Sul nesso pensiero-essere: Heidegger e Severino di Vittorio Possenti

Abstract: the paper is devoted to Heidegger e la metafisica (1950) by E. Severino and to the radical change that occurred in his position between 1950 and 1994 (second edition). In this upturn remains stable a fundamental point: the identity between thought and being, understood as the methodological basis of metaphysics and as the ultimate result of modern philosophy. In the wake of G. Bontadini, who deemed that the Cartesian and Kantian gap between being and thought have been overcome by idealism, in 1950 Severino believed that the philosophy of the second modernity (idealism) could lead to the resumption of classical metaphysics; and Heidegger thought could be important for this (several years later he dismissed completely his opinion, including Heidegger in the long list of nihilistic philosophers). Apart from that, the main problem consists in understanding the meaning of being-thought identity and the nexus between Logic and Metaphysics.  Classical realism recognizes that we cannot start from the world of logic and ideas, assuming a priori that the rational and the logical is real in itself. Where the unity between thought and being is placed as an obviousness that should not be analysed, insuperable theoretical misunderstandings emerge, that are typical of Hegel, Gentile and the Severino’s neoparmenidism. In fact, the thought of the second modernity does not reopen the path to realism and metaphysics, but closes it without reserve. In this perspective, a primacy of logic over physics occurs, almost as if the latter were a degraded level of logic. It is therefore necessary to resume the path where it has been interrupted, following the philosophy of being with its third navigation. This navigation was opened by the philosophy of being of Aquinas, who carried out a new and fresh conception of being in respect of the second Greek navigation as the discovery of suprasensible cause.

Heidegger e la metafisica (HM) è un volume significativo per la vicenda teoretica di E. Severino, perché scritto in anni in cui egli accoglieva la metafisica classica che poi ripudierà: la metafisica classica «era stata sin dall’inizio il fondamento teorico dell’indagine storica». Sulla scia di Bontadini, Severino riteneva allora che la filosofia della seconda modernità (idealismo), avendo superato il fossato cartesiano e kantiano tra essere e pensiero, potesse condurre alla ripresa della metafisica classica. L’interpretazione severiniana di Heidegger, improntata ad una considerevole «carità ermeneutica», cerca nel 1950 di interpretare il filosofo tedesco come un possibile momento di riapertura di quell’orizzonte metafisico. L’Avvertenza del 1994 stesa per la seconda edizione di HM, lo ammette, sostenendo che l’analisi avrebbe dovuto essere più esigente

Nell’interpretazione di Heidegger in ordine al nesso pensiero-essere l’autore privilegia le posizioni espresse nella Lettera sull’umanismo, in cui la dignità del pensiero sarebbe salvata, rispetto a quelle della fine degli anni ’20 e degli anni ’30 che mandano tutt’altro suono. In effetti il mutamento negli assunti di Heidegger è notevolissimo. Quale sia la posizione finale di Heidegger sul nesso pensiero-essere, supposto che ve sia una, non è chiaro; egli ha parteggiato per un ampio periodo per il dualismo moderno tra pensiero ed essere, e poco dopo in Introduzione alla metafisica (IM) ha colpito l’interpretazione moderno-idealistica della formula parmenidea e la relativa logica, richiamando la primarietà della physis sul logos e il loro intrecciarsi. Ha poi pensato il tema della verità nella forma dell’aletheia, e non anche in quello del giudizio dichiarativo in cui la verità è la adaequatio o conformità tra l’intelletto e il reale.

In Essere e tempo e in altre opere coeve le formule heideggeriane su pensare ed essere ripropongono il dualismo moderno tra pensiero ed essere: «Definendo in Sull’essenza della verità “molto generica e vuota” la determinazione della verità come adaequatio, il filosofo tedesco ha opposto piuttosto che coordinato l’idea di verità come svelatezza a quella come adaequatio». Egli ha ricercato ciò che, rendendo possibile la conformità tra l’intelligenza e l’essere, vale originariamente come l’essenza della verità, senza riuscire a venire in chiaro sul momento antepredicativo quale antefatto necessario della adaequatio giudicativa. Qui il pensiero di Heidegger si trovò impegnato in una lotta decisiva da cui tutto dipende. Si trovò dinanzi un ostacolo senza riuscire a superarlo: il rapporto tra ideale e reale. Il problema fu formulato adeguatamente («come deve essere intesa ontologicamente la relazione tra momento ideale e una semplice presenza reale?»), la soluzione non venne attinta. Alludendo in Essere e tempo con parole altamente rivelative alla «scissione ontologi­camente oscura di reale e ideale» (§44), che rende aggrovigliato il problema dell’adaequatio, egli rimase prigioniero dello sche­ma kantiano della separazione tra pensiero ed essere, tra ideale e reale, in una tarda riedizione del dualismo gnoseologico moderno. Se ciò che rende possibile la conformità o adaequatio giudicativa si manife­sta con un diritto più originario come l’essenza della verità, questo si attua nell’identità intenzionale tra pensiero ed es­sere, che accade nell’apprensione antepredicativa e si realizza nel e col concetto.

