Autore: Inspire

Capacità e neuroscienze cognitive: dialogo per un approccio all’uomo nella sua dimensione globale di Eva Leccese

Abstract: The theme of the of people’s legal capacity is one of the corequestions that emerges, right from the beginning, in all the studies dealing with the relationship between neuroscience and law. Cognitive neurosciences allow to deal with the capacity of the person in a flexible and modular way, in a global and integrated approach that allows, in the operating phase, to make “useful” and more effectively usable the model of protection of incapacity developed by the legislator on the basis of a (necessary) standardization. The current debate on the relationship between neuroscience and social sciences highlights, firstly, how neuroscience aims to uncover the correlations between mental activity and biological substrate that should enable the understanding of brain reactions to external stimuli, brain responses to situations in which a person, in the specificity of physical and age conditions, can find, allowing, in the long term, the development of behavioural models. Here then is the importance of the cognitive foundations of law, the result of a process of integration between juridical models and cognitive sciences that opens a path with a dual direction: on the one hand the understanding of the cognitive and decision-making processes of the subjects to whom the norms are intended, on the other hand the thought and the argument of the legislator and the interpreter. The rereading of the notions, in terms of ability to act, ability and natural incapacity, explains the traditional orientation of the jurist; the neuroscientific approach can provide the interpreter with a broader vision. Studies of cognitive neurosciences, in fact, reveal the role of the affective sphere that interacts with that of reason by composing the dialogue between emotionality and rationality, fundamental in the cognitive process. The difference between the cognitive and the volitive spheres, which, in legal terms, is expressed by the term ability to understand and/or to want and the distinction of which is irrelevant from a legal point of view, becomes relevant in the light of the results of the cognitive neurosciences which have demonstrated as a perfect and integral intellectual capacity (ability to understand) you sometimes have an absolute inability to decide.
Calling into question the traditional model of rational man can paradoxically contribute to create a more efficient and, therefore, more rational system, which ensure an ever-higher level of protection of the individual, in his global – both physical and psychological –dimension, corresponding to the uniqueness of the person. This study requires an integrated approach between disciplines which share a common thread: the man and the quality of his life.

Keywords: Neuroscience – Law – Person – Capacity – Behavioral models

Premessa

Uno dei temi centrali che emerge, sin da un primo approccio al tema, in tutti gli studi che si occupano del rapporto tra neuroscienze e diritto è quello della capacità delle persone. Si discute, così, della capacità, non solo nel diritto civile, e con riferimento all’individuazione della misura di protezione più idonea per gli incapaci ma anche, ad es., nel diritto penale, nell’ambito della problematica relativa all’imputabilità, e, ancora, nel diritto processuale civile.
Nello specifico del tema trattato le neuroscienze cognitive consentono di occuparsi della capacità della persona con modalità elastica e modulare, in un approccio globale ed integrato che permette, nella fase operativa, di rendere «utile» e più efficacemente fruibile il modello di protezione dell’incapace elaborato dal legislatore sulla base di una (necessaria) standardizzazione. Ciò accade, ad es., con riferimento alla capacità o incapacità del minore, sintesi normativa di una situazione o, meglio, relazione tra l’individuo (minorenne) ed il mondo in cui vive, concepita come schema funzionale di protezione per una posizione di «debolezza» definita da nozioni e concetti che ci provengono da altre scienze (biologia, fisiologia).
In un noto studio di molti anni fa, si legge:

«È innegabile che la vita dell’uomo si manifesta come un continuum che si svolge tra la nascita e la morte dell’individuo. Tale periodo può essere suddiviso in varie età, siano esse abbastanza numerose, secondo le teorie della medicina e della psicologia meno moderne, siano esse ridotte a due partizioni soltanto – età evolutiva ed età involutiva – secondo più recenti risultanze di quelle scienze. Ma tanto nella prima quanto nella seconda ipotesi, di estrema e forse insuperabile difficoltà si presenta la determinazione del preciso momento in cui avviene il passaggio dall’una all’altra ovvero si completa un ciclo e se ne inizia uno nuovo. Sulla base di questa incertezza anche i legislatori si sono trovati a seguire vie dissimili nel frazionamento delle diverse età, cui riannodare le corrispondenti capacità giuridiche».

L’autorevolissima dottrina ci iniziava, così, alla riflessione sulla «minorità» nella cui complessità spicca e si staglia l’elaborazione della «capacità di discernimento».
Le parole di allora precorrono i tempi e sembrano esprimere la sintesi del dibattito di oggi sul rapporto tra neuroscienze e diritto. «Se il diritto e le neuroscienze,» – si è affermato – «pur occupandosi dello stesso oggetto d’indagine (che è poi il soggetto umano, i suoi moventi e la sua condotta), potessero continuare ad esercitare un magistero per così dire parallelo, non ci sarebbe alcuna ragione di indagare ulteriormente la questione. Alla scienza i fatti, al diritto i valori. Degli esseri umani si occupano le scienze, al diritto interessano le persone».
Ma uomo e persona coincidono e l’equivalenza uomo-persona, per la quale, cioè, ogni essere umano, in quanto tale, ha la capacità giuridica, rappresenta una tap­pa fondamentale dell’evoluzione degli ordinamenti giuridici moderni da forme primordiali dove la capacità giuridica coincideva, sostanzialmente, con la capacità d’agire del soggetto, all’attuale grado di sviluppo dove, invece, la capacità giuridica di ogni uomo è dato acquisito non solo all’esperienza giuridica, ma alla coscienza politica, sociale, umana di ogni individuo.
Le neuroscienze cognitive, si pone in luce, «rappresentano l’espressione di una visione complessiva della natura umana che, in quanto tale, è destinata ad investire fin dalle fondamenta l’architettura concettuale del sapere giuridico, costringendolo comunque ad un profondo ripensamento». Proprio nelle moderne neuroscienze si indica lo strumento con il quale «il programma di un’integrale unificazione dei saperi sull’uomo e sulla natura giunge a compimento». E questo appare essere il punto di snodo della questione: l’affermazione della globalità dell’uomo, corpo e mente, fisicità e psichicità, che corrisponde all’unicità del valore persona, affermato dalla dottrina da sempre attenta alla tutela della persona nella sua globalità.
Dire con esattezza cosa siano le neuroscienze cognitive, e definire le ripartizioni al loro interno, è compito degli appartenenti alla comunità scientifica che si occupa delle discipline: l’approccio di chi scrive è quello di chi si appresta, con curiosità ed umiltà, a scoprire un mondo nuovo e «altro», sino ad ora, rispetto a quello di appartenenza e a confrontarsi con una dimensione che richiede conoscenze specifiche e capacità di comprensione delle tecniche non sempre di facile assimilazione: ciò che appare chiaro, però, sin dal primo approccio, é che tutte le discipline riconducibili alle neuroscienze cognitive condividono «un fondamentale programma comune: quello di comprendere come il cervello renda possibili i fenomeni mentali e i comportamenti umani». E il diritto ha ad oggetto la regolamentazione di comportamenti umani; l’apporto delle neuroscienze può migliorare sensibilmente la capacità legislativa di regolare le condotte umane e quella dell’interprete di comprenderle, rendendo così più equilibrato, in particolare nel campo specifico che qui ci occupa, quel difficile rapporto tra iperprotezionismo legislativo ed anomia, nel segno del rispetto della dignità dell’uomo che realmente trovi espressioni nelle forme di regolamentazione di aspetti della vita privata.

