Convergenze metodologiche e approccio interdisciplinare: una necessità irrinunciabile?*
«Wer nichts über die Sache versteht, spricht über die Methode»
(Gottfried Hermann)[1]
Il compito che mi è stato affidato dagli organizzatori della Conferenza di Ateneo consiste nel porre le basi per una riflessione sui possibili limiti dell’interdisciplinarità, perorando la causa dell’approccio specialistico in ambito accademico. Non ho acquisito nel tempo particolari competenze o meriti in materia, né sono autore di scritti sui metodi della didattica e della ricerca scientifica, ma nutro la speranza che l’esercizio quotidiano di queste due attività mi abbiano reso ben consapevole della sostanza della nostra professione di docenti e ricercatori universitari e che, pertanto, il mio discorso non risulti del tutto banale e privo dei necessari fondamenti teorici. Inoltre, mi piace immaginare che l’invito a tenere un simile discorso sia stato rivolto proprio a me perché è noto tra colleghi e amici il senso di ripulsa che da sempre nutro nei confronti delle mode che periodicamente si affacciano nell’ambito dell’istruzione e della ricerca e che sembra debbano rivoluzionare il nostro lavoro e persino la nostra visione del mondo, mentre poi si riducono a tendenze e orientamenti il più delle volte transitori. L’interdisciplinarità negli ultimi anni ha rappresentato una di queste irrinunciabili necessità – in realtà del tutto rinunciabili – e sull’argomento è stata prodotta una letteratura anche troppo cospicua (e ripetitiva nei ragionamenti), oltre a un’infinita serie di normative istituzionali che ad essa fa riferimento[2]. Naturalmente il mondo manicheo che fin qui sembra delinearsi nelle mie parole (l’interdisciplinarità è il male, la specializzazione è il bene) non corrisponde del tutto alla realtà delle cose. Ci sono esperienze, che comunemente definiamo interdisciplinari, centri, istituti, progetti di ricerca, che nascono e si sviluppano con il concorso di più discipline: la nostra valutazione nei loro confronti deve limitarsi ai risultati ottenuti, possibilmente senza pregiudizi di sorta verso la loro natura. Dirò di più: sottoscrivo quanto afferma Roberto Caso in un bell’articolo apparso su Roars[3], che osserva come, malgrado i richiami all’interdisciplinarità nell’attuale legislazione in materia universitaria, o nelle indicazioni contenute nei bandi PRIN e persino negli statuti di prestigiosi Atenei, la situazione sia poi ben diversa. Cito le parole dello studioso: «Le carriere dei ricercatori sono costruite sulla base dei settori disciplinari. Si procede solo se si pubblicano lavori e si partecipa a progetti rigidamente disciplinari».
Con tali premesse vorrei comunque provare ad esprimere le ragioni del mio dissenso nei confronti del ricorso, che secondo la mia opinione risulta il più delle volte semplicistico, ad un approccio interdisciplinare. Non intendo negare che il sapere possa o debba indirizzarsi verso i più disparati domini e che quindi la conoscenza sia, per sua natura, interdisciplinare. Ma qui non si discute di sapere, bensì di ciò che, nel ristretto ambito accademico, è in grado di creare, talora in maniera considerevole, i presupposti e i fondamenti del sapere: la ricerca e l’offerta formativa, due aspetti del nostro lavoro che non andrebbero mai separati, ma che in questa occasione vorrei provare a considerare isolatamente.