In mancanza di questo «ponte», che avrebbe consentito di risol­vere teoreticamente il problema della verità e prima ancora di cogliere la proporzione originaria tra pensiero ed essere e l’intelligibilità di quest’ultimo, il filosofo tedesco sembra aver optato con un supremo atto volontaristico per il cambia­mento del concetto stesso di verità: l’essenza della verità è la libertà, scriverà in Essere e tempo (§ 44) e ribadirà in Sull’es­senza della verità.

Poco tempo dopo in IM l’autore sostiene che non ci si è ancora fatti una sufficiente idea del pensiero il quale sarebbe determinato a partire dalla proposizione e quindi dalla logica come dottrina del pensare; in tal modo attraverso la logica sarebbe andata perduta l’essenza del pensare, ossia l’aletheia. Dinanzi alla formula parmenidea «Ora il pensare e l’essere sono la stessa cosa», il filosofo tedesco osserva che essa è stata fraintesa in maniera clamorosa, per cui il pensiero del soggetto determina ciò che l’essere è: «L’essere non è altro se non ciò che è pensato dal pensiero. Ora siccome il pensare rimane un’attività soggettiva, e pensare ed essere devono secondo Parmenide risultare la medesima cosa, tutto diventa soggettivo». Secondo Heidegger accadono una separazione tra logos e physis e l’orientamento del primo ad esercitare una giurisdizione sull’essere: si mostra il predominio della ratio, che include anche l’intellectus, sull’essere dell’essente.

L’attacco heideggeriano all’intelletto e alla logica.  Nelle opere della fine degli anni ’20 emerge in Heidegger un forte attacco verso la logica, il principio di non contraddizione, la verità apofantica e l’intelletto. Tra le varie formule tratte da Che cos’è metafisica? (WIM) significativa è la seguente: «Ma se nell’ambito del domandare del niente e dell’essere viene così infranto il potere dell’intelletto, allora qui si decide anche il destino del dominio della «Logica» all’interno della filosofia».  Poiché la logica non ha compiuto passi avanti o indietro da Aristotele in poi, «l’unico [passo] ancora possibile è quello di scardinarla (in quanto prospettiva normati­va dell’interpreta­zione dell’essere) dal suo fondamento». Siamo agli antipodi dell’identità tra Logica e Metafisica professata da Hegel e da Gentile. E anche: un pensiero che giri intorno alla totalità «non potrà mai regolarsi su una “logica” che abbia come sua misura l’incontradditorietà». Importante infine un altro testo particolarmente esplicito, in quanto sembra introdurre la contraddizione nel reale: «Dopo la Logica di Hegel non è più immediatamente certo che, dove c’è contraddizione, ciò che si autocontraddice non possa essere reale».

Il Severino del 1950 nota la pericolosità di tale nucleo, osservando inoltre a buon diritto che la polemica di Heidegger contro la nozione di nihil absolutum è «senza senso», dal momento che l’autore si riferisce ad un diverso concetto di nulla; del resto nel «Poscritto» a WIM Heidegger avvertirà che il nulla di cui si dice in WIM non è il nihil absolutum. D’altro canto Severino mira a valorizzare alcune espressioni della Lettera sull’umanismo allo scopo di mantenere aperta la possibilità di trovare una conciliazione del pensiero di Heidegger con la metafisica classica.

Dal punto di vista del nesso pensiero-essere osserverei che, anche tenendo conto delle opere heideggeriane successive al 1950, il realismo classico e la filosofia dell’essere – posizione speculativa in cui mi colloco – non hanno molto da rallegrarsi né da imparare dai vari détours praticati nelle opere suddette. 