Scienze cognitive e diritto: il profilo del dibattito

Il dibattito attuale sul tema (del rapporto tra neuroscienze e scienze sociali) pone in luce, in primo luogo, come le neuroscienze si propongano di svelare le correlazioni tra attività mentale e sostrato biologico.
Tali correlazioni dovrebbero consentire di comprendere le reazioni del cervello agli stimoli esterni, le risposte cerebrali alle situazioni in cui una persona, nella specificità delle condizioni fisiche e di età, può trovarsi, permettendo, nel lungo periodo, l’elaborazione di modelli comportamentali. Ecco allora l’importanza dei fondamenti cognitivi del diritto, risultanza di un processo di integrazioni tra modelli giuridici e scienze cognitive che apre un percorso con una duplice direzione: da un lato la comprensione dei processi cognitivi e decisionali dei soggetti cui le norme sono destinate, dall’altro il pensiero e l’argomentazione del legislatore e dell’ interprete.
Le scienze cognitive si affiancano, così, all’analisi economica del diritto, che si colloca nel più limitato campo degli effetti economici delle regole giuridiche, e a questa sono accomunate dal criterio dell’efficienza: efficienza della norma le prime, sotto il profilo della corrispondenza degli effetti all’intenzione del legislatore, efficienza economica la seconda come scelta (razionale) più vantaggiosa nell’applicazione della norma. Entrambe, sinergicamente, disegnano il perimetro di un’area complessiva che abbraccia l’uomo nella sua dimensione globale e il suo agire, la persona e la regolamentazione della sua esistenza. E qui le implicazioni e le applicazioni possono essere davvero tante, quante sono le dimensioni dell’uomo che le scienze giuridiche tentano da sempre di sistemare in categorie e regole, dal sistema di protezione dei soggetti deboli all’esercizio della capacità contrattuale: sotto tale ultimo aspetto, il richiamo, in verità molto utilizzato in tanti studi sul tema, è ai vizi della volontà, alla clausola generale di buona fede, alla legislazione consumeristica (in particolare alla disciplina delle pratiche commerciali sleali), alla tutela risarcitoria, dove spicca, come caso emblematico nel campo del risarcimento del danno non patrimoniale, il danno biologico. Lo specchio delle neuroscienze cognitive riflette la necessità di integrare, nei contenuti, modelli quali, ad es., la diligenza del buon padre di famiglia, la normale diligenza ed il comune apprezzamento nel giudizio di rilevanza dell’errore, la nozione di consumatore medio, tutti schemi, questi, elaborati nell’esperienza giurisprudenziale sulla base di un astratto (prototipo) di uomo razionale.
La constatazione della fallibilità di un modello di uomo razionale, che il legislatore assume a schema di riferimento, è ampiamente dimostrata dalla evoluzione della società e della coscienza sociale che il legislatore fatica ad ingabbiare in schemi normativi; si pensi, ma solo per fare un esempio, alle Unioni civili: ciò che alla coscienza dei più, e al senso comune, poteva apparire contro logica e ragione, è faticosamente divenuta legge dello Stato, espressione, a sua volta, di comportamenti umani accettati e divenuti normali, razionali. Ciò perché, ad avviso di chi scrive, bisogna distinguere la razionalità come capacità di raziocinio, espressione della facoltà di comprendere ed elaborare concetti e di assumere decisioni logiche e conseguenti, dalla razionalità come concetto che esprime la conformità di un comportamento a un modello «secondo ragione»; la prima è un concetto scientifico, estrinsecazione di un’attività cerebrale accertabile e misurabile in quanto espressione della facoltà di comprendere ed elaborare concetti, la seconda sociale, convenzionale, in quanto è influenzata e determinata dalle convenzioni sociali, dagli stereotipi, dal comune senso del pensare o, meglio, del pensare in senso comune.
È importante, dunque, anzi necessario, per il giurista, legislatore o giudice, dotarsi di tecniche e strumenti di comprensione del cervello che ben sappiano riflettere e spiegare i meccanismi che presiedono alle scelte, alle decisioni, e che determinano le condotte, così come è importante per lo psicologo, per lo psicoterapeuta, conoscere i congegni mentali che si instaurano a seguito di traumi ed i meccanismi cerebrali che presiedono alla loro elaborazione, per poter curare e guarire l’uomo dal male dell’anima.
Ciò può valere nel diritto che, come si è detto, ha ad oggetto la regolamentazione di comportamenti umani, ma trova riscontro anche in altri campi; l’ambito di indagine comprende aree più vaste o, meglio, ogni area dove acquista rilevanza la comprensione profonda dei meccanismi che governano le condotte degli uomini: «la scienza – si è affermato – per essere utile all’uomo deve essere umana, e potrà essere tale solo se si fonderà anch’essa sulla conoscenza ed il rispetto delle leggi che regolano la vita e l’evoluzione della coscienza evitando di alterare i delicati equilibri del metabolismo umano ed ambientale». Significativo, in tal senso, il richiamo ai diritti umani e ai valori contenuti nella Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo, i cui fondamenti – si afferma – sono fisiologicamente presenti nel genoma umano e la cui attuazione non può avere altra strada che quella «dell’educazione che deve stimolare lo sviluppo e l’espressione delle potenzialità racchiuse all’interno del cervello umano: questo fa nascere la gioia di vivere».
Esiste, però, il rischio che la medaglia sveli anche l’altro lato, non positivo.
La diffusione sempre crescente degli strumenti di neuromarketing, come forma principale attraverso la quale collocare sul mercato i prodotti di sempre con modalità e strumenti impensabili fino a qualche tempo fa, e le attuali tecniche di conclusione dei contratti di massa inducono a riflettere su come la persona, il suo essere pensante, possa essere utilizzata come strumento di mercato al pari di qualunque altro bene o utilità economica, trasformando, così, l’uomo da soggetto agente ad oggetto di mercato. Il doppio lato della medaglia, dunque, può mostrare, anche, come le neuroscienze e le scienze comportamentali possano trovare applicazione in tecniche funzionali, prevalentemente, alle esigenze del mercato più che alla tutela delle persone. È innegabile, però, che le stesse scienze possano rappresentare il miglior strumento per comprendere le problematiche degli incapaci, dei soggetti deboli, e ritagliare la misura di protezione più idonea.
L’ambito della capacità della persona e delle sue limitazioni sembra essere quello più idoneo all’utilizzo delle valutazioni provenienti dalle neuroscienze cognitive, dove l’approccio, anche intuitivamente, è più immediato: si pensi all’amministrazione di sostegno che sicuramente appare come il campo elettivo di utilizzo degli strumenti di brain imaging perché si tratta di modulare il provvedimento sul singolo caso o stato di capacità/incapacità, non standardizzato come accade, ad es., nell’interdizione e nell’inabilitazione.

La regola generale della capacità delle persone: la capacità giuridica

Un importante studio dell’università di Padova apre evidenziando come il ruolo delle neuroscienze in campo giuridico, sia nell’area civilistica che in quella penalistica, sia divenuto oramai «ruolo chiave» e come, nelle applicazioni sempre maggiori delle competenze neuroscientifiche, la valutazione della capacità occupi un posto di primaria importanza.
Le scienze cliniche ignorano la distinzione, propria del sistema giuridico, tra capacità giuridica, capacità d’agire e capacità d’intendere e volere e indicano nella capacità il concetto che «definisce una serie di eterogenee abilità funzionali, fisiche e, per quanto ci interessa nel presente documento, psichiche che consentono di svolgere le attività della vita quotidiana, di compiere determinate e specifiche azioni o di prendere particolari decisioni. Dal punto di vista giuridico si considera la capacità psichica con riferimento all’ambito penalistico e civilistico».
Differente è l’approccio del giurista.
Occupandoci di incapacità, molti anni fa, constatavamo come, in materia di capacità delle persone il primo, imprescindibile, approccio sia con la capacità giuridica, la cui comune definizione è di attitudine alla titolarità di diritti e doveri, proprio perché la medesima si configura come la regola. La capacità giuri­dica, infatti, si acquista con il solo evento della nascita (art. 1, c.c.) ed è intrinsecamente collegata al soggetto per tutta la durata della sua esistenza: la semplice qualità umana esprime, per­tanto, una potenzialità infinita, la possibilità, cioè, di essere titolari di situazioni che l’ordinamento giuridico riconosce e tutela, destinatari delle norme e portatori degli interessi che le medesime sottendono. La capacità giuridica è, dunque, «astratto attributo di ogni essere umano» sebbene, pur sempre, qualità promanante dall’ordinamento. Tale ultima necessaria specificazione, mentre priva di qualsiasi elemento di diritto naturale la connotazione del concetto, spiega anche l’enfasi dell’affermazione per la quale l’autonomia della capacità giuridica rispetto alla capacità d’agire «deve considerarsi una definitiva conquista della civiltà e segna un fondamentale progresso degli ordinamenti giuridici moderni rispetto agli ordinamenti primitivi».
Esperienze storiche relativamente recenti, ma concettualmente molto lontane da noi, in cui elementi di natura razziale, politica, religiosa condizionavano l’acquisto della capacità giuridica, subordinandolo all’esistenza di requisiti di medesima natura, esplicitano l’appartenenza al diritto positivo, e non naturale, della capacità giuridica, ma la natura intrinseca del nesso che lega quest’ultima alla persona legittima la identificazione tra capacità e soggettività giuridica: al pari della soggettività, infatti, «la capacità giuridica costituisce un carattere intrinseco del soggetto, una qua­lità che ad esso deriva dal fatto di essere titolare potenziale degli interessi tutelati dal diritto».
L’attitudine alla titolarità di diritti e doveri, in quanto astratto attributo di ogni essere umano, qualità giuridica a priori che si estrinseca nell’essere «antecedente logico dei singoli diritti soggettivi»,finisce col rappresentare, dunque, il nucleo essenziale della personalità valore costi­tuzionalmente garantito e protetto. E’ stato evidenziato al riguardo «come sia prevalente in dottrina la posizione che esaurisce l’una nell’altra le nozioni di capacità giuridica e persona, sicché, essere persona, essere soggetto, avere capacità giuridica sono espressioni sinonimiche».
Il diritto, dunque, immagina e descrive, l’uomo, la mente e il cervello: il legislatore prevede e rappresenta comportamenti umani; ogni comportamento è espressione di una funzione cerebrale.

4. La capacità d’agire

La comune e tradizionale definizione di capacità d’agire come ido­neità a porre in essere «l’attività giuridica che riguarda la sfera di interessi propria della persona» racchiude in sé gli ele­menti che caratterizzano, sotto il profilo dei presupposti, l’isti­tuto, ne articolano il rapporto con la soggettività e la distinguono dalla capacità giuridica.
L’attività giuridica relativa alla sfera di interessi propria di ogni soggetto si sostanzia nell’acquisto e nell’esercizio di dirit­ti e nell’assunzione di obblighi; essa presuppone, pertanto, la maturità psicofisica del soggetto agente e la piena capacità di volere, quella, cioè, che altrettanto tradizionalmente si menziona come «ma­turità sufficiente a valutare la convenienza economica degli atti» compiuti. Proprio questa impostazione per la quale la capaci­tà d’agire si fonda sul presupposto della capacità d’intendere, volere e, quindi, valutare la convenienza economica degli atti posti in essere, ha indotto parte della dottrina ad evidenziare la prospettiva quasi esclusivamente economicistica dello studio della capacità d’agire.
Conferma di ciò si ha, ad es., nella disciplina dell’incapacità naturale dove le norme principali di riferimento si occupano dell’attività negoziale dell’incapace e si focalizzano sulla capacità di apprezzare la portata economica dell’atto posto in essere; ma

«la protezione della dignità dell’uomo e la promozione dello sviluppo della sua personalità (…) trovano precipuo svolgimento nelle situazioni giuridiche soggettive personali, in quelle cioè che garantiscono al singolo la realizzazione dei valori (…). In tale contesto, le situazioni giuridiche patrimoniali vanno ad occupare una posizione strumentale e comunque subalterna rispetto a quella in cui si collocano le situazioni personali (…); s’impone la necessità di ribaltare la prospettiva finora seguita, accordando così primaria importanza al momento esistenziale della persona».