Comincio dalla prima (la ricerca). E lo faccio con una domanda: nella ricerca scientifica l’interdisciplinarità esiste davvero? Se ci pensiamo bene, la risposta non può che essere negativa. Esistono le ricerche, su temi e problemi concreti: questi ultimi talvolta hanno un’origine comune a più ambiti disciplinari, più spesso appartengono ad un ambito ben preciso, ma la loro soluzione può dipendere dall’intervento di altre discipline in supporto, con altre metodologie, altri mezzi, ecc. Le discipline, considerate singolarmente, possono risultare fondamentalmente aporetiche in relazione ai loro obiettivi e talvolta il superamento di un problema appare possibile solo in virtù di un supporto esterno. Ma tutto ciò è naturale e da sempre la ricerca scientifica mette in contatto studiosi e discipline anche molto distanti tra loro. L’accumulo, o, meglio, lo scambio di dati di varia provenienza non fa altro che contribuire alla soluzione di un problema. Quindi, alla fine, l’interdisciplinarità nella ricerca non ha neppure ragione di esistere come categoria e metodologia scientifica. In altri termini il concorso di più discipline non deve necessariamente porsi come un fenomeno di integrazione delle competenze scientifiche, bensì come un fenomeno di interazione di tali competenze.
Passiamo alla formazione: un ambito nel quale il discorso sull’interdisciplinarità appare ben più radicato nella letteratura dedicata all’argomento e, talvolta, purtroppo, nella pratica dell’insegnamento. Nella ricerca di convergenze metodologiche e meccanismi comuni di apprendimento è naturale che lo sviluppo di teorie relative all’interdisciplinarità abbia avuto origine in ambito pedagogico, sociologico ed epistemologico. In particolare la pedagogia nella seconda metà del Novecento ha posto l’accento sulla necessità di superare gli orientamenti positivistici che riflettevano nelle materie di insegnamento scolastico le rigide separazioni tra le discipline[4]. Come ha bene evidenziato Ferruccio Ceva[5], è merito dell’approccio interdisciplinare aver evitato tendenze antidisciplinari, come quei metodi (di Dewey e altri) che proponevano l’annullamento delle materie di insegnamento ipotizzando un metodo di apprendimento che dall’osservazione di un fenomeno legato all’esperienza reale sviluppasse le diverse conoscenze nei vari ambiti di studio. Il merito della rimozione di questi metodi approssimativi va sicuramente agli orientamenti di matrice strutturalista. Jean Piaget a partire almeno dal 1964 ha impostato gran parte del suo lavoro sull’esigenza di una nuova articolazione delle relazioni tra le discipline, sostenendo, in ultima analisi, l’unità del sistema delle scienze[6].
Vorrei ricordare, però, che gli esempi di Piaget molto spesso vanno in direzione di un’integrazione tra discipline già molto vicine e dai confini non rigidi, quali l’aritmetica e la logica, oppure la fisica e la chimica. Mentre nelle successive riflessioni relative all’approccio interdisciplinare nelle teorie educative spesso ci si è spinti ben oltre. Sarà questo il motivo per cui, nella bibliografia più recente sull’argomento il nome dello studioso è quasi del tutto scomparso? Il sistema ipotizzato da Piaget è dinamico (non a caso la sua epistemologia è detta genetica perché concepisce l’analisi della conoscenza come una costruzione progressiva) e nasce in opposizione alle teorie positiviste elaborate in materia da Auguste Comte. Le riflessioni di Piaget sulla natura dei rapporti tra le scienze, visti come un vicendevole arricchimento delle scienze stesse, si oppongono alla visione riduzionista di Comte che parcellizza le discipline in senso gerarchico dall’alto verso il basso. In un saggio presentato in un seminario sull’interdisciplinarità organizzato nel 1970 dal Centre pour la Recherche et l’Innovation dans l’Enseignement dell’Université de Nice, Piaget[7] esamina tre tipi di relazioni fra discipline:
il grado inferiore è rappresentato dalla multidisciplinarità (quando «la soluzione di un problema richieda informazioni a due o più scienze o settori di conoscenza senza però che le discipline messe a profitto siano modificate o arricchite da quella che le utilizza»); il secondo dall’interdisciplinarità («nel quale la collaborazione fra discipline diverse o fra settori eterogenei di una medesima scienza conduce ad interazioni vere e proprie, a reciprocità di scambi tale da determinare mutui arricchimenti»); l’ultimo livello, è caratterizzato dalla transdisciplinarità («che non si limiti al raggiungimento di interazioni e reciprocità fra ricerche scientifiche, ma collochi tali legami dentro a un sistema totale privo di frontiere stabili fra le discipline»).