La svolta di Heidegger inizia lentamente con gli anni ’30, in cui diventa meno centrale il tema gnoseologico e ancora più importante quello dell’essere secondo eventi in cui l’essere abbandona gli enti, destinati a cadere in preda della tecnica. Il filosofo tedesco opera la svolta tramite un processo finalizzato a pensare «l’uomo in rapporto all’essere», anziché «l’essere in rapporto all’uomo»; si procede quindi all’insegna di una nuova concezione della verità come accadere dell’essere.

Sull’unità originaria di pensiero ed essere

. Il primo e il secondo Severino. Per il Severino del 1950 il «fondamento metodologico» della metafisica era l’unità originaria di pensiero e di essere, in base a cui il pensiero di Heidegger poteva risultare aperto alla metafisica classica (nonostante le non poche «delusioni» in merito per le posizioni espresse in opere degli anni ’20 e ’30). Da tempo questo giudizio è stato molto indurito, per cui nell’Avvertenza del 1994 alla nuova ed. del volume si sostiene che «la vicinanza di Heidegger alla metafisica classica è la vicinanza alla matrice stessa dell’alienazione fondamentale dell’Occidente». Domandiamo però: sussisteva o sussiste tale vicinanza tra ricerca heideggeriana e metafisica classica? Non è in gioco la critica severiniana – scontata dopo la sua svolta – alla metafisica classica e ad Heidegger, ma la loro reale vicinanza, che a mio parere non vi è mai stata.

  Su questo Bontadini aveva colto il tema meglio del suo allievo, scrivendo nella Prefazione alla prima edizione di HM: «La riapertura della metafisica dell’essere non è possibile sullo slancio della speculazione heideggeriana». Nel 1950 Bontadini riteneva con validi motivi che la filosofia heideggeriana non fosse idonea per la ripresa della metafisica classica, e in tal modo, pur apprezzando l’indubbio ingegno filosofico dell’allievo, ne metteva in questione le conclusioni concilianti e l’orizzonte più accomodante. Sembrerebbe che nella II ed. di HM Severino stia riconoscendo implicitamente la validità del giudizio del maestro, e forse in piccola parte può essere così. Ma il cambiamento profondo del giudizio di Severino su Heidegger, che diventa un esponente del nichilismo occidentale, non è dovuto ad un ripensamento puntuale e specifico del testo giovanile, ma ad un evento che concerne la radicale rivoluzione operata da Severino sul suo proprio pensiero, per cui la metafisica classica e l’intera filosofia occidentale sarebbero irrimediabilmente afflitte dal nichilismo, inteso nel senso peculiare dato da Severino a questo termine. Senso che è totalmente diverso da quelli di Heidegger, di Nietzsche e si licet dal mio (su ciò vedi NM). E qui diventa una volta di più necessario richiamare – l’ho fatto molteplici volte – che parlare di nichilismo oggi rischia di non significare più nulla, per cui la babele è la norma, perché il termine è una parola omnibus, un treno da cui si sale e si scende a piacimento.

Ma riprendiamo il filo del discorso. In HM (ed. del 1950) l’autore sosteneva che il risultato essenziale della filosofia moderna fosse l’identità di pensiero ed essere (p. 315), da cui conseguiva la validità della metafisica classica (e tomista) accuratamente distinta dalla moderna filosofia razionalistica (pp. 328 e 329). Nel mutamento radicale di posizione tra il 1950 e il 1994 rimane però un punto fermo nelle istanze di Severino: l’identità tra pensiero ed essere sia come base metodologica della metafisica sia come massimo risultato del pensiero moderno. Conviene approfondire.

In HM si introduce il concetto di puro pensiero come condizione trascendentale non dell’unità tra pensare e pensato, ma della capacità di manifestare l’ente, l’apriori che rende possibile il manifestare. Nello stesso tempo si sostiene che l’essere è ciò che si illumina nel puro pensiero, «ma in modo tale che il suo illuminarsi (manifestarsi) è radicalmente diverso dalla manifestazione dell’ente». «Il puro pensiero è la condizione ontologica del dato, essendo pensiero ed essere la stessa inscindibile unità strutturale dell’ontologicità».

  L’asserto, mentre aiuta a intendere come Severino elabori la sua idea di pensiero e di rapporto con l’essere nel libro su Heidegger, sollecita di contro a illustrare la lezione classico-realista. In ultima istanza la domanda chiede se possiamo seguire Severino nell’asserto che l’attualismo è «l’affermazione più rigorosa dell’unità di pensiero e di essere», perché «fedele all’essenza del pensiero occidentale» ed alla sua metafisica. Queste espressioni dell’autore sono tratte dall’Avvertenza del 1994. A mio parere invece Gentile col suo prassismo in cui l’essere è solo datità morta da negare e oltrepassare in un moto o autoctisi infiniti, è un accanito dissolutore della tradizione metafisica che non è ontotetica ma teoretico-contemplativa.