Si evidenziava, dunque, già allora l’esigenza di apertura ad altre prospettive di studio della regolamentazione dei comportamenti umani. In questa direzione il contributo delle scienze cognitive può essere determinante non solo, come si è detto, là dove si tratta di ritagliare la misura di protezione più idonea per l’incapace ma, anche, per assumere e migliorare scelte legislative e orientamenti giurisprudenziali. L’idoneità alla cura dei propri interessi assume valenza giuridica ai fini dell’acquisto della capacità d’agire in un momento preciso e determinato dal legislatore: il raggiungimento della maggiore età (art. 2 c.c.). Tale momento segna, infatti, «un criterio netto di demarcazione», il passaggio dall’inca­pacità alla capacità d’agire.
L’art. 2 c.c. fissa il criterio generale della capacità d’agire per tutti coloro che siano maggiorenni e, contestualmente, pone ecce­zioni alla regola: età diversa può essere stabilita per determinati tipi di atti e, in materia di capacità di lavoro, può essere stabi­lita un’età inferiore; anche il minore può essere abilitato all’esercizio dei diritti dipendenti dal contratto di lavoro. Il raggiungimento della capacità di discernimento, di intendere e di volere che è presuppo­sto della capacità d’agire, è fissato dal legislatore al compimento del diciottesimo anno d’età.
Solo chi ha l’idoneità alla gestione dei propri interessi ha, per il diritto, capacità d’agire, quella forma, cioè, attraverso la quale la sogget­tività giuridica troverebbe il suo normale svolgimento consentendo al soggetto incapace «di uscire dalla mera posizione statica che gli deriva dalla capacità giuridica».
La capacità d’agire si acquista unicamente in presenza di un presupposto di fatto; non ogni uomo, infatti, in quanto tale, è ca­pace di agire; essa può essere limitata, parziale, può esservi inca­pacità d’agire e questa, a sua volta, non essere piena, senza che tali mutamenti snaturino il concetto stesso di capacità e con esso si pongano in una logica antinomia. Legata all’interesse della per­sona che agisce essa è suscettibile di specificazioni corrispondenti ad altrettanti campi nei quali l’agire umano opera per l’esercizio e la tutela dei propri diritti: si parla, così, di capacità negoziale, extranegoziale e di capacità di stare in giudizio, designando la prima l’idoneità del soggetto all’autoregolamentazione dei propri interessi attraverso lo strumento negoziale, sia sotto il profilo attivo sia sotto quello della mera ricezione, la seconda sinteticamente definita come «l’idoneità del soggetto al compimento e alla ricezione degli atti giuridici in senso stretto» ed esprimendo, infine, la capacità processuale la possibilità del sog­getto di esperire in giudizio azioni e di opporre eccezioni a tutela dei propri diritti ed interessi.
Così articolata, la capacità d’agire rappresenta la regola nei va­ri campi in cui essa opera, pur essendo, diversamente dalla capaci­tà giuridica, disciplinata da singole norme che subordinano l’acqui­sto, le modifiche e la perdita a situazioni di fatto: come qualità giuridica, ed indipendentemente dal compimento di alcun atto, si ac­quista col maturare di una determinata situazione corrispondente al raggiungimento di «uno stato psichico di idoneità a intendere e vo­lere», normativamente fissato al raggiungimento della maggio­re età. Si è sottolineato come l’attenzione che il l’ordinamento riserva alla capacità del minore, soprattutto il sistema della legislazione speciale in tema di adozione e di affidamento condiviso, consenta di fuoriuscire dallo schema rigido dell’età per dar rilievo alla capacità, all’inclinazione naturale, senza mai racchiudere, nelle strette maglie di una definizione generale ed astratta, la definizione di capacità «essendo la stessa destinata a modellarsi – per precisa scelta normativa – sulle singole fattispecie concrete, sul singolo minore e sulle sue peculiari caratteristiche». Il che, aggiungiamo noi, può raggiungersi anche, e forse soprattutto, grazie ad indagini comportamentali, studi e strumenti che ci provengono dalle scienze cognitive il cui contributo può apprezzarsi, tangibilmente e immediatamente, nel campo delle incapacità.

5. L’incapacità d’agire (tra uomo e persona)

Alla regola generale della capacità legale d’agire si contrappone l’incapacità cioè «l’inidoneità del soggetto ad assumere comportamenti giuridici validi».
L’incapace di agire è soggetto di diritto e, come tale, potenziale destinatario di effetti giuridi­ci; è titolare di situazioni giuridi­che che non può gestire proprio perché tale condizione implica l’inidoneità ad assumere validamente comportamenti giuridici, ma gli atti eventualmente compiuti producono effetti anche se contestual­mente nasce la possibilità di rimuoverli. L’incapacità d’agi­re trova il suo fondamento nel dato positivo – poiché per l’art. 2 c.c. incapace d’agire è chi, in linea generale, non abbia raggiun­to la maggiore età – e si ricollega essenzial­mente all’incapacità d’intendere e volere.
Incapace d’agire è, in primo luogo, il minore: opera, in questa ipotesi, indipendentemente dalla concreta attitudine alla cura dei propri interessi, una presunzione legale di immaturità psichica e, conseguentemente, di inidoneità a porre validamente in essere com­portamenti giuridicamente rilevanti.
Si tratta di una forma di inca­pacità generale relativa a tutti gli atti leciti ed ai negozi, per i quali la legge non preveda un’età diversa, i cui effetti non possono stabilmente entrare a far parte della sfera giuridico patrimoniale del minore se non attraverso l’istituto della rappresentanza, ove, ovviamente, la natura dell’atto lo consenta. I negozi posti in essere dal minore sono annullabili né questa azione è subordinata alla dimostrazione che l’atto sia pregiudizievole per l’incapace: l’incapacità legale è, infatti, istituto essenzialmente finalizzato alla tutela dell’incapace. Medesima sorte su­biscono gli atti posti in essere dall’interdetto giudiziale sebbene l’istituto, pur essendo ugualmente finalizzato alla tutela dell’in­capace, si fondi non su una presunzione legale di inidoneità alla cura dei propri interessi ma sul presupposto della concreta incapacità di intendere e volere. Accanto a tale forma di incapacità le­gale assoluta, che accomuna, pur nella diversità dei presupposti, il minore e l’interdetto giudiziale, si delinea, nella disciplina civilistica, una forma più attenuata di incapacità, un’incapacità rela­tiva che si sostanzia nella limitata capacità dell’emancipato e dell’inabilitato.
L’emancipazione, che si acquista col matrimonio (art. 390 c.c.), attribuisce al minore una capacità d’agire piena per ciò che concer­ne gli atti di ordinaria amministrazione e gli atti di natura perso­nale, e limitata relativamente agli atti di straordinaria ammini­strazione; questi ultimi necessitano del consenso del curatore e dell’autorizzazione del giudice tutelare o, in alcuni casi, del tri­bunale (art. 394 c.c.).
Ipotesi particolare è quella dell’emancipato autorizzato dal tribu­nale all’esercizio di un’impresa commerciale: in tal caso il minore può compiere da solo tutti gli atti che eccedono l’ordinaria ammini­strazione anche se estranei all’esercizio d’impresa (art. 397 c.c.).
Al di là di quest’ultima, specifica, ipotesi la limitata capacità dell’emancipato determina l’annullabilità degli atti posti in essere senza le formalità prescritte né, ai fini dell’esperimento dell’azione, è richiesto l’ulteriore requisito di un particolare pregiudizio derivante al minore dall’atto.
Il medesimo stato di ridotta capacità d’agire caratterizza la condizione dell’inabilitato, pur essendo, nella sostanza, profondamen­te differenti i presupposti dei due istituti. Mentre con l’emanci­pazione si attribuisce una limitata capacità d’agire a chi non abbia ancora raggiunto, per l’ordinamento, la piena capacità d’intendere e di volere, con l’inabilitazione si dichiara, invece, giudizialmente lo stato di «ridotta capacità di agire della persona maggiorenne che, per le sue condizioni mentali o fisiche, non è pienamente in grado di curare i propri interessi economici». Gli atti dell’inabilitato, così come quelli dell’emancipato, possono essere annullati se compiuti senza le prescritte formalità: anche in questo caso non si richiede l’esistenza di alcun pregiudizio derivante dall’atto all’incapace dichiarato.
Appare evidente come, fatta eccezione per l’amministrazione di sostegno, il legislatore dell’incapacità operi una sorta di «standardizzazione» dell’incapacità o, meglio, delle potenzialità dell’incapace che non riflette il concetto scientifico per il quale «la coscienza e la consapevolezza vanno intese dal punto di vista neuroscientifico, non come una componente statica, ma si inseriscono nel contesto dell’interazione tra funzionamento cognitivo, risposte psicologiche e psicofisiologiche individuali, influenze socio-ambientali e culturali».
Così, in relazione al minore, ci troviamo di fronte ad una condizione di transizione verso l’età adulta caratterizzata da fasce di età a cui corrispondono, in archi temporali limitati, maturità e capacità differenti che variano non solo in funzione dell’età ma anche del sesso. La fase adolescenziale, ad esempio, presenta tratti e periodi differenti a seconda che si tratti di maschi o di femmine; ancora, mentre non sembrano esistere differenze apprezzabili, quanto a maturità, tra un diciottenne e un diciassettenne, notevole, invece, può essere la diversità di un solo anno in una fascia di età più bassa. Tale differenza non esiste, né potrebbe esistere, per l’ordinamento giuridico che non può delineare, in via generale ed astratta, tante capacità quante sono le fasi della maturità. Per l’ordinamento giuridico un ragazzo di diciotto anni raggiunge piena maturità poiché diviene capace di agire; «per la scienza, invece, le facoltà cognitive non si perfezionano al compimento della maggiore età, ma sono ancora in fase di sviluppo e maturazione insieme alle competenze sociali e affettive e alle caratteristiche personologiche, almeno fino ai 20 anni di età (…). Partendo da questo assunto, la valutazione del giovane adulto dovrebbe tener conto di questo importante e oggettivo dato scientifico».
In quanto maggiorenne, il soggetto, anche se diciottenne, ha l’idoneità ad autoregolamentare i propri interessi, quindi capacità decisionali che si traducono in atti giuridicamente validi.
La prospettiva neuroscientifica ci mostra una valutazione della capacità decisionale, attraverso strumenti di indagine neuropsicologica volti a verificare le seguenti funzioni cognitive: a) attenzione, b) memoria, c) funzioni esecutive, d) linguaggio, e) abilità visuo- spaziali. In ogni caso, la valutazione della capacità, in tutte le sue sfaccettature, deve implicare un approccio multidimensionale di tipo neuropsicofisiologico. In tale itinerario la valutazione della capacità segue l’articolato percorso della raccolta di informazioni relative alla storia personale del paziente, della somministrazione di test psicovalutativi, dell’apprezzamento delle singole e specifiche capacità e dell’interpretazione dei risultati.
È di immediata percezione il divario, di percorsi e misure, tra realtà giuridica e prospettiva neuroscientifica, dislivello che si traduce nella rigidità del binomio giuridico capacità/incapacità.
A ben riflettere, però, il divario è meno profondo di quello che sembra e proprio nella disciplina del contratto del minore troviamo un’indicazione per la costruzione di un percorso atto a ridurre il distacco ed integrare il sistema. Il contratto del minore è valido se egli ha occultato con artifizi e raggiri la minore età; l’apprezzamento dell’artifizio e del raggiro altro non è che una valutazione della capacità di discernimento, che nella maggior parte dei casi i minori possiedono, come la prassi evidenzia. Sono di tutta evidenza, ed appartengono oramai all’esperienza comune, gli esempi di acquisti conclusi dai minori in via telematica, utilizzando il computer e la rete, che possono andare da cifre modifiche a cifre (relativamente) consistenti e la cui invalidità è subordinata alla dimostrazione anche di requisiti che concorrono tutti alla dimostrazione dell’assenza (o presenza) della capacità di comprendere la portata economica dell’atto posto in essere.
La standardizzazione operata dal legislatore con l’incapacità legale del minore non rende, almeno nel campo della invalidità del contratto, rappresentazione fedele della realtà della minorità (che va da zero a diciotto anni): altro è, ad es., l’acquisto posto in essere da un ragazzo la cui fascia di età si collochi tra i dieci e i tredici anni, altro è l’acquisto posto in essere da un ragazzo che abbia invece un’età compresa tra i sedici e i diciotto anni. Proprio i risultati degli studi e delle ricerche neuroscientifiche possono dare utili indicazioni per l’elaborazione di modelli più aderenti alla realtà ed idonei a «porre fine alla discordanza tra quanto sancito nelle norme e ciò che si verifica nella prassi».
Con l’amministrazione di sostegno la distanza tra scienza e diritto, piano biologico (livello cognitivo) e piano giuridico (limitata capacità del beneficiario), uomo e persona, è sicuramente minore e la saldatura tra sistema biologico e sistema giuridico è più solida e mostra meno evidente il segno della demarcazione.
L’ordinamento giuridico disegna, dunque, il sistema dell’incapacità legale sia assoluta sia relativa ed esprime, così, istituti volti a tutelare essenzialmente l’incapace, e ciò sia in una fase preventiva, attraverso i meccanismi di prote­zione di cui si è detto, sia in un momento successivo, con la di­sciplina dell’invalidità degli atti compiuti dall’incapace, annulla­bili senza la necessità che siano produttivi di effetti dannosi.
Principi differenti operano in materia di incapacità naturale dove il parallelismo tra neuroscienze e diritto sembra davvero scomparire fino ad arrivare al punto di convergenza.