Piaget nel 1970 considera la transdisciplinarità un sogno, pur auspicando per il futuro che essa si realizzi in funzione di una relativa soppressione delle frontiere tra le scienze[8].
Un altro convinto sostenitore dell’interdisciplinarità, che a più riprese si è occupato della questione, è il filosofo e sociologo francese Edgar Morin[9]. In un articolo del 1994 lo studioso ha proposto una tesi conciliante, tesa a superare la frammentazione delle discipline ma con l’obiettivo di preservarne le caratteristiche specifiche. A tal proposito è ricorso al concetto di metadisciplinarità[10]. In seguito Morin ha preferito approfondire la pratica della transdisciplinarità quale sistema più adatto alla connessione dei saperi[11].
Se il linguaggio – anche quello moderno, a partire dalla seconda metà del Novecento – ci ha abituati a una serie impressionante di neologismi formati con il prefisso inter– (si pensi a tecnicismi di ambito universitario quali: internazionalizzazione, interfacoltà, interateneo, interdipartimentale), tuttavia il sostantivo «disciplinarità» e l’aggettivo «disciplinare» risultano essere gli oggetti delle neoformazioni più ardite[12]. Per la molteplice gamma di neologismi appartenenti a tale campo semantico rinvio a un articolo a firma di Pier Giuseppe Rossi e Silvia Biondi, nel quale gli autori illustrano le attuali tendenze della critica in materia di interdisciplinarità e le differenze semantiche dei vari composti[13].
Dalla fine degli anni Sessanta l’Unesco ha prodotto molte iniziative a favore della pratica dell’interdisciplinarità nell’insegnamento, culminate nel congresso del 1985, pubblicato l’anno successivo col titolo L’interdisciplinarité dans l’enseignement général[14]. Quindi il richiamo istituzionale all’impiego diffuso di questo tipo di approccio ha radici lontane. In Francia si segnala l’attività del Centre International de Recherches et études Transdisciplinaires (CIRET), fondato nel 1987, che nel suo sito web mette a disposizione dei lettori numerosi documenti e articoli.
Gli scettici o, meglio, i detrattori dell’interdisciplinarità sono i cosiddetti disciplinaristi convinti – quali il sottoscritto, per intenderci – che in nome del rigore scientifico richiamano continuamente l’attenzione sui danni che l’approccio interdisciplinare comporta nella formazione di una seria institutio nel giovane studioso[15]: se si è troppo interdisciplinari si finisce con l’essere indisciplinati. Per la verità, di tanto in tanto, anche in ambito pedagogico e delle scienze sociali si leva qualche voce contraria allo spasmodico vagheggiamento dell’approccio interdisciplinare[16].
Il vero problema è che è errato il presupposto fondamentale delle teorie favorevoli all’interdisciplinarità, ovvero l’estensione dei metodi e dei mezzi da una disciplina all’altra. La solita vecchia questione del primato dei metodi generali sulle nozioni particolari (o viceversa, naturalmente). Sta di fatto che non esiste un modello di apprendimento unico che garantisca la trasferibilità di un risultato formativo da un ambito disciplinare all’altro. Possono esserci dei processi di apprendimento simili e comuni a più discipline (e lo scambio, ad esempio tra matematica e linguistica, può essere fecondo di idee e di stimoli), ma non metodologie applicabili a tutti i campi della conoscenza[17].
