Il dispositivo logico del circuito organico nel pensiero di John Dewey: storia, teoria e prospettive contemporanee
Assieme a Gregory Bateson[1] e Pierre Bourdieu[2], John Dewey fa parte di quella cerchia ristretta di autori capaci di mettere in discussione in modo radicale i dualismi fondamentali del pensiero moderno, quali quelli che oppongono mente e corpo, individuo e società, mezzi e fini, fatti e valori. La filosofia deweyana è infatti fondata su di una logica antidicotomica, che spinge a pensare in termini funzionali e interattivi le distinzioni che tradizionalmente sono state intese come delle opposizioni ontologiche.
Il suo approccio sembra essere fondato in particolare sul concetto di circuito organico, impiegato nell’articolo del 1896 The Reflex Arc Concept in Psychology. È interessante come in questo testo di psicologia sperimentale Dewey introduca un dispositivo logico che può essere applicato a differenti campi tematici e disciplinari. In particolare, affermare che la relazione tra due termini va pensata attraverso il dispositivo logico del circuito organico, significa sostenere che questi due elementi interagiscono reciprocamente, che il loro ruolo può cambiare nel tempo e che le loro funzioni vanno intese all’interno di una coordinazione più ampia.
In questo articolo tenterò di mostrare come questo dispositivo sia attivo non soltanto nella psicologia sperimentale di Dewey, ma anche nelle riflessioni morali avanzate in Theory of Valuation (1939) e nelle analisi sociopolitiche proposte in Individualism, Old and New (1930). Il circuito organico sembra così rappresentare la struttura logica dell’approccio antidicotomico di Dewey entro un ampio raggio di ambiti d’indagine.
Nel paragrafo finale dell’articolo, ci si chiederà infine in via preliminare se lo schema logico del circuito organico sia capace di dare conto della natura asimmetrica che caratterizza alcune interazioni sociali, ad esempio le relazioni di potere. Una questione destinata a rimanere aperta, quantomeno all’interno del presente articolo.
Oltre il meccanicismo. Il concetto di circuito organico
Come già anticipato, il concetto di circuito organico viene introdotto nell’articolo The Reflex Arc Concept in Psychology. In questo importante saggio del 1896 Dewey si propone di superare l’opposizione meccanicista tra stimolo e risposta che struttura gran parte della psicologia sperimentale di fine Ottocento. L’obiettivo polemico è la teoria dell’arco riflesso, secondo la quale «lo stimolo di particolari recettori sensoriali determina una risposta automatica, vale a dire indipendente dalla volontà del soggetto. L’arco riflesso è la struttura che compone il sostrato nervoso di una parte «afferente» (che porta l’impulso al centro, costituito dal midollo spinale o dal cervello) e di una parte «efferente» (che porta l’impulso dal centro ai muscoli periferici)»[3]. Da questo punto di vista, stimolo e risposta rappresentano così due elementi distinti e isolati, legati da relazioni causali di tipo meccanico e dalla necessaria mediazione del centro nervoso.
Contro questo approccio, Dewey afferma che i due momenti della stimolazione e della reazione fanno parte di una coordinazione psicomotoria più ampia, all’interno della quale essi possono essere distinti in quanto svolgono delle funzioni differenti. Questa distinzione funzionale può essere delineata soltanto a partire dallo sfondo comune di un profondo intreccio. Da un lato, uno stimolo sensoriale può essere percepito solamente in presenza di una predisposizione nell’organismo percipiente. Immaginiamo un fortissimo rumore. Questo suono potente e fastidioso non potrà essere percepito come uno stimolo in assenza di un soggetto capace di compiere il complesso atto psico-motorio dell’ascolto: «lo “stimolo” emerge da questa coordinazione; è generato da quest’ultima in quanto sua matrice»[4].