Ed eccoci al punto cruciale in cui non possiamo seguire Severino nelle sue due affermazioni sull’attualismo e l’essenza del pensiero occidentale. Per procedere non si tratta solo di sostenere l’unità pensiero-essere, accolta e svolta originariamente dalla filosofia dell’essere e dal suo realismo per secoli e ancora oggi; si tratta di pensarla in modo più determinato di quanto accada nel neoparmenidismo severiniano. In secondo luogo cercheremo il motivo per cui nel presentare tale unità Severino si rivolga a Hegel, a Gentile e non alla filosofia dell’essere e al suo realismo.

Indubbiamente essere e pensiero si coappartengono, ma in che modo? Essi si relazionano in modo paritario, o invece nel modo in cui la regia ultima spetti all’essere o viceversa al pensiero? Tutto ciò ha immense implicazioni sul concetto di verità e di realtà. Quest’ultimo muta nel «coscienzialismo» per il quale essere reale significa essere contenuto di una coscienza in generale: si dà quindi una priorità dell’atto di coscienza come fondante sul contenuto come fondato da esso. Qui il disguido inaccettabile è che quando si pensa una realtà, questa che certo risulta immanente al pensiero nell’atto dell’identità intenzionale tra intelletto e res, diventi dipendente dal pensiero e da esso posta o perfino creata.

La lezione del realismo classico

. Che il pensiero non sia separato dall’essere è la coerenza teoretica comune del realismo classico includendovi gli antichi, tra cui maxime Aristotele, nonostante che il termine realismo non fosse allora impiegato. Il pensiero è pensiero dell’essere e l’essere si manifesta nel pensiero: d’accordo.

Il punto di divaricazione è l’idealismo e in specie Hegel, per il quale il recupero della posizione degli antichi, da lui vantata in Scienza della logica contro il dualismo di Kant, è in realtà un capovolgimento, in cui il pensiero prevarica sull’essere reale. Perciò in Hegel e in Gentile l’unità-identità originaria di pensiero ed essere rimane bloccata solo sul piano dell’idealismo con il primato del pensiero sull’essere e del logico sull’ontologico, da cui la tesi «folle» dell’identità tra Logica e Metafisica. A mio parere questa unità-identità non è stata pensata a dovere neanche nel neoparmenidismo.

Sono note le formule hegeliane: il razionale è reale, e il reale è razionale, che nella loro pseudo equivalenza tra pensiero ed essere sostengono invece il primato sostanziale del pensiero e del razionale. Orbene, nessuna delle due formule è solida ed accettabile, perché entrambe presuppongono qualcosa. La prima presuppone che il razionale, ossia il mondo mentale della logica e delle sue secundae intentiones sia ipso facto reale e che l’automovimento logico-apriorico del concetto sia lo sviluppo dell’ente; la seconda formulazione (il reale è razionale) presuppone la cancellazione a priori della prote yle (materia prima) come principio radicale di inintelligibilità (il reale è razionale significa che il reale è pienamente intelligibile). Nel gesto sovrano con cui ci si libera troppo a buon mercato della materia e degli infiniti problemi che essa pone, si trova lo stigma di ogni antico e nuovo idealismo come immaterialismo.

Nell’immanentismo gnoseologico e ontologico la coscienza ha per oggetto se stessa, il proprio contenuto o oggetto di pensiero: le altre cose e l’essere sono compresi solo come contenuti della coscienza. Differentemente dal realismo che prende le mosse dall’ente e che pensa la verità come conformità dello spirito all’essere reale, nella postura di immanenza la coscienza prende le mosse da se stessa e dal suo atto, non dall’essere, onde la verità è la coerenza della coscienza-pensiero con se stesso, come sostiene Kant. Osservo che in tal modo viene corrotta interamente la nozione di verità dichiarativa che non consiste nella suddetta coerenza ma nella adaequatio o conformità tra il giudizio e il reale. Per evitare eccessivi scandali Kant mantiene la determinazione classica di verità, abbassandola però a mera definizione nominale sostituita dalla formula della coerenza.