Tuttavia la vera domanda è: la frammentazione o disgregazione del sapere è realmente un danno? Certo se parliamo di ‘frammentazione’ e ‘disgregazione’ usiamo termini non proprio attraenti, ma se proviamo a ribaltare la questione, ricorrendo a un’espressione più neutrale, come ‘molteplicità dei saperi e delle discipline’, forse siamo meglio disposti verso la tutela della specificità degli ambiti disciplinari. Non finirò mai di ricordare che esiste anche una finalità pratica nell’insegnamento delle singole materie, che richiede un alto grado di specializzazione. Se Scuola e Università s’indirizzassero unicamente alla formazione di menti in grado di porre e risolvere questioni globali, che fine farebbero le conoscenze più profonde nei vari campi del sapere – umanistico, scientifico, tecnologico – che solo un’institutio specialistica è in grado di procurare?
Gli antichi Greci, e con loro i Romani, che hanno trasmesso al mondo occidentale il sapere greco, pur nell’inclinazione verso una paideia di ampio respiro, in grado di plasmare la forma mentis del cittadino, ci hanno tramandato una prima distinzione disciplinare. Oggi la nostra realtà accademica vive una contraddizione di fondo: siamo passati dalle discipline tradizionali alle sottodiscipline (rappresentate, almeno in Italia, dai cosiddetti settori scientifico-disciplinari), con confini non sempre bene individuabili tra quelle affini, ma poi, posti di fronte alla conquista dell’iperspecializzazione, finiamo con l’agognare l’orientamento opposto, ovvero il superamento delle discipline. Una simile tensione tra particolare e universale ha portato a ibridi raccapriccianti. È il caso, ad esempio, dei settori concorsuali, che – talvolta in ragione della sola esiguità del corpo docente di una determinata disciplina – mettono insieme settori che non hanno alcunché in comune (il caso più curioso a me noto è quello della storia delle religioni unita alla paleografia e alla storia del libro: forse perché si considera che abbiano in comune il Libro, la Bibbia?).
Si ha netta l’impressione che l’aspirazione all’interdisciplinarità rappresenti soltanto il nostro tentativo di rimediare a ciò che viviamo come un peccato originale: la bipartizione del sapere che da tempo il mondo occidentale ha attuato tra le scienze umane e le scienze positive (deduttive e sperimentali). La storia delle idee è un percorso infinito, che non conosce limiti disciplinari: ecco il motivo per cui esistono discipline, come quelle filosofiche, che si pongono al centro del sapere, con la pretesa di rappresentare quell’unione interdisciplinare che, di fatto, resta un vagheggiamento della vita contemplativa e che all’atto pratico si scontra con l’oggettivo moltiplicarsi delle conoscenze.
Ho sempre criticato gli studiosi incapaci di uscire dal proprio ristrettissimo campo di studio, non solo quelli che non mostrano un minimo di curiosità verso altre forme del sapere, ma anche quanti nella loro vita si muovono esclusivamente in un solo ambito di ricerca. Eppure queste sono attitudini particolari dei singoli ricercatori o, se vogliamo, difetti di fabbrica di determinate scuole, ai quali non può rimediare un indirizzo universitario interdisciplinare. Il compito dell’Università è quello di intervenire nella fase ultima della formazione di un giovane. Una fase in cui all’approccio intellettuale e culturale in senso lato si affianca un primo contatto, che definirei «operativo», con un particolare campo di studi, un contatto che nello sviluppo del processo formativo consente di appropriarsi anche degli elementi di dettaglio di un settore o di una disciplina: e ciò, sia ben chiaro, vale anche per le scienze umane. Come sempre l’equilibrio del giusto mezzo rappresenta la soluzione migliore. È invece compito della scuola – che per sua natura è multidisciplinare e, talvolta, interdisciplinare – di sviluppare le naturali attitudini degli studenti e di ampliarle verso più vasti orizzonti. Il buon vecchio Liceo Classico resta il miglior percorso per offrire ai giovani un’educazione di ampio respiro, per formare le loro menti e renderle in grado di affrontare tutti i campi del sapere. Un gioiellino tutto italiano, che le numerose riforme stanno lentamente, ma inesorabilmente, affossando.