Allo stesso tempo, la risposta motoria porta con sé lo stimolo come suo contenuto e come oggetto di rielaborazione. Pensiamo ad un bambino che osserva una candela. La vista della luce gli provoca il desiderio di toccare il fuoco con la mano. Le dita si avvicinano troppo: il bambino inavvertitamente si brucia, e ritira velocemente la mano. Come interpreterebbero questa situazione i teorici dell’arco riflesso? Semplice: lo stimolo sensoriale della vista della candela ha provocato la reazione motoria del «toccare con la mano»; lo stimolo del «toccare con la mano» il fuoco ha provocato la reazione motoria del «ritrarre prima possibile la mano». Secondo Dewey invece la risposta non è un evento meccanico che segue l’occorrere della stimolazione. Al contrario, la riposta è «nello» stimolo: «La bruciatura è il vedere originario, l’esperienza ottico-oculare originaria estesa e trasformata nel suo valore. Non è più un semplice vedere; è il vedere-una-luce-che-significa-dolore-quando-avviene-un-contatto»[5]. Stimolo e risposta non rappresentano dunque due elementi separati, eterogenei, connessi esclusivamente tramite relazioni meccaniche di causa-effetto, quanto piuttosto due momenti di un’organizzazione che Dewey chiama appunto circuito organico e definisce nel seguente modo:
Ciò che abbiamo è un circuito, e non un arco o il segmento rotto di un cerchio. Questo circuito può essere definito più correttamente come organico piuttosto che come riflesso, poiché la risposta motoria determina lo stimolo, tanto quanto lo stimolo sensoriale determina il movimento. Difatti, il movimento avviene solo allo scopo di determinare lo stimolo, di fissare il tipo di stimolo che esso è, di interpretarlo[6].
Dunque, lo stimolo e la risposta non sono due elementi isolati e discreti, che si incontrano solamente per mezzo di una relazione causale e meccanica. Al contrario, sono due momenti interconnessi di un’organizzazione interattiva più ampia che Dewey chiama circuito organico, e all’interno della quale la stimolazione determina la risposta tanto quanto la risposta determina la stimolazione. La distinzione tra questi due elementi è possibile soltanto all’interno di questa coordinazione. Stimolo e risposta si distinguono solamente in virtù del ruolo che svolgono all’interno del circuito organico.
Questa ipotesi deweyana comporta delle conseguenze teoriche assolutamente cruciali. In primo luogo, rifiutando il paradigma meccanicista dell’arco riflesso Dewey supera la separazione metafisica tra idea (dimensione psichica), azione motrice (dimensione fisica) e percezione (dimensione intermedia tra psichico e fisico). Il valore di questa intuizione è stato recentemente confermato da numerose scoperte scientifiche contemporanee, le quali hanno ampiamente relativizzato l’opposizione tra dimensione motrice e dimensione cognitiva. Basti pensare alla teoria dei neuroni specchio e della cognizione incorporata[7].
Ciò che tuttavia interessa maggiormente, ai fini della tesi sostenuta all’interno del presente articolo, è il fatto che il concetto di circuito organico introduca un dispositivo logico di carattere generale. Ma cosa si intende per circuito organico? Si può astrarre la struttura di questo dispositivo logico dalle argomentazioni deweyane nell’articolo del 1896, affermando che due elementi fanno parte di una relazione di circuito organico se:
- a) interagiscono reciprocamente;
- b) il loro significato si sviluppa all’interno di questa stessa relazione;
- c) se nel corso del tempo c’è la possibilità che lo stesso elemento cambi il suo ruolo all’interno della relazione __ per esempio, la mia risposta può diventare lo stimolo per una risposta ulteriore.
I paragrafi successivi mirano a dimostrare come nel pensiero di Dewey questa modalità di relazione non si applichi soltanto alla coppia stimolo-risposta, ma anche alle diadi mezzi-fini e individuo-società.