6. L’incapacità naturale: la disciplina codicistica

In materia di incapacità naturale, il sistema di protezione degli incapaci che il dato positivo ci consente di ricostruire assume una posizione autonoma e del tutto peculiare con caratteristiche sue proprie e affatto differenti dall’incapacità legale, anche nella più ampia diversificazione che la legge istitutiva dell’amministrazione di sostegno (L. 9 gennaio 2004, n. 6) ha realizzato. La norma fondamentale e caratterizzante resta tuttora l’art. 428 c.c. che non ha subito modifiche e che subordina l’annullabilità degli atti e dei contratti dell’incapace naturale alla sussistenza del grave pregiudizio per l’incapace e della concorrente malafede dell’altro contraente; la disposizione, nella formulazione che il testo definitivo del codice civile del 1942 ci ha consegnato, ha segnato in materia di incapacità naturale il punto di evoluzione dell’impianto normativo attuale rispetto a quello previgente. La scelta normativa è indicativa di un sistema giuridico più evoluto che accoglie al suo interno quell’ampia zona che ricomprende situazioni mentali abnormi, dovute ad es. ad alcoolismo, uso di sostanze stupefacenti, deficienze o infermità mentali non abituali che consentono, comunque, stati di lucidità, condizioni di disagio e fragilità mentali che la mutata sensibilità contemporanea ritiene comunque rilevanti ai fini della tutela.
La dialettica tra dottrina e giurisprudenza sul problematico rapporto tra il primo e il secondo comma è indice di una visione economicistica del problema.
L’orientamento della giuri­sprudenza prevalente individua nel dettato dell’art. 428 c.c. due ipotesi differenti e tra loro distinte. Tale posizione trova ampio riscontro in dottrina. Si sostiene, così, che il principio dettato dal primo comma vada riferito esclusivamente agli atti e non ai contratti e che, pertanto, in relazione a questi ultimi l’incapacità di intendere o volere divenga rilevante se ac­compagnata dalla malafede che può, ma solo in via eventuale, risul­tare dal pregiudizio derivato all’incapace non dichiarato, così come può desumersi dalla natura del contratto o altrimenti . Con il primo ed il secondo comma, inoltre, si tutelerebbero interessi diversi e, preci­samente, l’integrità del patrimonio dell’infermo di mente, per ciò che concerne la disciplina dei negozi unilaterali, e la buona fede del terzo nei contratti sicché il grave pregiudizio sarebbe condizione necessaria per l’annullamento dei soli atti unilaterali, dove l’esigenza di tutelare l’affidamento è debole, e non dei contratti, richiedendosi, invece, per questi ultimi, la ma­lafede dell’altro contraente; tale conclusione troverebbe conforto nel tenore letterale della norma che al secondo comma menziona il pregiudizio unicamente come uno degli indici sintomatici della malafede dell’altro contraente.
La contrapposta opinione che individua nel grave pregiudizio per l’incapace un requisito essenziale per l’annullamento anche dei con­tratti e non solo, quindi, degli atti unilaterali, muove da una con­siderazione unitaria della norma e degli interessi ad essa sottesi. Il primo comma dell’art. 428 c.c. esprimerebbe un principio generale, di per se stesso idoneo a disciplinare tutta l’attività giuridicamente rilevante dell’incapace, ma non sufficiente a garantire la tutela dell’altrui affidamento; quest’ultima esigenza verrebbe soddisfatta dalla enunciazione del secondo comma per la quale accanto al pregiudizio si richiede il requi­sito della malafede della controparte, limite, quest’ultimo, all’impugna­tiva posto a tutela dell’altrui affidamento. L’incapace naturale, dunque, verrebbe tutelato solo tamquam laesus costituendo – si è sostenuto – il pregiudizio «la ratio della sanzione di an­nullamento», l’elemento «che consente di verificare una ragione obiettivamente grave che mini profondamente il contenuto dell’atto di autonomia della parte».
Sulla sussistenza del grave pre­giudizio rilevante unitamente alla malafede ai fini dell’annullamen­to del contratto si consolida, dunque, la dottrina che inter­preta il secondo comma dell’art. 428 c.c. come una specificazione del primo e conclude per il cumulo dei due requisiti ai fini dell’annullamento.
La dialettica prospettazione del dubbio interpretativo posto dal rapporto tra il primo e il secondo comma dell’art. 428 c.c. è indicativa di una prospettiva esclusivamente economicistica del problema, alla quale anche chi scrive aveva aderito, che va mutata, perché lontana dai principi costituzionali di tutela della persona; l’art. 428 c.c. necessita, oggi, di una rilettura costituzionalmente orientata, come già proponeva la dottrina che, nell’accogliere la tesi della sufficienza della sola malafede ai fini dell’annullamento anche dei contratti, argomentava come tale soluzione fondasse le basi sul necessario raccordo di questa disposizione con i «valori interferenti» che sono, nella specie, l’art. 32 della Costituzione ed il principio di eguaglianza sostanziale sancito dall’art. 3 cost., entrambi attuativi del più generale dettato costituzionale della solidarietà sociale (art. 2 Cost.).
Quando la norma è nata non c’era ancora la Costituzione, ma la Costituzione era già vigente quando il nostro legislatore, con la legge sull’amministrazione di sostegno, ha rivisitato il titolo XII del libro I del codice non mostrando sensibilità in tal senso: la l. n. 9/ 2004, ha inserito nell’intitolazione del Capo II, Titolo XII, libro I del cod. civ., la locuzione incapacità naturale, integrando l’originaria formulazione ma lasciando invariato l’art. 428 c.c.; si è persa, con ciò, l’occasione di riscrivere la norma alla luce dell’art. 2 cost..
L’incapace è persona, soggetto debole, prima di essere parte contrattuale e il termine incapace nel contesto della disposizione normativa di cui all’art. 428 c.c. non esprime l’essenza del fenomeno della debolezza del soggetto, della sua impossibilità, per diversificate limitazioni psico-fisiche, di partecipare in condizioni di eguaglianza sostanziale alla vita sociale, di svolgere, in condizioni di parità, tutte quelle situazioni soggettive attive che l’ordinamento gli riconosce nelle forme di interesse protetto.
La protezione dell’incapace, del soggetto debole, è pilastro della tutela della persona, nerbo e costrutto fondamentale della categoria dell’essere, ma non sempre è supportata da adeguati strumenti normativi: le neuroscienze cognitive possono fornire contributi fondamentali per la rielaborazione di regole giuridiche che siano reali strumenti di tutela per l’incapace naturale.