L’identità razionalistica tra essere e pensiero diventa l’identità tra essere e coscienza. L’essere è solo l’essere dato a una coscienza, esso è il contenuto di una coscienza. L’atto di questa prevale completamente sull’atto dell’ente, nel senso che il secondo diventa un’espressione del primo e l’idea, centrale nella filosofia dell’essere, secondo cui ogni ente esercita in proprio l’actus essendi viene meno, e cede all’atto della coscienza che lo assorbe in sé e non lo riconosce come autonomo e indipendente.

Pensiero ed essere: due livelli. Il pensiero di un soggetto pensante può avere come contenuto e oggetto gli oggetti pensati esaminati in se stessi, come non rinvianti ad altro; oppure può avere come oggetto l’ente concreto, dato nell’intuizione sensibile, da cui l’intelletto astrae i caratteri intelligibili. Il primo momento è la logica, il secondo la conoscenza reale che termina alla cosa-ente, che esiste come tale nella realtà, indipendentemente dal pensiero ed esercitando in proprio l’atto di esistere. La res esiste come oggetto di pensiero nella mente che non può essere mai scisso dalla cosa là fuori; essa stessa detta le condizioni a cui il pensiero deve necessariamente aderire per conoscerla.

Cognitum in actu et cognoscens in actu sunt unum, Severino cita più di una volta nel 1950 questa formula classica, che dichiara l’identità intenzionale tra pensiero ed essere nel concetto. Egli evidenzia a buon diritto che «il pensiero metafisico non deve realizzare l’impossibile compito di raggiungere un essere originariamente separato»; d’altro canto l’unità originaria di pensiero e di essere va compresa e analizzata. Non si può allora in alcun modo concedere quanto scrive Hegel nell’introduzione alla Scienza della logica: «Il pensiero nelle sue determinazioni immanenti e la vera natura delle cose sono un solo e identico contenuto», in cui manifestamente il primato è attribuito alle determinazioni immanenti del pensiero puro o a priori, che pretende di appiopparle alle cose, invece di cercare in esse la loro propria intelligibilità.

Talvolta Severino in HM fa cenno all’altra grande formula del realismo, secondo cui nell’atto della conoscenza accade un fieri aliud in quantum aliud, formula classica di Giovanni di san Tommaso (alias João Poinsot) che raccoglie l’eredità dell’Aquinate in merito. Essa dice che nella conoscenza accade una modalità del divenire in cui noi portiamo in noi stessi nel concetto la forma dell’altro come altro, ossia diverso e distinto da noi. Ma se noi ritenessimo che tutta la luce provenisse dal pensiero o dall’io, l’altro in quanto altro non vi sarebbe e tutto risulterebbe assorbito nell’io; tale è la posizione di Gentile che riporta drasticamente l’altro all’io: solipsismo dell’Io trascendentale di cui gli ‘io empirici’, ossia noi, concreti esseri umani, siamo pallide, contingenti e temporanee rappresentazioni.

Ordine della conoscenza ed ordine dell’essere. Per venire a capo del nesso pensiero-essere occorre introdurre una differenza tra ordine della conoscenza e ordine dell’essere, e con ciò non intendiamo certo distruggere l’identità intenzionale di cui sopra (l’intelletto in atto è i suoi oggetti). L’unità originaria di pensiero ed essere regge se e solo se si riconosce la distinzione appena detta, e si riconosce che non possiamo partire dal mondo della logica e delle idee ritenendo a priori che il razionale, il logico, sia di per sé reale. Due fondamentali considerazioni lo vietano. Dapprima le determinazioni del pensiero non coincidono sempre con le determinazioni dell’essere: è pura follia pensare come reale il nihil absolutum che è solo un ente di ragione, per cui la relazione essere-nulla è meramente pensata e non reale (torneremo tra poco su questo nucleo decisivo).

In secondo luogo è impossibile dimenticare i sensi e la percezione sensibile, a cui Aristotele fa riferimento primario nell’enunciare l’identità di conoscente e conosciuto, poi estrapolata al piano del pensiero: anzi dobbiamo dire che il primo principio della nostra conoscenza è il senso. Il termine raggiunto dall’intelletto – la cosa conosciuta – è altro dall’intelletto, non dipende ontologicamente da questo e specifica la conoscenza dell’intelletto: la luce viene dall’oggetto. Dunque «La conoscenza è un’operazione immanente – la quale procede vitalmente e interamente dalla facoltà, ed è interamente specificata dall’oggetto – nella quale la facoltà, attuando se stessa, è attuata dall’oggetto, intenzionalmente presente in essa nella sua similitudo o species, e che è un’operazione che consiste nel divenire immaterialmente l’altro in quanto tale». Risalta pertanto l’inconsistenza dell’attualismo concernente la pretesa di digerire-dissolvere l’essere entro l’atto puro del pensiero che ponendo se stesso, pone parimenti l’essere.