Fatti e valori, mezzi e fini
Nel fondamentale testo del 1939 Theory of Valuation, Dewey propone di discutere la questione dei valori dal punto di vista pragmatico della valutazione. In questa prospettiva, egli si domanda se i giudizi di valore siano dotati di oggettività. Questa possibilità è negata da coloro i quali considerano i valori in termini puramente soggettivi. La prospettiva che con il linguaggio del pensiero contemporaneo potremmo definire «emotivista» afferma che i giudizi di valore debbano essere considerati alla stregua di semplici interiezioni emotive[8]. Dire che qualcosa è moralmente ingiusto, è la stessa cosa che piangere perché si è posato un piede su di una pietra aguzza. Nei due casi, l’espressione linguistica esprime direttamente una sensazione, una reazione emotiva, ossia un comportamento sprovvisto d’oggettività e che dunque non può essere sottomesso al controllo della riflessione intelligente.
La risposta deweyana a questa critica protoemotivista si sviluppa attraverso due momenti. In primo luogo, Dewey concede che le valutazioni siano strettamente legate alle emozioni provate dall’individuo impegnato nella valutazione. Tuttavia, questa relazione non impedisce che le valutazioni possano essere oggettive. Difatti, ogni giudizio di valore è espresso dal linguaggio, anche nel caso in cui esprima un’emozione. Poiché il linguaggio è socialmente costituito, ogni valutazione in quanto atto linguistico è così fornita di una componente pubblica, sociale, ossia oggettiva. In secondo luogo, Dewey esamina l’opinione secondo la quale le valutazioni debbano essere intese come semplici espressioni di desideri. Anche in questo caso, il pensatore americano mostra come questa eventualità non implichi la natura puramente soggettiva delle valutazioni. Difatti, ogni desiderio è fondato su di una mancanza, su di una rottura oggettiva che investe lo svolgimento dell’interazione sociale. Inoltre, ogni desiderio chiama in causa una finalità, la cui realizzazione chiama in causa un intervento sulle condizioni oggettive che la definiscono e che la rendono possibile. In questo senso, Dewey afferma che è necessario distinguere tra whishing, ossia il puro e semplice auspicio, e desire, che al contrario comporta lo sforzo e il tentativo attivo di realizzazione. Di conseguenza, una valutazione desiderante è lontana dall’essere concepibile come necessariamente soggettiva.
Dunque, le valutazioni possono essere oggettive, anche nel caso in cui esprimano emozioni e desideri. Inoltre, contrariamente a quello che affermano gli emotivisti, le valutazioni possono essere valutate. Questo significa che esse sono oggettive non soltanto in quanto esistono socialmente e naturalmente, e quindi possono essere oggetto di indagine scientifica da parte della psicologia, della sociologia e dell’antropologia. Al contrario, i giudizi di valore possono essere sottomessi a loro volta a dei giudizi di valore: si può argomentare contro un certo sistema valoriale, e queste argomentazioni possono essere intelligenti e razionali, e non determinate solamente dalle emozioni o dal conflitto tra valori incompatibili. In breve, si possono valutare le valutazioni con una certa pretesa di oggettività e con un certo grado di intelligenza. In tal modo, le valutazioni possono essere trasformate attraverso una valutazione intelligente.
In tal modo, Dewey sfida indirettamente una tradizione filosofica il cui rappresentante più importante è senza dubbio Max Weber. Allo scopo di comprendere questo dibattito a distanza, è necessario introdurre la distinzione tra mezzi e fini. Questa distinzione è cruciale nell’economia della discussione che la modernità ha dedicato alla questione della morale. Secondo Max Weber, la separazione tra mezzi e fini coincide con i limiti dell’azione della ragione strumentale. Difatti, la discussione razionale può illuminare la scelta dei mezzi più appropriati, e può anticipare le conseguenze che un certo atto può produrre. Tuttavia, la ragione è impotente di fronte alla scelta dei fini. Da un punto di vista morale, l’attività razionale può decidere come fare qualcosa, ma non può decidere cosa fare.