7. Lo stato di incapacità naturale: un possibile punto di convergenza

Proprio l’art. 428 rappresenta l’occasione, per la giurisprudenza, per l’affermazione di concetti la cui sistemazione potrebbe avvalersi del contributo, importantissimo, delle neuroscienze cognitive. Così, ad es., e in tema di definizione dello stato di incapacità naturale, emerge che la possibile transitorietà dello stato psichico rappresenta l’elemento costante della definizione di incapacità naturale e, al contempo, il carattere che consente di distinguere l’incapacità na­turale da quella che può dar luogo ad interdizione dove, invece, tale condizione, come emerge dal dato testuale dell’art. 414 c.c., deve avere il requisito dell’abitualità. Più sfumata, invece, sotto il profilo del fatto, la differenza con la situazione psico-fisica che può dar luogo ad amministrazione di sostegno.
L’aggettivo compare anche nella relazione al codice ove si legge che il grado di intensità del vizio di mente «deve essere di tale gravità da togliere la capacità d’intendere e di volere, qualunque ne sia la causa, anche cioè se di carattere transitorio».
La giurisprudenza, utilizzando come sinonimi­che le locuzioni «incapacità di intendere o volere» e «incapacità naturale» ha esplicitato tale condizione come uno stato psichico ab­norme, pur se improvviso e transitorio e non dovuto ad una tipica infermità mentale, che abolisca o scemi notevolmente le facoltà intellettive o volitive, in modo da impedire od ostacolare una seria valutazione degli atti stessi o la formazione di una volontà cosciente, facendo quindi venire meno la capacità di piena autodeterminazione del soggetto e la completa consapevolezza in ordine all’atto che sta per compiere ma non necessariamente tale da annullare le facoltà psichiche del soggetto. È questo l’orientamento attuale, pur con qualche oscillazione dovuta certamente alla natura dell’atto impugnato.
L’ampia gamma di situazioni riconducibili alla nozione di incapacità naturale evidenzia come l’art. 428 c.c. sottintenda una nozione di incapacità più ampia di quella tradizionalmente accolta come incapacità legale. Questa medesima circostanza, per la quale una vasta e diversificata pluralità di situazioni può essere ricompresa nell’ampia dizione della norma, ha indotto parte della dottrina ad interrogarsi sulla portata dell’espressione «incapacità di intendere o volere» e ad orientarsi per un’interpretazione, se non restrittiva, quantomeno limitativa della stessa e riconducibile, sostanzialmente, alle ipotesi di inidoneità all’apprezzamento della portata dell’atto ma non tale da coincidere con l’assenza di un contenuto minimo di volontà. Ulteriore interrogativo che ha caratterizzato il dibattito della dottrina sul punto è quello relativo al valore della disgiuntiva «o» che, nella dizione dell’art. 428 c.c., sembra separare la capacità di intendere da quella di volere. Il rilievo comune per il quale l’incapacità di intendere e di vo­lere, che esprime una situazione del soggetto di incapacità «ad intendere l’importanza e la portata dell’atto e delle sue conseguenze, ed a volere l’atto ed il risultato pratico conseguibile con lo stes­so», può essere dovuta a cause transitorie che non giustifiche­rebbero la perdita della capacità d’agire, si arricchisce di ulteriori connotazioni relative alla sua funzione non solo, secondo alcuni, «viziante, ostativa della volontà» ma tale da determi­nare anomalie nella dichiarazione, come, ad esempio, nel caso di ipnosi o sonnambulismo.
L’osservazione per la quale, comunque, la volontà non può supplire alla menomazione dell’intelligenza e la mancanza di volontà impedisce al soggetto, anche se intelligente, una libera determinazione ha indotto la dottrina a ritenere irrilevante sul piano dell’art. 428 c.c. la distinzione ed a reputare sufficiente, ai fini dell’annullamento dell’atto, che una sola delle due capacità sia menomata, dal momento che entrambe le incapacità, sia singolarmente sia unitamente considerate, non consentono al soggetto di «gerire da sé i propri interessi»; la distinzione, comunque, troverebbe una sua ra­gione d’essere nelle situazioni che, in concreto, possono determi­narsi: nelle tossicodipendenze, ad esempio, alla capacità di inten­dere non corrisponde una parallela capacità di determinarsi all’azione. La giurisprudenza utilizza indifferentemente le due congiunzioni (e/o); le neuroscienze possono dirci se tale impiego indifferenziato sia corretto o meno poiché operano sul piano concreto delle tecniche individualizzate di tutela e non su quello astratto delle categorizzazioni. All’irrilevanza giuridica della distinzione corrisponde una significativa rilevanza della differenza tra capacità di intendere e capacità di volere sotto il profilo cognitivo/decisionale. E l’approccio neuroscientifico è differente.
Studi di neuroscienze cognitive, infatti, fanno emergere il ruolo della sfera affettiva che interagisce con quella della ragione componendo il dialogo tra emotività e razionalità, fondamentale nel processo cognitivo.
Il riconoscimento del ruolo delle emozioni nell’ambito di un percorso raziocinante, e la loro interazione con il pensiero razionale, con il ragionamento, non può essere ignorato dal giurista, interprete o studioso.
Così, la differenza tra la sfera cognitiva e quella volitiva, che in termine giuridici si esprime con la locuzione capacità d’intendere e/o volere – e la cui distinzione è irrilevante sotto il profilo giuridico sicché (in)capacità/ di intendere e/o volere altro non appare essere che un’endiadi – diviene rilevante se riguardata alla luce dei risultati delle neuroscienze cognitive. In molti studi che si occupano del tema e del ruolo delle emozioni nei processi decisionali, sotto diversi profili e con differenti implicazioni, si descrivono i risultati di importanti ricerche ed esperimenti in campo neuroscientifico che hanno dimostrato come ad una perfetta ed integra capacità intellettiva (capacità d’intendere) si correli, talora, una assoluta incapacità di decidere (quindi capacità di volere); tra i casi di studio più noti, vi è il caso Elliot. Il sig. Elliot era affetto da grave patologia tumorale alla corteccia prefrontale e prima di essere sottoposto all’operazione neurochirurgica per la rimozione della lesione fu sottoposto a test cognitivi per stabilire l’integrità delle funzioni cognitive che risultarono integre, sia prima che dopo l’intervento. A seguito dell’intervento, però, e pur avendo mantenuto intatte le capacità intellettive, di attenzione e di memoria, Elliot aveva perso la capacità di provare emozioni; il che ebbe conseguenze rilevanti sotto il profilo economico poiché la mancanza di emozioni, tra le quali il timore di perdere del denaro, lo rendeva indifferente al rischio economico inducendolo a fare investimenti molto rischiosi: era, quindi, capace di volere ma non d’intendere; così, e per esemplificare con riferimento al contratto, pur avendo Elliot la capacità di volere il contratto che si apprestava a concludere non aveva la capacità di valutarne le conseguenze economiche. Esperimenti successivi volti ad evidenziare il ruolo delle emozioni nella decisione razionale mostrarono come soggetti sani sotto il profilo cerebrale (che non avevano subito alcun danno), sottoposti ad esperimenti finalizzati ad individuare e misurare la propensione al rischio nel gioco delle carte, manifestavano comunque, dopo alcuni minuti di gioco e senza l’acquisizione di informazioni ulteriori ma in maniera del tutto esperienziale, un’autonoma capacità di apprezzare la maggiore o minore rischiosità della scelta di una carta. Test simili furono riproposti a soggetti che avevano subito la compromissione della sfera emotiva, dovuta a danni cerebrali nella corteccia prefrontale ventromediale, coinvolta nell’elaborazione del rischio e della paura, e rivelarono che tali soggetti, pur particolarmente intelligenti, sceglievano le carte in maniera totalmente casuale, con indifferenza rispetto alle conseguenze della scelta, dimostrandosi, così, incapaci di decidere. La ricerca, condotta per un ventennio, ha consegnato alla conoscenza un differente ruolo delle emozioni e dei sentimenti che non restano confinate nella sfera del sentire ma sono strumento del capire: le emozioni, dunque, assolvono a una funzione cognitiva insostituibile. La comprensione, pertanto, unita all’emotività determina scelte consapevoli e conseguenti.
Il Memorandum Patavino spiega che a «livello cognitivo, la capacità di agire presuppone che il soggetto abbia capacità decisionale, ciò significa che egli: (I) sia in grado di comprendere, ovvero ritenere, le informazioni a disposizione per poter compiere la scelta; (II) sia in grado di articolare un ragionamento di pro e contro su tale informazione; (III) sia in grado di valutare tale informazione in relazione al suo caso specifico; (IV) sia in grado di esprimere una scelta consapevole».

8. Riflessioni conclusive

La riproposizione delle nozioni sopra esposte, in tema di capacità d’agire, capacità e incapacità naturale, esplicita l’orientamento tradizionale del giurista; l’approccio neuroscientifico può fornire all’interprete una visione più ampia. Mettere in discussione il modello tradizionale dell’uomo razionale può contribuire, paradossalmente, a creare un sistema più razionale, perché più efficiente, che consenta, con nuovi strumenti sofisticati e complessi che richiedono conoscenze e tecniche specialistiche, una tutela sempre più elevata, dell’uomo nella sua complessità.
Così, per tornare al tema della capacità del minore, alla domanda «quando un minorenne diventa effettivamente responsabile delle proprie azioni? Quando acquista la capacità di discernimento?» sembra opportuno rispondere che una corretta impostazione della risposta richiede una preventiva definizione del «quando» ciò accade «neuropsicologicamente» e che cosa debba intendersi per maturità e responsabilità, per capacità d’intendere e di volere.
Ciò agevola sicuramente il passaggio dal diritto alla persona:

«tramontata la visione tradizionale degli status; ridefinita dal progresso medico la nozione di capacità giuridica, l’uomo, svestito della diversità che gli deriva dall’appartenenza ad una determinata categoria, si presenta al cospetto del diritto e ne rivendica la protezione. Ed il diritto, in questa dimensione che non conosce divisioni di razza, di sesso, di cittadinanza, di opinioni politiche, culturali, religiose, indugia e si sofferma sull’emergere delle sue “condizioni personali e sociali” in quanto momenti ineludibili di una tutela che possa e debba dirsi efficace (…). Lungo le coordinate della dignità umana, del libero sviluppo della personalità, del principio di eguaglianza, si svolge così la tutela di chi è debole, svantaggiato, minore, anziano, morente, malato, povero, consumatore (…). Ma è proprio un simile atteggiamento a conferire al diritto quella duttilità che gli consente, da un lato, di rispondere alle istanze di protezione dei “nuovi deboli”; dall’altro di ripensare incessantemente la tutela di quelli tradizionali (…). Se “la persona identifica l’uomo che è, che esiste giuridicamente”, il legislatore non può che seguirne la continua evoluzione (…). Dal diritto, dunque, alla persona».

Dalla persona al «sistema uomo», aggiungiamo noi, sistema, cioè come dimensione globale e totalizzante il cui studio richiede un approccio integrato tra discipline che hanno un comune denominatore: l’uomo e la qualità della sua vita.

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Sul nesso pensiero-essere: Heidegger e Severino di Vittorio Possenti

Abstract: the paper is devoted to Heidegger e la metafisica (1950) by E. Severino and to the radical change that occurred in his position between 1950 and 1994 (second edition). In this upturn remains stable a fundamental point: the identity between thought and being, understood as the methodological basis of metaphysics and as the ultimate result of modern philosophy. In the wake of G. Bontadini, who deemed that the Cartesian and Kantian gap between being and thought have been overcome by idealism, in 1950 Severino believed that the philosophy of the second modernity (idealism) could lead to the resumption of classical metaphysics; and Heidegger thought could be important for this (several years later he dismissed completely his opinion, including Heidegger in the long list of nihilistic philosophers). Apart from that, the main problem consists in understanding the meaning of being-thought identity and the nexus between Logic and Metaphysics.  Classical realism recognizes that we cannot start from the world of logic and ideas, assuming a priori that the rational and the logical is real in itself. Where the unity between thought and being is placed as an obviousness that should not be analysed, insuperable theoretical misunderstandings emerge, that are typical of Hegel, Gentile and the Severino’s neoparmenidism. In fact, the thought of the second modernity does not reopen the path to realism and metaphysics, but closes it without reserve. In this perspective, a primacy of logic over physics occurs, almost as if the latter were a degraded level of logic. It is therefore necessary to resume the path where it has been interrupted, following the philosophy of being with its third navigation. This navigation was opened by the philosophy of being of Aquinas, who carried out a new and fresh conception of being in respect of the second Greek navigation as the discovery of suprasensible cause.