Essere e nulla. Prima di tirare qualche conclusione è necessario apportare un chiarimento fondamentale su «essere e nulla», tema che attraversa l’intero neoparmenidismo severiniano.

Il nulla (nihil absolutum) come ente di ragione e mera determinazione del pensiero non ha alcun valore di realtà, per cui l’opposizione (relazione) essere-nulla non è reale; affinché essa sia reale, bisogna che entrambi gli estremi lo siano. Pertanto l’assunto del neoparmenidismo severiniano secondo cui tutta la filosofia occidentale, in specie quella greca ma poi anche la successiva, avrebbe pensato il divenire come entrare di qualcosa nel nulla e l’uscire di qualcosa dal nulla, è soltanto un artificio logico senza alcun valore di realtà, e a vero dire un errore primordiale e originario che insidia irrimediabilmente l’interpretazione del pensiero occidentale proposta dall’autore e pone in crisi l’intero sistema.

Niente, ossia nessuna cosa, può entrare nel nulla, né alcuna cosa uscire da sola dal nulla, per il fatto che la relazione essere-nulla è meramente logico-pensata e non reale. Anzi insistere nel considerare tale relazione porta inesorabilmente a rinchiudersi nella logica e a sviluppare un discorso che disegna e prospetta risposte fittizie rispetto alla realtà, con cui si evita ogni confronto o verifica (e per questo il neoparmenidismo di cui diciamo deve – senza dirlo ad alta voce – annientare l’idea di verità come conformità o adaequatio tra il pensiero e l’essere, per sostituirla al seguito di Kant e degli idealisti con l’idea di verità come coerenza del pensiero con se stesso).

L’errore intrinseco al pensare il divenire come entrare-uscire dal nulla sta nel rifiuto neoparmenideo – proprio di Bontadini e di Severino – della materia prima, della potenzialità, della dialettica atto-potenza e della causalità che innesca il passaggio dalla potenza all’atto. Si tratta di un equivoco (ma non il solo) che insidia alla radice la «struttura originaria». La creazione del mondo di cui parla il cristianesimo è creatio ex nihilo sui et subjecti, non è autocreazione del mondo a partire dal niente assoluto, ma creazione a partire dall’esse ipsum per se subsistens.

Se l’opposizione essere-nulla non è reale, per cui nessun ente può andare nel nulla né uscire dal nulla da solo, e d’altronde l’analisi dell’apparire e dell’esperienza conferma che la foglia che cambia colore non va nel nulla ma si trasforma, allora deve esservi una disposizione intrinseca alla foglia a mutare il colore (potenzialità) e una causa di tale trasformazione. È vero che il Tutto non si mostra tutto insieme, ma la conoscenza reale di sue parti può essere ferma e stabile.

La pura identità idealistica e severiniana tra essere, pensiero e verità non può essere accolta senza beneficio d’inventario. Il rapporto originario è quello tra pensiero ed essere, poiché l’intelletto è facoltà dell’essere; non è invece originario il rapporto pensiero-verità, poiché la verità dell’essere richiede la conoscenza reale dell’essere. Anzi qui si cela un errore già segnalato, ossia la primazia assoluta del pensiero logico sull’essere reale onde il pensiero è a priori vero, e non intende apprendere nulla dall’essere reale e dall’astrazione dell’intelligibile dal sensibile.

Quanto alla caduta degli immutabili, ossia la negazione della verità stabile e dell’episteme, molte volte ricordata dal neoparmenidismo di cui diciamo, ciò è perlopiù vero per numerosi aspetti del pensiero moderno (non certo per tutti) che tendono a puntare sul divenire come verità originaria, ma non è vero per la filosofia dell’essere ed altre filosofie che mantengono come non rinunciabile la realtà e la stabilità di verità eterne.