La posizione weberiana sembra riprodurre la divisione dominante tra fatti e valori, trasformandola nell’opposizione tra mezzi e fini. Questo dualismo si riflette nell’impossibilità da parte della riflessione intelligente di mettere in discussione i fini, ossia i valori. L’indagine razionale può impegnarsi allo scopo di ottenere una conoscenza scientifica dei fatti morali, concepiti come fenomeni sociologici, antropologici e psicologici. Tuttavia, questa conoscenza si rivela essere incapace di determinare la scelta ultima dei fini. Si possono conoscere perfettamente le cause, le ragioni, le condizioni di un disaccordo morale, senza che questa comprensione possa aiutare a risolvere il conflitto in esame. Alla base del conflitto morale c’è infatti una lotta «mortale» e «inespiabile» tra valori, senza alcuna possibilità di relativizzazione e di compromesso:
Tra i valori, cioè, si tratta ovunque e sempre in ultima analisi, non già di semplici alternative, ma di una lotta mortale senza possibilità di conciliazione, come tra «dio» ed il «demonio». Tra di essi non è possibile nessuna relativizzazione e nessun compromesso[9].
Il fatto che nella vita ordinaria e nelle scelte concrete delle persone in carne ed ossa i valori «s’incrociano e s’intrecciano», non toglie che essi siano in realtà «mortalmente nemici». L’uomo che vive nella banale e quotidiana mescolanza dei valori
si sottrae piuttosto alla scelta tra «dio» e il «demonio», evitando di decidere quale dei valori in collisione tra loro sia dominato dall’uno e quale invece dall’altro, misconoscendo il fatto che ogni singola azione, e la vita consapevole nel suo insieme, rappresenta una catena di decisioni ultime mediante cui l’anima (come in Platone) sceglie il suo proprio destino, il che vuol dire il senso dell’agire e del suo essere[10].
Di fronte a simili decisioni, l’uomo è solo di fronte alla propria coscienza, e né la scienza né la conoscenza empirica della realtà possono essergli d’aiuto.
Allo scopo di chiarire ulteriormente la sua posizione, Weber propone l’esempio di un sindacalista. Mettiamo che le argomentazioni scientifiche dimostrino che i valori sui quali l’azione politica di quest’ultimo è fondata siano inutili nelle condizioni sociali attuali. Inoltre, poniamo che le conseguenze prodotte dalla sua azione sindacale si rivelino oramai addirittura dannose per i lavoratori che egli vorrebbe difendere. Ora, secondo Weber tutte queste argomentazioni non mettono in discussione le posizioni etiche del sindacalista. La scelta dei fini ultimi è legata a un senso del sacro, a un senso d’integrità personale che si fonda nell’obbedienza a un valore ultimo. Non c’è alcun ragionamento, alcuna considerazione a proposito dei mezzi che in linea di principio possa mettere in discussione l’adesione morale a un determinato fine.
Il sindacalista realmente coerente vuole semplicemente mantenere in se stesso, e per quanto possibile suscitare in altri, un determinato modo di sentire che gli appare assolutamente dotato di valore e sacro. Le sue azioni esterne, proprio quelle che in partenza sono condannate anche a un’assoluta mancanza di successo, hanno in ultima analisi lo scopo di dargli, di fronte al proprio foro interiore, la certezza che questo modo di sentire è puro, che esso ha cioè la forza di «comprovarsi» in azioni, e non è soltanto una mera smargiassata[11].
Si può affermare che nella prospettiva di Weber «il fine giustifica i mezzi». Ma se da un punto di vista pseudo-machiavelliano – Machiavelli non ha mai scritto questo famoso aforisma – la sottomissione della prima dimensione alla seconda è fondata sul primato del realismo politico, nel caso di Weber essa è giustificata dall’affermazione della sacralità dell’attaccamento ai fini ultimi. All’interno del legame sacro tra l’individuo e le sue convinzioni morali fondamentali, non c’è alcun posto per la discussione critica dei mezzi impiegati allo scopo di raggiungere un fine ideale.