Heidegger e la metafisica (HM) è un volume significativo per la vicenda teoretica di E. Severino, perché scritto in anni in cui egli accoglieva la metafisica classica che poi ripudierà: la metafisica classica «era stata sin dall’inizio il fondamento teorico dell’indagine storica». Sulla scia di Bontadini, Severino riteneva allora che la filosofia della seconda modernità (idealismo), avendo superato il fossato cartesiano e kantiano tra essere e pensiero, potesse condurre alla ripresa della metafisica classica. L’interpretazione severiniana di Heidegger, improntata ad una considerevole «carità ermeneutica», cerca nel 1950 di interpretare il filosofo tedesco come un possibile momento di riapertura di quell’orizzonte metafisico. L’Avvertenza del 1994 stesa per la seconda edizione di HM, lo ammette, sostenendo che l’analisi avrebbe dovuto essere più esigente

Nell’interpretazione di Heidegger in ordine al nesso pensiero-essere l’autore privilegia le posizioni espresse nella Lettera sull’umanismo, in cui la dignità del pensiero sarebbe salvata, rispetto a quelle della fine degli anni ’20 e degli anni ’30 che mandano tutt’altro suono. In effetti il mutamento negli assunti di Heidegger è notevolissimo. Quale sia la posizione finale di Heidegger sul nesso pensiero-essere, supposto che ve sia una, non è chiaro; egli ha parteggiato per un ampio periodo per il dualismo moderno tra pensiero ed essere, e poco dopo in Introduzione alla metafisica (IM) ha colpito l’interpretazione moderno-idealistica della formula parmenidea e la relativa logica, richiamando la primarietà della physis sul logos e il loro intrecciarsi. Ha poi pensato il tema della verità nella forma dell’aletheia, e non anche in quello del giudizio dichiarativo in cui la verità è la adaequatio o conformità tra l’intelletto e il reale.

In Essere e tempo e in altre opere coeve le formule heideggeriane su pensare ed essere ripropongono il dualismo moderno tra pensiero ed essere: «Definendo in Sull’essenza della verità “molto generica e vuota” la determinazione della verità come adaequatio, il filosofo tedesco ha opposto piuttosto che coordinato l’idea di verità come svelatezza a quella come adaequatio». Egli ha ricercato ciò che, rendendo possibile la conformità tra l’intelligenza e l’essere, vale originariamente come l’essenza della verità, senza riuscire a venire in chiaro sul momento antepredicativo quale antefatto necessario della adaequatio giudicativa. Qui il pensiero di Heidegger si trovò impegnato in una lotta decisiva da cui tutto dipende. Si trovò dinanzi un ostacolo senza riuscire a superarlo: il rapporto tra ideale e reale. Il problema fu formulato adeguatamente («come deve essere intesa ontologicamente la relazione tra momento ideale e una semplice presenza reale?»), la soluzione non venne attinta. Alludendo in Essere e tempo con parole altamente rivelative alla «scissione ontologi­camente oscura di reale e ideale» (§44), che rende aggrovigliato il problema dell’adaequatio, egli rimase prigioniero dello sche­ma kantiano della separazione tra pensiero ed essere, tra ideale e reale, in una tarda riedizione del dualismo gnoseologico moderno. Se ciò che rende possibile la conformità o adaequatio giudicativa si manife­sta con un diritto più originario come l’essenza della verità, questo si attua nell’identità intenzionale tra pensiero ed es­sere, che accade nell’apprensione antepredicativa e si realizza nel e col concetto.

In mancanza di questo «ponte», che avrebbe consentito di risol­vere teoreticamente il problema della verità e prima ancora di cogliere la proporzione originaria tra pensiero ed essere e l’intelligibilità di quest’ultimo, il filosofo tedesco sembra aver optato con un supremo atto volontaristico per il cambia­mento del concetto stesso di verità: l’essenza della verità è la libertà, scriverà in Essere e tempo (§ 44) e ribadirà in Sull’es­senza della verità.

Poco tempo dopo in IM l’autore sostiene che non ci si è ancora fatti una sufficiente idea del pensiero il quale sarebbe determinato a partire dalla proposizione e quindi dalla logica come dottrina del pensare; in tal modo attraverso la logica sarebbe andata perduta l’essenza del pensare, ossia l’aletheia. Dinanzi alla formula parmenidea «Ora il pensare e l’essere sono la stessa cosa», il filosofo tedesco osserva che essa è stata fraintesa in maniera clamorosa, per cui il pensiero del soggetto determina ciò che l’essere è: «L’essere non è altro se non ciò che è pensato dal pensiero. Ora siccome il pensare rimane un’attività soggettiva, e pensare ed essere devono secondo Parmenide risultare la medesima cosa, tutto diventa soggettivo». Secondo Heidegger accadono una separazione tra logos e physis e l’orientamento del primo ad esercitare una giurisdizione sull’essere: si mostra il predominio della ratio, che include anche l’intellectus, sull’essere dell’essente.

L’attacco heideggeriano all’intelletto e alla logica.  Nelle opere della fine degli anni ’20 emerge in Heidegger un forte attacco verso la logica, il principio di non contraddizione, la verità apofantica e l’intelletto. Tra le varie formule tratte da Che cos’è metafisica? (WIM) significativa è la seguente: «Ma se nell’ambito del domandare del niente e dell’essere viene così infranto il potere dell’intelletto, allora qui si decide anche il destino del dominio della «Logica» all’interno della filosofia».  Poiché la logica non ha compiuto passi avanti o indietro da Aristotele in poi, «l’unico [passo] ancora possibile è quello di scardinarla (in quanto prospettiva normati­va dell’interpreta­zione dell’essere) dal suo fondamento». Siamo agli antipodi dell’identità tra Logica e Metafisica professata da Hegel e da Gentile. E anche: un pensiero che giri intorno alla totalità «non potrà mai regolarsi su una “logica” che abbia come sua misura l’incontradditorietà». Importante infine un altro testo particolarmente esplicito, in quanto sembra introdurre la contraddizione nel reale: «Dopo la Logica di Hegel non è più immediatamente certo che, dove c’è contraddizione, ciò che si autocontraddice non possa essere reale».

Il Severino del 1950 nota la pericolosità di tale nucleo, osservando inoltre a buon diritto che la polemica di Heidegger contro la nozione di nihil absolutum è «senza senso», dal momento che l’autore si riferisce ad un diverso concetto di nulla; del resto nel «Poscritto» a WIM Heidegger avvertirà che il nulla di cui si dice in WIM non è il nihil absolutum. D’altro canto Severino mira a valorizzare alcune espressioni della Lettera sull’umanismo allo scopo di mantenere aperta la possibilità di trovare una conciliazione del pensiero di Heidegger con la metafisica classica.

Dal punto di vista del nesso pensiero-essere osserverei che, anche tenendo conto delle opere heideggeriane successive al 1950, il realismo classico e la filosofia dell’essere – posizione speculativa in cui mi colloco – non hanno molto da rallegrarsi né da imparare dai vari détours praticati nelle opere suddette. 

La svolta di Heidegger inizia lentamente con gli anni ’30, in cui diventa meno centrale il tema gnoseologico e ancora più importante quello dell’essere secondo eventi in cui l’essere abbandona gli enti, destinati a cadere in preda della tecnica. Il filosofo tedesco opera la svolta tramite un processo finalizzato a pensare «l’uomo in rapporto all’essere», anziché «l’essere in rapporto all’uomo»; si procede quindi all’insegna di una nuova concezione della verità come accadere dell’essere.

Sull’unità originaria di pensiero ed essere

. Il primo e il secondo Severino. Per il Severino del 1950 il «fondamento metodologico» della metafisica era l’unità originaria di pensiero e di essere, in base a cui il pensiero di Heidegger poteva risultare aperto alla metafisica classica (nonostante le non poche «delusioni» in merito per le posizioni espresse in opere degli anni ’20 e ’30). Da tempo questo giudizio è stato molto indurito, per cui nell’Avvertenza del 1994 alla nuova ed. del volume si sostiene che «la vicinanza di Heidegger alla metafisica classica è la vicinanza alla matrice stessa dell’alienazione fondamentale dell’Occidente». Domandiamo però: sussisteva o sussiste tale vicinanza tra ricerca heideggeriana e metafisica classica? Non è in gioco la critica severiniana – scontata dopo la sua svolta – alla metafisica classica e ad Heidegger, ma la loro reale vicinanza, che a mio parere non vi è mai stata.

  Su questo Bontadini aveva colto il tema meglio del suo allievo, scrivendo nella Prefazione alla prima edizione di HM: «La riapertura della metafisica dell’essere non è possibile sullo slancio della speculazione heideggeriana». Nel 1950 Bontadini riteneva con validi motivi che la filosofia heideggeriana non fosse idonea per la ripresa della metafisica classica, e in tal modo, pur apprezzando l’indubbio ingegno filosofico dell’allievo, ne metteva in questione le conclusioni concilianti e l’orizzonte più accomodante. Sembrerebbe che nella II ed. di HM Severino stia riconoscendo implicitamente la validità del giudizio del maestro, e forse in piccola parte può essere così. Ma il cambiamento profondo del giudizio di Severino su Heidegger, che diventa un esponente del nichilismo occidentale, non è dovuto ad un ripensamento puntuale e specifico del testo giovanile, ma ad un evento che concerne la radicale rivoluzione operata da Severino sul suo proprio pensiero, per cui la metafisica classica e l’intera filosofia occidentale sarebbero irrimediabilmente afflitte dal nichilismo, inteso nel senso peculiare dato da Severino a questo termine. Senso che è totalmente diverso da quelli di Heidegger, di Nietzsche e si licet dal mio (su ciò vedi NM). E qui diventa una volta di più necessario richiamare – l’ho fatto molteplici volte – che parlare di nichilismo oggi rischia di non significare più nulla, per cui la babele è la norma, perché il termine è una parola omnibus, un treno da cui si sale e si scende a piacimento.

Ma riprendiamo il filo del discorso. In HM (ed. del 1950) l’autore sosteneva che il risultato essenziale della filosofia moderna fosse l’identità di pensiero ed essere (p. 315), da cui conseguiva la validità della metafisica classica (e tomista) accuratamente distinta dalla moderna filosofia razionalistica (pp. 328 e 329). Nel mutamento radicale di posizione tra il 1950 e il 1994 rimane però un punto fermo nelle istanze di Severino: l’identità tra pensiero ed essere sia come base metodologica della metafisica sia come massimo risultato del pensiero moderno. Conviene approfondire.