Ho accennato alla scuola: mi si consenta, allora, una breve digressione. Sempre più spesso da circa venti anni a questa parte si confonde il piano dell’istruzione con quello della verifica: se una buona istruzione deve stimolare lo scolaro attraverso momenti di incontro di due o più discipline, che poi la verifica dell’apprendimento debba necessariamente andare nella direzione dell’interdisciplinarità a me pare un danno all’intelligenza dei ragazzi e un tripudio della superficialità. Mi riferisco in particolare alla tesina finale dell’esame di stato, per la quale – come è noto – si richiede un percorso interdisciplinare e per la quale gli studenti sono costretti a indicibili sforzi di fantasia per mettere insieme soggetti affatto differenti (un unico argomento che contenga riferimenti, ad esempio, a italiano, storia, chimica, matematica, filosofia e, se possibile, anche alle scienze motorie).
Ma torniamo all’Università: le prime due parti del percorso, le lauree triennali e magistrali, soprattutto nelle Università medio-piccole, sono inserite in Dipartimenti pluridisciplinari nei quali, a dispetto di intitolazioni già di per sé ampie e accoglienti, sono presenti le più disparate aree CUN senza alcun criterio, né didattico, né scientifico. Se un Dipartimento monosettoriale oggi non ha più ragion d’essere e uno pluridisciplinare ha sicuramente maggiori possibilità di sviluppo e di crescita in termini di risultati[18], tuttavia le esagerazioni in questa direzione creano soltanto confusione, reale impossibilità di gestire obiettivi di ricerca sensati e un’offerta formativa talmente variegata da risultare praticamente inutile.
La questione, di riflesso, si pone anche per i dottorati. Quelli attuali, caratterizzati da una struttura e un’organizzazione interdisciplinari, hanno ucciso la formula stessa del dottorato. I corsisti di una determinata disciplina nel corso dei tre anni vengono privati del necessario confronto con i colleghi che si occupano di argomenti affini ai loro e, invece, hanno come unica opportunità – che dovrebbe essere soltanto accessoria – quella di confrontarsi con colleghi delle più disparate discipline. Per non parlare delle lezioni e dei seminari, che, nella migliore delle ipotesi, si risolvono nella frequenza di brillanti lezioni magistrali, che però, sul piano della metodologia scientifica di riferimento, spesso rivelano scarsa capacità di contribuire allo sviluppo delle necessarie competenze specifiche. In una Università che, dall’introduzione dei crediti formativi in poi, parcellizza e appiattisce il lavoro del docente universitario e impedisce la trasmissione di un sapere più specialistico durante il percorso formativo curricolare, se si toglie anche al Dottorato l’opportunità di un apprendistato di alto profilo e di rigore scientifico, rischiamo che i nostri allievi, futuri studiosi e colleghi, diventino come Margite, il personaggio dell’omonimo poemetto che gli antichi attribuivano a Omero e di cui si dice nel primo frammento dell’opera:
πόλλ’ ἠπίστατο ἔργα, κακῶς δ’ ἠπίστατο πάντα[19].
Salvatore Monda**
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* Pubblico in questa sede, con minimi ritocchi e l’aggiunta di note e riferimenti bibliografici essenziali, il testo pronunciato l’11 maggio 2016 in occasione della Conferenza di Ateneo dell’Università degli Studi del Molise. Oltre a rinnovare i miei ringraziamenti al Magnifico Rettore, Prof. Gianmaria Palmieri, e agli organizzatori della Conferenza per il cortese invito, desidero esprimere la mia gratitudine anche al collega e amico Lorenzo Scillitani, che ha voluto pubblicare questo intervento sulla rivista che dirige. Mi corre l’obbligo di precisare che il mio discorso si inseriva in un contesto di relazioni che ruotavano intorno a due coppie di argomenti contrapposti: interdisciplinarità e specializzazione, globale e locale. Questo mio breve lavoro non intende offrire un quadro teorico in materia di interdisciplinarità: la sua finalità è esclusivamente pratica e indirizzata ad aprire una discussione su un tema importante in una realtà, come quella accademica, che spesso vive di tensioni tra opposti indirizzi e fatica a trovare un giusto equilibrio.