La prospettiva di Weber è rovesciata da Dewey[12]. Anche secondo il pensatore americano la relazione tra mezzi e fini gioca un ruolo centrale all’interno della questione dei valori. Tuttavia, differentemente da Weber egli afferma che questo rapporto non deve essere pensato in termini dicotomici. Ciò significa che la relazione tra le due dimensioni non é puramente arbitraria o strumentale, ma al contrario è essenziale. Un esempio può aiutare a rendere più chiara l’argomentazione deweyana. L’orrore suscitato dalla soluzione finale nazista e da tutti i massacri etnici non può essere separato dai mezzi impiegati, ossia l’eliminazione dei membri della razza considerata inferiore. Se i mezzi impiegati fossero stati differenti, i fini si sarebbero potuti valutare in modo differente. Perché? Perché si sarebbe trattato semplicemente di fini differenti. Per esempio, senza la mediazione della violenza fisica e istituzionale la soluzione finale nazista diventerebbe una semplice forma di intolleranza razziale. I due fini differenti «soluzione finale» – «intolleranza razziale» possono, e devono, essere entrambi considerati negativi. Tuttavia, è evidente che si tratta di due obiettivi, di due «valori», di due fini differenti. Dunque, ogni cambiamento relativo ai mezzi può potenzialmente ripercuotersi di un di un cambiamento a livello dei fini.
Pare così piuttosto evidente il fatto che Dewey comprenda l’articolazione della relazione tra mezzi e fini attraverso lo schema logico del circuito organico già impiegato nel testo psicobiologico del 1896. Egli afferma infatti che i fini sono contenuti nei mezzi, tanto quanto i mezzi sono contenuti nei fini. Di conseguenza, ancora una volta viene affermato il primato della relazione. L’oggetto della valutazione non è mai il fine in se stesso. Piuttosto, ciò che noi valutiamo è una determinata configurazione di mezzi e fini. Ogni giudizio che ha per oggetto esclusivamente i mezzi o i fini è un giudizio per definizione incompleto e insufficiente. Da un lato, giudicare i mezzi senza metterli in relazione con i fini corrispondenti equivale a rinunciare a comprendere il loro significato. Dall’altro, come già constato in precedenza l’esistenza di un «fine in sé» è una debole astrazione illusoria.
La relazione tra mezzi e fini soddisfa inoltre una seconda caratteristica del circuito organico, ossia il fatto che i ruoli non siano ontologicamente fissati. Ciò significa che ciò che in una situazione presente agisce da fine, in una situazione futura possa agire come un mezzo.
La distinzione tra fini e mezzi è temporale. Ogni condizione che deve essere portata in essere allo scopo di fungere da mezzo è, in quella connessione, un oggetto di desiderio e un fine-in-vista, laddove il fine attualmente raggiunto è un mezzo per fini futuri, così come è un test per le valutazioni precedentemente realizzate[13].
È per questo che, a differenza di Weber, Dewey rifiuta di riferirsi a fini assoluti. Se il contesto cambia, i fini possono perdere la loro natura finale. Per comprendere meglio questo passaggio, si può rielaborare l’esempio del sindacalista proposto da Weber. Immaginiamo che questo sindacalista sia profondamente legato all’ideale, ossia il fine, secondo il quale il lavoro sia la sola fonte di riconoscimento economico, giuridico e morale. Purtroppo, nel contesto attuale la disoccupazione giovanile supera il 50%: la maggior parte dei giovani non ha lavoro, e dunque dal punto di vista del sindacalista è totalmente sprovvista di ogni forma di riconoscimento. Poiché la sua ideologia – il termine è qui impiegato senza alcuna connotazione negativa – afferma che il salario è la sola forma legittima di remunerazione, egli sarà contrario a ogni forma di sostegno economico strutturale che sia separata dal lavoro. Tuttavia, senza un tale sostegno la dignità individuale dei giovani sarà in balìa dei capricci del mercato del lavoro. Dunque, lo sviluppo della situazione sociale e storica fa emergere un fine ulteriore, al lato del primato presunto assoluto del lavoro: la dignità. Di fronte a questa novità, può succedere che il sindacalista metta in questione la natura assoluta del fine che aveva diretto la sua azione politica fino a quel momento. In particolare, egli può realizzare che il valore del lavoro sia in realtà un mezzo in vista di un fine superiore, ossia la dignità dell’individuo. Dunque, se i due fini entrano in conflitto, dovremo rielaborare le nostre convinzioni e le nostre pratiche in vista di questo primato. In virtù di questa valutazione, il sindacalista può dunque sostenere un’iniziativa quale il reddito di cittadinanza, che dal suo punto di vista precedente appariva come una misura illegittima.