In HM si introduce il concetto di puro pensiero come condizione trascendentale non dell’unità tra pensare e pensato, ma della capacità di manifestare l’ente, l’apriori che rende possibile il manifestare. Nello stesso tempo si sostiene che l’essere è ciò che si illumina nel puro pensiero, «ma in modo tale che il suo illuminarsi (manifestarsi) è radicalmente diverso dalla manifestazione dell’ente». «Il puro pensiero è la condizione ontologica del dato, essendo pensiero ed essere la stessa inscindibile unità strutturale dell’ontologicità».

  L’asserto, mentre aiuta a intendere come Severino elabori la sua idea di pensiero e di rapporto con l’essere nel libro su Heidegger, sollecita di contro a illustrare la lezione classico-realista. In ultima istanza la domanda chiede se possiamo seguire Severino nell’asserto che l’attualismo è «l’affermazione più rigorosa dell’unità di pensiero e di essere», perché «fedele all’essenza del pensiero occidentale» ed alla sua metafisica. Queste espressioni dell’autore sono tratte dall’Avvertenza del 1994. A mio parere invece Gentile col suo prassismo in cui l’essere è solo datità morta da negare e oltrepassare in un moto o autoctisi infiniti, è un accanito dissolutore della tradizione metafisica che non è ontotetica ma teoretico-contemplativa.

Ed eccoci al punto cruciale in cui non possiamo seguire Severino nelle sue due affermazioni sull’attualismo e l’essenza del pensiero occidentale. Per procedere non si tratta solo di sostenere l’unità pensiero-essere, accolta e svolta originariamente dalla filosofia dell’essere e dal suo realismo per secoli e ancora oggi; si tratta di pensarla in modo più determinato di quanto accada nel neoparmenidismo severiniano. In secondo luogo cercheremo il motivo per cui nel presentare tale unità Severino si rivolga a Hegel, a Gentile e non alla filosofia dell’essere e al suo realismo.

Indubbiamente essere e pensiero si coappartengono, ma in che modo? Essi si relazionano in modo paritario, o invece nel modo in cui la regia ultima spetti all’essere o viceversa al pensiero? Tutto ciò ha immense implicazioni sul concetto di verità e di realtà. Quest’ultimo muta nel «coscienzialismo» per il quale essere reale significa essere contenuto di una coscienza in generale: si dà quindi una priorità dell’atto di coscienza come fondante sul contenuto come fondato da esso. Qui il disguido inaccettabile è che quando si pensa una realtà, questa che certo risulta immanente al pensiero nell’atto dell’identità intenzionale tra intelletto e res, diventi dipendente dal pensiero e da esso posta o perfino creata.

La lezione del realismo classico

. Che il pensiero non sia separato dall’essere è la coerenza teoretica comune del realismo classico includendovi gli antichi, tra cui maxime Aristotele, nonostante che il termine realismo non fosse allora impiegato. Il pensiero è pensiero dell’essere e l’essere si manifesta nel pensiero: d’accordo.

Il punto di divaricazione è l’idealismo e in specie Hegel, per il quale il recupero della posizione degli antichi, da lui vantata in Scienza della logica contro il dualismo di Kant, è in realtà un capovolgimento, in cui il pensiero prevarica sull’essere reale. Perciò in Hegel e in Gentile l’unità-identità originaria di pensiero ed essere rimane bloccata solo sul piano dell’idealismo con il primato del pensiero sull’essere e del logico sull’ontologico, da cui la tesi «folle» dell’identità tra Logica e Metafisica. A mio parere questa unità-identità non è stata pensata a dovere neanche nel neoparmenidismo.

Sono note le formule hegeliane: il razionale è reale, e il reale è razionale, che nella loro pseudo equivalenza tra pensiero ed essere sostengono invece il primato sostanziale del pensiero e del razionale. Orbene, nessuna delle due formule è solida ed accettabile, perché entrambe presuppongono qualcosa. La prima presuppone che il razionale, ossia il mondo mentale della logica e delle sue secundae intentiones sia ipso facto reale e che l’automovimento logico-apriorico del concetto sia lo sviluppo dell’ente; la seconda formulazione (il reale è razionale) presuppone la cancellazione a priori della prote yle (materia prima) come principio radicale di inintelligibilità (il reale è razionale significa che il reale è pienamente intelligibile). Nel gesto sovrano con cui ci si libera troppo a buon mercato della materia e degli infiniti problemi che essa pone, si trova lo stigma di ogni antico e nuovo idealismo come immaterialismo.

Nell’immanentismo gnoseologico e ontologico la coscienza ha per oggetto se stessa, il proprio contenuto o oggetto di pensiero: le altre cose e l’essere sono compresi solo come contenuti della coscienza. Differentemente dal realismo che prende le mosse dall’ente e che pensa la verità come conformità dello spirito all’essere reale, nella postura di immanenza la coscienza prende le mosse da se stessa e dal suo atto, non dall’essere, onde la verità è la coerenza della coscienza-pensiero con se stesso, come sostiene Kant. Osservo che in tal modo viene corrotta interamente la nozione di verità dichiarativa che non consiste nella suddetta coerenza ma nella adaequatio o conformità tra il giudizio e il reale. Per evitare eccessivi scandali Kant mantiene la determinazione classica di verità, abbassandola però a mera definizione nominale sostituita dalla formula della coerenza.

L’identità razionalistica tra essere e pensiero diventa l’identità tra essere e coscienza. L’essere è solo l’essere dato a una coscienza, esso è il contenuto di una coscienza. L’atto di questa prevale completamente sull’atto dell’ente, nel senso che il secondo diventa un’espressione del primo e l’idea, centrale nella filosofia dell’essere, secondo cui ogni ente esercita in proprio l’actus essendi viene meno, e cede all’atto della coscienza che lo assorbe in sé e non lo riconosce come autonomo e indipendente.

Pensiero ed essere: due livelli. Il pensiero di un soggetto pensante può avere come contenuto e oggetto gli oggetti pensati esaminati in se stessi, come non rinvianti ad altro; oppure può avere come oggetto l’ente concreto, dato nell’intuizione sensibile, da cui l’intelletto astrae i caratteri intelligibili. Il primo momento è la logica, il secondo la conoscenza reale che termina alla cosa-ente, che esiste come tale nella realtà, indipendentemente dal pensiero ed esercitando in proprio l’atto di esistere. La res esiste come oggetto di pensiero nella mente che non può essere mai scisso dalla cosa là fuori; essa stessa detta le condizioni a cui il pensiero deve necessariamente aderire per conoscerla.

Cognitum in actu et cognoscens in actu sunt unum, Severino cita più di una volta nel 1950 questa formula classica, che dichiara l’identità intenzionale tra pensiero ed essere nel concetto. Egli evidenzia a buon diritto che «il pensiero metafisico non deve realizzare l’impossibile compito di raggiungere un essere originariamente separato»; d’altro canto l’unità originaria di pensiero e di essere va compresa e analizzata. Non si può allora in alcun modo concedere quanto scrive Hegel nell’introduzione alla Scienza della logica: «Il pensiero nelle sue determinazioni immanenti e la vera natura delle cose sono un solo e identico contenuto», in cui manifestamente il primato è attribuito alle determinazioni immanenti del pensiero puro o a priori, che pretende di appiopparle alle cose, invece di cercare in esse la loro propria intelligibilità.

Talvolta Severino in HM fa cenno all’altra grande formula del realismo, secondo cui nell’atto della conoscenza accade un fieri aliud in quantum aliud, formula classica di Giovanni di san Tommaso (alias João Poinsot) che raccoglie l’eredità dell’Aquinate in merito. Essa dice che nella conoscenza accade una modalità del divenire in cui noi portiamo in noi stessi nel concetto la forma dell’altro come altro, ossia diverso e distinto da noi. Ma se noi ritenessimo che tutta la luce provenisse dal pensiero o dall’io, l’altro in quanto altro non vi sarebbe e tutto risulterebbe assorbito nell’io; tale è la posizione di Gentile che riporta drasticamente l’altro all’io: solipsismo dell’Io trascendentale di cui gli ‘io empirici’, ossia noi, concreti esseri umani, siamo pallide, contingenti e temporanee rappresentazioni.

Ordine della conoscenza ed ordine dell’essere. Per venire a capo del nesso pensiero-essere occorre introdurre una differenza tra ordine della conoscenza e ordine dell’essere, e con ciò non intendiamo certo distruggere l’identità intenzionale di cui sopra (l’intelletto in atto è i suoi oggetti). L’unità originaria di pensiero ed essere regge se e solo se si riconosce la distinzione appena detta, e si riconosce che non possiamo partire dal mondo della logica e delle idee ritenendo a priori che il razionale, il logico, sia di per sé reale. Due fondamentali considerazioni lo vietano. Dapprima le determinazioni del pensiero non coincidono sempre con le determinazioni dell’essere: è pura follia pensare come reale il nihil absolutum che è solo un ente di ragione, per cui la relazione essere-nulla è meramente pensata e non reale (torneremo tra poco su questo nucleo decisivo).

In secondo luogo è impossibile dimenticare i sensi e la percezione sensibile, a cui Aristotele fa riferimento primario nell’enunciare l’identità di conoscente e conosciuto, poi estrapolata al piano del pensiero: anzi dobbiamo dire che il primo principio della nostra conoscenza è il senso. Il termine raggiunto dall’intelletto – la cosa conosciuta – è altro dall’intelletto, non dipende ontologicamente da questo e specifica la conoscenza dell’intelletto: la luce viene dall’oggetto. Dunque «La conoscenza è un’operazione immanente – la quale procede vitalmente e interamente dalla facoltà, ed è interamente specificata dall’oggetto – nella quale la facoltà, attuando se stessa, è attuata dall’oggetto, intenzionalmente presente in essa nella sua similitudo o species, e che è un’operazione che consiste nel divenire immaterialmente l’altro in quanto tale». Risalta pertanto l’inconsistenza dell’attualismo concernente la pretesa di digerire-dissolvere l’essere entro l’atto puro del pensiero che ponendo se stesso, pone parimenti l’essere.

Essere e nulla. Prima di tirare qualche conclusione è necessario apportare un chiarimento fondamentale su «essere e nulla», tema che attraversa l’intero neoparmenidismo severiniano.

Il nulla (nihil absolutum) come ente di ragione e mera determinazione del pensiero non ha alcun valore di realtà, per cui l’opposizione (relazione) essere-nulla non è reale; affinché essa sia reale, bisogna che entrambi gli estremi lo siano. Pertanto l’assunto del neoparmenidismo severiniano secondo cui tutta la filosofia occidentale, in specie quella greca ma poi anche la successiva, avrebbe pensato il divenire come entrare di qualcosa nel nulla e l’uscire di qualcosa dal nulla, è soltanto un artificio logico senza alcun valore di realtà, e a vero dire un errore primordiale e originario che insidia irrimediabilmente l’interpretazione del pensiero occidentale proposta dall’autore e pone in crisi l’intero sistema.