** Salvatore Monda, Professore associato di Lingua e letteratura latina L-FIL-LET/04, Università degli Studi del Molise. Email: salvatore.monda@unimol.it
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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- [1] Uno dei maestri a cui devo gran parte della mia formazione, Scevola Mariotti, che si dimostrò sempre particolarmente attento al metodo filologico, al punto che ai suoi allievi era disposto a perdonare piccoli e grandi errori, ma non quelli che potessero evidenziare lacune metodologiche, apprezzava tuttavia lo studioso impegnato ad affrontare problemi specifici assai più di colui che si dedica alle vane questioni di metodo. A questo proposito, soleva citare l’aforisma del grande filologo tedesco Gottfried Hermann che ho riportato in esergo («Chi non capisce niente dell’argomento parla del metodo»).
- [2] Per un primo orientamento bibliografico rinvio ai volumi di J. Moran, 2002, e A. Chettiparamb, 2007, che offrono anche un rapido inquadramento storico del concetto e della relativa terminologia, sebbene limitati all’ambito anglosassone.
- [3] R. Caso, 2014.
- [4] J. Hamel, 2002, rivendica il ruolo della pedagogia nel futuro sviluppo di una corretta pratica interdisciplinare, con argomenti piuttosto generici.
- [5] F. Ceva, 1982, 20.
- [6] Cfr. almeno J. Piaget, 1964, 1967, 1970a, 1970b, 1972.
- [7] J. Piaget, 1972 (cito dalla trad. it., 96, 97, 99).
- [8] Quella delle tappe che conducono alla transdisciplinarità diventerà poi un elemento ricorrente nella letteratura sull’argomento (vd., da ultimo, J.-P. Resweber, 2011), una sorta di versione moderna della scala caeli cara alla teologia cristiana tardoantica e medievale!
- [9] Cfr. soprattutto E. Morin, 1990, 1994a, 1994b. Sul contributo di Morin all’interdisciplinarità vd. A. d’Iribarne, 2008.
- [10] E. Morin, 1994b.
- [11] Si veda la cosiddetta trilogia sull’educazione (E. Morin, 1999, 2000, 2014) in cui lo studioso affronta il problema del superamento delle barriere tra scienze positive e cultura umanistica.
- [12] In inglese un sinonimo di interdisciplinary è cross-disciplinary (incrocio di discipline). Oltre a multidisciplinarità, pluridisciplinarità, transdisciplinarità e metadisciplinarità esistono anche codisciplinarità e polidisciplinarità. Vale la pena di ricordare, inoltre, che in inglese interdiscipline è un sostantivo che definisce quel particolare tipo di disciplina accademica che in realtà è l’unione di due o più discipline, come la sociolinguistica, la biorobotica, ecc., per le quali si creano istituti, centri di ricerca, collane e riviste.
- [13] P. G. Rossi e S. Biondi, 2014. L’articolo offre anche un esempio di come l’uso di simili composti possa diventare piuttosto ardito, quando, per spiegare il pensiero dello studioso canadese Bernard Terrisse, gli autori si esprimono con una formula ai limiti del comprensibile: «dalla mono-disciplinarità (intra-disciplinarità) alla trans-disciplinarità passando dalla multi-disciplinarità/pluri-disciplinarità e dalla inter-disciplinarità» (147-148).
- [14] L. D’Hainaut, 1986.
- [15] Vd. l’efficace sintesi che delle due opposte tendenze fa P. Charaudeau, 2010.
- [16] Si vedano, ad es., i lavori di D. Bridges, 2006, e J. Bourdon, 2011.
- [17] Sul problema vd. R. Titone, 1977, 105.
- [18] Vd. le giuste osservazioni di A. Krishnan, 2009, 50.
- [19] «Sapeva fare molte cose e le faceva tutte male».
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