Nel testo del 1939 Dewey sostiene che questo genere di valutazioni, nelle quali i ruoli di mezzo e fine possono cambiare di fronte a una nuova situazione, non siano dei tradimenti della natura autentica della morale. I fini possono e devono essere valutati intelligentemente, se non si vuole ricadere nell’idealismo astratto o nel lassismo. Valutare un fine comporta la conoscenza dei mezzi che sono chiamati in causa dalla sua realizzazione. Inoltre, una simile valutazione può comportare un cambiamento di ruolo: il fine può apparire come un mezzo in rapporto a un fine ulteriore. Questo modello di valutazione comporta la cooperazione dell’intelligenza riflessiva, dell’indagine scientifica e del piano emotivo. L’oggettività dei valori e delle valutazioni è concepita così da Dewey in modo sintetico, piuttosto che in modo riduzionista.
Lo schema logico impiegato nella Theory of Valuation pare così essere quello del circuito organico. Come nel caso della relazione tra stimolo e risposta, i mezzi e i fini agiscono attraverso una relazione reciproca. Da un lato, i mezzi sono sempre stimati in rapporto al fine che si vuole raggiungere attraverso la loro mediazione. Dall’altro, i fini possono essere giudicati soltanto se si possono identificare e discutere i mezzi che sono coinvolti nella loro realizzazione[14]. Inoltre, i due ruoli non sono ontologicamente fissati. Un certo fine può diventare un mezzo per un fine ulteriore, allo stesso modo in cui una risposta può agire da stimolo verso una risposta successiva.
All’interno del pensiero di Dewey si delinea così una continuità tra il livello psicobiologico e il livello della valutazione, che corrisponde in un certo senso al livello etico. Tuttavia, questa continuità non è fondata su una forma di riduzionismo. Al contrario, la comunità di funzionamento che unisce l’interazione tra stimolo e risposta e il rapporto tra mezzi e fini trova il suo fondamento nell’operatore logico del circuito organico. È per questo che la continuità tra le coppie stimolo/risposta e mezzi/fini può essere concepita come naturalista a patto che venga adottata una concezione ampia del livello psicobiologico[15]. Questa concezione deve includere l’esistenza delle finalità che, come sottolineato da Dewey in Experience and Nature, sono state bandite dalla natura da parte del pensiero meccanicista moderno[16]. All’interno della continuità deweyana si tengono così insieme elementi che apparirebbero come eterogenei da un punto di vista riduzionista: il realismo morale – i fini esistono, e possono essere valutati oggettivamente –; il naturalismo – il regno dell’etica non è separato né ontologicamente, né logicamente dal livello psicobiologico –; il primato della relazione sugli elementi singolari.
Nel paragrafo successivo, tenterò di dimostrare che questa continuità logica può essere estesa anche al livello socio-politico. Difatti, il dispositivo logico del circuito organico sembra essere utile allo scopo di comprendere una delle coppie concettuali più importanti del pensiero di Dewey.