Niente, ossia nessuna cosa, può entrare nel nulla, né alcuna cosa uscire da sola dal nulla, per il fatto che la relazione essere-nulla è meramente logico-pensata e non reale. Anzi insistere nel considerare tale relazione porta inesorabilmente a rinchiudersi nella logica e a sviluppare un discorso che disegna e prospetta risposte fittizie rispetto alla realtà, con cui si evita ogni confronto o verifica (e per questo il neoparmenidismo di cui diciamo deve – senza dirlo ad alta voce – annientare l’idea di verità come conformità o adaequatio tra il pensiero e l’essere, per sostituirla al seguito di Kant e degli idealisti con l’idea di verità come coerenza del pensiero con se stesso).

L’errore intrinseco al pensare il divenire come entrare-uscire dal nulla sta nel rifiuto neoparmenideo – proprio di Bontadini e di Severino – della materia prima, della potenzialità, della dialettica atto-potenza e della causalità che innesca il passaggio dalla potenza all’atto. Si tratta di un equivoco (ma non il solo) che insidia alla radice la «struttura originaria». La creazione del mondo di cui parla il cristianesimo è creatio ex nihilo sui et subjecti, non è autocreazione del mondo a partire dal niente assoluto, ma creazione a partire dall’esse ipsum per se subsistens.

Se l’opposizione essere-nulla non è reale, per cui nessun ente può andare nel nulla né uscire dal nulla da solo, e d’altronde l’analisi dell’apparire e dell’esperienza conferma che la foglia che cambia colore non va nel nulla ma si trasforma, allora deve esservi una disposizione intrinseca alla foglia a mutare il colore (potenzialità) e una causa di tale trasformazione. È vero che il Tutto non si mostra tutto insieme, ma la conoscenza reale di sue parti può essere ferma e stabile.

La pura identità idealistica e severiniana tra essere, pensiero e verità non può essere accolta senza beneficio d’inventario. Il rapporto originario è quello tra pensiero ed essere, poiché l’intelletto è facoltà dell’essere; non è invece originario il rapporto pensiero-verità, poiché la verità dell’essere richiede la conoscenza reale dell’essere. Anzi qui si cela un errore già segnalato, ossia la primazia assoluta del pensiero logico sull’essere reale onde il pensiero è a priori vero, e non intende apprendere nulla dall’essere reale e dall’astrazione dell’intelligibile dal sensibile.

Quanto alla caduta degli immutabili, ossia la negazione della verità stabile e dell’episteme, molte volte ricordata dal neoparmenidismo di cui diciamo, ciò è perlopiù vero per numerosi aspetti del pensiero moderno (non certo per tutti) che tendono a puntare sul divenire come verità originaria, ma non è vero per la filosofia dell’essere ed altre filosofie che mantengono come non rinunciabile la realtà e la stabilità di verità eterne.

Conclusioni

A) Là dove l’unità tra pensiero ed essere è posta come un’ovvietà che non andrebbe analizzata, emergono equivoci teoretici inaggirabili propri di Hegel, Gentile e del neoparmenidismo: 1) nel primato indifferenziato del (puro) pensiero scompare l’astrazione dell’intelligibile dal sensibile, ossia il modo con cui opera l’intelletto umano, onde rifiutare l’astrazione significa rifiutare la condizione umana. 2) inoltre viene negletta la materia (e la prote yle) che sono il correlato della percezione sensibile. Questa non coglie solo la pura forma ma anche la materia dell’oggetto sensibile, dati insieme nel sinolo materia-forma che va analizzato, e non pensato come una sorta di sintesi a priori operata dalla mente. La filosofia dell’essere diffida profondamente della sintesi a priori kantiana, evocata e impiegata lungamente dall’attualismo per mettere fuori gioco in un sol colpo l’analisi del reale. L’irrilevanza della materia quale correlato della percezione sensibile e radicale principio di inintelligibilità, comporta che il sistema approdi al formalismo assoluto (tipico il caso di Gentile), in cui la materia scompare e vive solo la forma logica, e al razionalismo assoluto, dove l’essere è completamente trasparente al pensiero. 3) Conseguentemente il pensiero (il razionalismo assoluto) ritiene di esaurire il reale e congeda il mistero; 4) lasciare da parte il principio sensibile e non verificare gli esiti della teoresi sul reale implica il rischio di costruire mondi quali mai si videro, addentrandosi nell’abbaglio dell’edificazione-invenzione logica del mondo. 

B) Dalla filosofia della seconda modernità (sostanzialmente l’idealismo) alla metafisica classica era il cammino per il primo Severino che contava così su un doppio recupero: dell’idealismo e della metafisica classica. L’autore ha abbandonato da tempo il progetto che a mio parere era in sé infondato: il pensiero della seconda modernità non riapre la strada alla metafisica (dell’essere) ma la chiude senza riserve, perché in esso l’oblio dell’essere reale è massimo, e il logico primeggia sull’ontologico. Accade un primato del logico sul fisico, quasi che quest’ultimo sia soltanto un livello degradato del logico. Bisogna dunque riprendere il cammino là dove esso si è interrotto e con la filosofia che lo aveva condotto al suo più alto sviluppo, ossia la filosofia dell’essere con la sua terza navigazione. In essa la partenza non è la struttura (originaria) del sapere ossia il trascendentale verum, ma il trascendentale ens. L’inversione tra i due trascendentali per cui all’inizio non sta l’ens ma il verum rappresenta uno dei più tragici equivoci di buona parte della modernità filosofica, che comporta un manifesto oblio dell’essere e la difficoltà di raggiungere una accettabile nozione di verità. Un punto apicale di tale equivoco è raggiunto nel Sistema dell’idealismo trascendentale di Schelling (1800), in cui addirittura l’essere è dedotto dal verum.

Intendo per terza navigazione una prospettiva o dottrina metafisica più alta e compiuta di quella sorta dalla seconda navigazione platonico-ellenica consistente nella scoperta della causa soprasensibile. Tale nuova e ulteriore navigazione (filosofica, non ipso facto religiosa) è stata formulata nell’atto inaugurale di san Tommaso d’Aquino, che l’ha espressa in nitidi canoni in cui viene conservata l’eredità greca e insieme trascesa in un sapere più alto (su ciò vedi NM). In ciò si consolida una scansione ternaria della vicenda della metafisica dagli albori in avanti, che viene tratteggiata dall’Aquinate in un celebre brano.

La tradizione della filosofia dell’essere e la relativa metafisica riemergono alla conclusione del ciclo della filosofia moderna più vigorose e forti, lasciando dietro le spalle Nietzsche, Heidegger, Cartesio, Kant e altre scuole. Nella nuova epoca filosofica postmoderna che si è aperta da tempo, il grande bisogno sta nel ritrovare una metafisica di trascendenza e la filosofia dell’essere è idonea per questo compito. Essa è in grado di superare il nichilismo, di porre la questione della tecnica nel modo che le compete, di raggiungere una conoscenza reale del reale. E con la sua stessa esistenza in atto mostra l’inconsistenza delle tesi corrive sulla fine della metafisica, sul suo oltrepassamento, sul nichilismo che sarebbe proprio di tutto il pensiero occidentale.

Annesso: comprensione dell’essere e dell’ente in Heidegger. La comprensione dell’essere è per Heidegger il fondamento della comprensione dell’ente, per cui senza la prima non accade la seconda (l’essere è l’orizzonte entro cui appaiono gli enti). Per la filosofia dell’essere accade diversamente: la percezione, comprensione e l’analisi dell’ente sono alla base della comprensione dell’essere. L’oggetto della metafisica è l’ente in quanto ente, non l’essere in quanto essere dove l’essere è un astratto indeterminato e un’attività, non un soggetto-sostanza. L’essere dell’ente non è altro che l’esse/actus essendi dell’ente, e non l’esse ipsum

«L’essere è e si mostra [west] senza l’ente», dice Heidegger e diventa arduo  seguirlo, tanto più che in Essere e tempo si legge invece: «L’essere è sempre l’essere di un ente» (n. 3). L’essere non è il nulla dell’ente, come vuole Heidegger, ma l’attuazione dell’ente, l’atto dell’ente. L’ente è l’universale concreto, e in esso conosco l’essere che attiva l’ente ed è suo proprio, e successivamente per inferenza l’esse ipsum per se subsistens; ma in partenza l’ente non è separato dall’essere, e l’essere dell’ente non è esterno e trascendente rispetto all’ente. Si potrà pensare l’essere come ciò che rende possibile il manifestarsi fenomenologico dell’ente, ma a livello ontologico l’essere dovrà essere pensato come ciò che fa essere l’ente con la sua propria essenza. Pertanto non è la comprensione previa dell’essere in generale a dischiudere quella dell’ente.

Essere (come essere dell’ente o actus essendi) ed ente sono in connessione e si appartengono reciprocamente, ma in che modo? Sono sullo stesso livello? Oppure l’esse è l’atto che fa essere l’ente? Nell’appartenenza tra esse ed ens vi è un prius radicalmente esistenziale che è l’esse. Il Sein heideggeriano è in rapporto all’ente e non sua attuazione o posizione dell’essere: il Sein è fenomenologico, è orizzonte dell’apparire che non esprime alcuna attuazione dell’ente nel rapporto incrociato tra esse ed ens.

Dietro la polarità heideggeriana essere-ente occhieggia la polarità essere-nulla intesa in modo peculiare, ossia tensione tra essere che appare e si presenta ed essere che scompare e si nega, dunque un nulla fenomenologico (ciò che al momento non appare), e in cui il nientificare è solo un uscire dall’apparire.

Nella filosofia dell’essere il nesso o se si vuole la «dialettica» (termine qui usato in un’accezione per nulla hegeliana) ens-essentia-esse è quella primaria che svetta su tutte le altre e che chiama in causa le nozioni fondamentali di atto e potenza. Non è dunque una dialettica pensata ma reale nella coimplicazione di essere-actus essendi ed essenza, in cui l’atto sta dalla parte dell’esse e la potenza dal lato dell’essenza. Questa «coarta» secondo la sua formalità l’atto che l’attiva e la fa essere.

In sostanza sull’ente, sull’essere e la differenza ontologica le soluzioni della filosofia dell’essere risultano più profonde e decisive di quelle di Heidegger.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

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