Conclusioni

A) Là dove l’unità tra pensiero ed essere è posta come un’ovvietà che non andrebbe analizzata, emergono equivoci teoretici inaggirabili propri di Hegel, Gentile e del neoparmenidismo: 1) nel primato indifferenziato del (puro) pensiero scompare l’astrazione dell’intelligibile dal sensibile, ossia il modo con cui opera l’intelletto umano, onde rifiutare l’astrazione significa rifiutare la condizione umana. 2) inoltre viene negletta la materia (e la prote yle) che sono il correlato della percezione sensibile. Questa non coglie solo la pura forma ma anche la materia dell’oggetto sensibile, dati insieme nel sinolo materia-forma che va analizzato, e non pensato come una sorta di sintesi a priori operata dalla mente. La filosofia dell’essere diffida profondamente della sintesi a priori kantiana, evocata e impiegata lungamente dall’attualismo per mettere fuori gioco in un sol colpo l’analisi del reale. L’irrilevanza della materia quale correlato della percezione sensibile e radicale principio di inintelligibilità, comporta che il sistema approdi al formalismo assoluto (tipico il caso di Gentile), in cui la materia scompare e vive solo la forma logica, e al razionalismo assoluto, dove l’essere è completamente trasparente al pensiero. 3) Conseguentemente il pensiero (il razionalismo assoluto) ritiene di esaurire il reale e congeda il mistero; 4) lasciare da parte il principio sensibile e non verificare gli esiti della teoresi sul reale implica il rischio di costruire mondi quali mai si videro, addentrandosi nell’abbaglio dell’edificazione-invenzione logica del mondo. 

B) Dalla filosofia della seconda modernità (sostanzialmente l’idealismo) alla metafisica classica era il cammino per il primo Severino che contava così su un doppio recupero: dell’idealismo e della metafisica classica. L’autore ha abbandonato da tempo il progetto che a mio parere era in sé infondato: il pensiero della seconda modernità non riapre la strada alla metafisica (dell’essere) ma la chiude senza riserve, perché in esso l’oblio dell’essere reale è massimo, e il logico primeggia sull’ontologico. Accade un primato del logico sul fisico, quasi che quest’ultimo sia soltanto un livello degradato del logico. Bisogna dunque riprendere il cammino là dove esso si è interrotto e con la filosofia che lo aveva condotto al suo più alto sviluppo, ossia la filosofia dell’essere con la sua terza navigazione. In essa la partenza non è la struttura (originaria) del sapere ossia il trascendentale verum, ma il trascendentale ens. L’inversione tra i due trascendentali per cui all’inizio non sta l’ens ma il verum rappresenta uno dei più tragici equivoci di buona parte della modernità filosofica, che comporta un manifesto oblio dell’essere e la difficoltà di raggiungere una accettabile nozione di verità. Un punto apicale di tale equivoco è raggiunto nel Sistema dell’idealismo trascendentale di Schelling (1800), in cui addirittura l’essere è dedotto dal verum.

Intendo per terza navigazione una prospettiva o dottrina metafisica più alta e compiuta di quella sorta dalla seconda navigazione platonico-ellenica consistente nella scoperta della causa soprasensibile. Tale nuova e ulteriore navigazione (filosofica, non ipso facto religiosa) è stata formulata nell’atto inaugurale di san Tommaso d’Aquino, che l’ha espressa in nitidi canoni in cui viene conservata l’eredità greca e insieme trascesa in un sapere più alto (su ciò vedi NM). In ciò si consolida una scansione ternaria della vicenda della metafisica dagli albori in avanti, che viene tratteggiata dall’Aquinate in un celebre brano.

La tradizione della filosofia dell’essere e la relativa metafisica riemergono alla conclusione del ciclo della filosofia moderna più vigorose e forti, lasciando dietro le spalle Nietzsche, Heidegger, Cartesio, Kant e altre scuole. Nella nuova epoca filosofica postmoderna che si è aperta da tempo, il grande bisogno sta nel ritrovare una metafisica di trascendenza e la filosofia dell’essere è idonea per questo compito. Essa è in grado di superare il nichilismo, di porre la questione della tecnica nel modo che le compete, di raggiungere una conoscenza reale del reale. E con la sua stessa esistenza in atto mostra l’inconsistenza delle tesi corrive sulla fine della metafisica, sul suo oltrepassamento, sul nichilismo che sarebbe proprio di tutto il pensiero occidentale.

