Si tratta, infatti, di pronunce poco incisive ed insufficienti a fornire tutela alle istanze sociali contenute nella carta costituzionale in quanto ancorate ai livelli essenziali dei diritti civili e sociali, la cui definizione in concreto è a sua volta rimessa alla discrezionalità del potere governante. 

In questo assetto istituzionale in via di definizione, la reazione del potere governante ai vincoli europei e alle scelte di politica monetaria della BCE si traduce in una sostanziale difesa dell’attuale assetto organizzativo dei servizi sociali, funzionale al mantenimento dell’assetto democratico e di consenso venutosi a creare a partire dagli anni sessanta, che finisce per ridurre l’esercizio condiviso della sovranità finanziaria ad una dialettica con le istituzioni europee incentrata sulla sistematica richiesta di deroghe ed eccezioni alle regole e sul sacrificio di qualche garanzia sociale in un quadro di pericolosa delegittimazione del progetto europeo. 

Tali resistenze del potere governante (in Italia come altrove) al disegno istituzionale europeo rischiano così di porre in pericolo la tenuta stessa delle garanzie sociali e, così facendo, di compromettere l’integrazione europea. Una corretta interpretazione del progetto europeo, funzionale all’adozione sul piano interno di quelle riforme strutturali in grado di incidere sull’organizzazione e sul funzionamento dei servizi sociali nel rispetto dei vincoli costituzionali interni ed europei, può perciò essere garantita solo perseguendo anche sul fronte interno quella prospettiva ordoliberale che è stata richiamata in precedenza nei suoi tratti essenziali. 

Per evitare che i nuovi equilibri istituzionali possano andare ad incidere negativamente sui livelli di tutela diritti sociali, anziché indurre il potere governante a porre in essere riforme strutturali aventi ad oggetto l’adozione di modalità di erogazione dei servizi sociali in grado di rendere sostenibili i bilanci, il primo passo da compiere sarebbe quello di abbandonare la visione dei diritti sociali come mere dichiarazioni a contenuto programmatico e diritti finanziariamente condizionati, giungendo ad una qualificazione degli stessi come diritti fondamentali della persona il cui soddisfacimento sia riconducibile all’esercizio della sovranità popolare nel rapporto con l’autorità. 

Anche in assenza di un intervento teso a garantire, già a livello europeo, un bilanciamento tra interessi contrapposti, siffatta evoluzione del concetto di diritti sociali avrebbe l’effetto di porsi come un vero e proprio freno al potere governante e, pertanto, come ulteriore vincolo rispetto alle decisioni di spesa. In altri termini, al pari della stabilità finanziaria, il riconoscimento dei diritti sociali come diritti fondamentali della persona avrebbe l’effetto di porre la garanzia della loro effettività quale vero e proprio parametro di legittimità delle scelte di indirizzo della finanza pubblica e, pertanto, dell’esercizio stesso della sovranità finanziaria. 

Un simile vincolo, sul fronte dell’organizzazione e delle modalità di erogazione dei servizi sociali avrebbe dunque l’effetto di elevare l’effettività di taluni diritti sociali a vincolo alla discrezionalità del potere governante, indirizzando la sua azione prima che nella direzione di una loro indebita compressione, verso una ridefinizione delle modalità di intervento pubblico coerenti con il nuovo contesto istituzionale dell’Unione. Ciò avverrebbe, necessariamente, attraverso il superamento della logica della centralità dell’amministrazione e della configurazione dei diritti sociali come pretese volte all’ottenimento di una prestazione da parte di un soggetto pubblico, a fronte della contestuale adozione di una prospettiva in grado, piuttosto, di guardare alla garanzia dei diritti sociali e all’effettiva coercibilità delle relative pretese. Dalla adozione di una visione forte dei diritti sociali, conseguirebbe una trasformazione dell’organizzazione dei servizi sociali e delle modalità di erogazione delle prestazioni, tale da risultare compatibile sia con la tutela effettiva dei diritti fondamentali che con i vincoli posti dalla costituzione economica e finanziaria europea, in piena applicazione della sussidiarietà orizzontale e dello sviluppo di un mercato concorrenziale.

Senza tuttavia dimenticare che, il bilanciamento tra l’interesse alla stabilità finanziaria e le finalità sociali dell’Unione, richiede – parallelamente alla definizione di un nuovo equilibrio istituzionale nell’ordinamento interno – la ripresa del cammino verso un’autentica economia sociale di mercato. Il che comporterebbe l’ampliamento degli ambiti di intervento diretto delle istituzioni europee, sebbene in chiave suppletiva, a supporto dei processi di riforma strutturale dei Paesi meno virtuosi dal punto di vista finanziario, nell’ottica della costruzione di un vero modello sociale europeo. In tal modo, se da un lato risulterebbe agevolata l’adozione da parte dei Paesi membri delle riforme strutturali necessarie a far fronte alla crisi dello stato sociale, dall’altro, si promuoverebbe la legittimazione democratica delle istituzioni europee al pari di quanto avvenuto con lo sviluppo dello Stato pluriclasse. 

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