Annesso: comprensione dell’essere e dell’ente in Heidegger. La comprensione dell’essere è per Heidegger il fondamento della comprensione dell’ente, per cui senza la prima non accade la seconda (l’essere è l’orizzonte entro cui appaiono gli enti). Per la filosofia dell’essere accade diversamente: la percezione, comprensione e l’analisi dell’ente sono alla base della comprensione dell’essere. L’oggetto della metafisica è l’ente in quanto ente, non l’essere in quanto essere dove l’essere è un astratto indeterminato e un’attività, non un soggetto-sostanza. L’essere dell’ente non è altro che l’esse/actus essendi dell’ente, e non l’esse ipsum

«L’essere è e si mostra [west] senza l’ente», dice Heidegger e diventa arduo  seguirlo, tanto più che in Essere e tempo si legge invece: «L’essere è sempre l’essere di un ente» (n. 3). L’essere non è il nulla dell’ente, come vuole Heidegger, ma l’attuazione dell’ente, l’atto dell’ente. L’ente è l’universale concreto, e in esso conosco l’essere che attiva l’ente ed è suo proprio, e successivamente per inferenza l’esse ipsum per se subsistens; ma in partenza l’ente non è separato dall’essere, e l’essere dell’ente non è esterno e trascendente rispetto all’ente. Si potrà pensare l’essere come ciò che rende possibile il manifestarsi fenomenologico dell’ente, ma a livello ontologico l’essere dovrà essere pensato come ciò che fa essere l’ente con la sua propria essenza. Pertanto non è la comprensione previa dell’essere in generale a dischiudere quella dell’ente.

Essere (come essere dell’ente o actus essendi) ed ente sono in connessione e si appartengono reciprocamente, ma in che modo? Sono sullo stesso livello? Oppure l’esse è l’atto che fa essere l’ente? Nell’appartenenza tra esse ed ens vi è un prius radicalmente esistenziale che è l’esse. Il Sein heideggeriano è in rapporto all’ente e non sua attuazione o posizione dell’essere: il Sein è fenomenologico, è orizzonte dell’apparire che non esprime alcuna attuazione dell’ente nel rapporto incrociato tra esse ed ens.

Dietro la polarità heideggeriana essere-ente occhieggia la polarità essere-nulla intesa in modo peculiare, ossia tensione tra essere che appare e si presenta ed essere che scompare e si nega, dunque un nulla fenomenologico (ciò che al momento non appare), e in cui il nientificare è solo un uscire dall’apparire.

Nella filosofia dell’essere il nesso o se si vuole la «dialettica» (termine qui usato in un’accezione per nulla hegeliana) ens-essentia-esse è quella primaria che svetta su tutte le altre e che chiama in causa le nozioni fondamentali di atto e potenza. Non è dunque una dialettica pensata ma reale nella coimplicazione di essere-actus essendi ed essenza, in cui l’atto sta dalla parte dell’esse e la potenza dal lato dell’essenza. Questa «coarta» secondo la sua formalità l’atto che l’attiva e la fa essere.

In sostanza sull’ente, sull’essere e la differenza ontologica le soluzioni della filosofia dell’essere risultano più profonde e decisive di quelle di Heidegger.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

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Wittgenstein Ludwig, 2009, Pensieri diversi. Adelphi, Milano.

Le rivoluzioni nella teoria della crisi

di Giampiero Magnani

1. Modelli di rivoluzione

Le rivoluzioni costituiscono una categoria politica omogenea anche se ciascuna rivoluzione, presa singolarmente, costituisce un evento storico unico con elementi caratteristici propri, dettagli e circostanze non confrontabili con altri fenomeni dello stesso tipo. Le molteplici differenze che separano, ad esempio, la rivoluzione francese da quella russa non impediscono tuttavia, per entrambi i casi, di parlare di fenomeni di tipo rivoluzionario; il modello idealtipico di rivoluzione è presente infatti in entrambi gli eventi storici, e con le stesse caratteristiche fondamentali: di fronte ad una grave crisi dell’ordine politico esistente, emerge un programma politico alternativo che riesce a sradicare il vecchio ordine in tempi rapidi e lo sostituisce con uno nuovo, radicalmente diverso da quello precedente. La velocità del cambiamento è una caratteristica di ogni evento di tipo rivoluzionario, e così pure il mutamento radicale di quelle che possiamo chiamare le regole di comportamento collettivo, che in ogni sistema sociale comprendono le norme (non solo giuridiche) su cui si fondava il vecchio ordine, ma anche i valori che ne erano, per così dire, le premesse ideologiche; un cambiamento rapido e radicale delle regole del gioco collettivo è l’essenza di ogni evento che si possa definire rivoluzionario.

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