Individuale e sociale. Le origini della crisi
Il rapporto tra individuale e sociale è esplicitamente trattato nel testo del 1930 Individualism, Old and New. Il punto centrale delle argomentazioni che vengono sviluppate in questa collezione di brevi saggi è l’analisi della condizione del lost individual, dell’individuo smarrito. Questa condizione è connotata dall’insicurezza, dalla mancanza di fiducia in se stessi, dall’incertezza, dalla confusione, dall’irritazione e soprattutto dalla perdita di significato, poiché l’individuo smarrito ha perso l’orientamento in un mondo sociale che ormai gli è estraneo. Tutte queste caratteristiche non derivano da una patologia endogena individuale. Al contrario, esse possono essere ricollegate a una condizione fondamentale di insicurezza sociale: «i legami che un tempo sostenevano l’individuo, che gli hanno fornito un appoggio, una direzione e un’unità di visione della vita sono pressoché scomparsi. Di conseguenza, gli individui sono confusi e disorientati»[17].
La crisi individuale è così fondata su delle precise condizioni sociali. È interessante notare come queste condizioni non siano semplicemente delle condizioni puramente politiche ed economiche. Certamente, la Grande Depressione americana degli anni 30 è stata una fonte innegabile d’insicurezza e paura. Tuttavia, la crisi dell’individuo non è il semplice effetto della povertà e della perdita di fiducia verso il sistema politico. Piuttosto, essa è legata a una disorganizzazione più profonda che si è prodotta all’interno della società. In particolare, gli individui hanno sviluppato il loro sistema di valori precedente all’interno di un contesto sociale che non esiste più. Un rapido cambiamento sociale ha fatto sparire le condizioni entro le quali alcuni valori ed alcune idee potevano trovare il loro significato. Dunque, la crisi dell’individuo non coincide con la perdita dei valori. Piuttosto, essa è provocata dalla presenza di valori che hanno perso il loro significato.
Tra questi, c’è il valore dell’individuo. Durante la prima modernità, l’individualismo agiva da movimento emancipatore in lotta contro istituzioni oppressive quali la Chiesa e lo Stato. Successivamente, l’oggetto polemico cambiò: non più alcune istituzioni sociali in particolare, ma « il Sociale » in se stesso. La libertà e l’emancipazione divennero il sinonimo della rottura radicale tra dimensione individuale e dimensione sociale. Un conflitto interno alla società che opponeva progressisti e conservatori fu trasformato nel conflitto ontologico, politico e morale tra due entità separate : «l’individuo» e «il sociale»[18].
Ma l’ascesa dell’individualismo ha prodotto dei risultati contrari rispetto a quelli attesi. Nei suoi testi incentrati sulla Grande Depressione, Dewey sottolinea come la distruzione dei legami sociali abbia minacciato tutti gli interessi e i legami fondamentali dell’individuo, gettandolo nell’incertezza. Questa insicurezza ha prodotto due effetti gravemente dannosi: in primo luogo, a causa di questo smarrimento l’individuo, invece di ritrovarsi liberato ed emancipato, è caduto in una profonda impasse; in secondo luogo, il successo incondizionato dell’individualismo ha prodotto una domanda reattiva di sociale che è stata raccolta soltanto dai totalitarismi.
In tal modo, l’individualismo ha contribuito all’emergere della crisi dell’individuo. La distruzione dei legami sociali ha paradossalmente prodotto un individuo smarrito e paralizzato. Questa è la grande contraddizione logica e morale dell’individualismo. Tuttavia, un ritorno a una forma di comunitarismo estremo rappresenterebbe un impossibile e non auspicabile passo indietro della storia e dell’umanità, come dimostrato dai totalitarismi. Conseguentemente, il vecchio e contraddittorio individualismo deve lasciare il passo alla costruzione di un nuovo individualismo.
Come già affermato, la crisi dell’individuo ha delle evidenti radici sociali, poiché il suo smarrimento è stato prodotto dalla distruzione delle vecchie condizioni entro le quali determinati valori, ai quali egli è ancora attaccato, si erano sviluppati. Se si vuole agire sulla condizione individuale, si dovrà dunque agire sulla società. In particolare, secondo Dewey è necessario individuare all’interno delle condizioni sociali del presente le possibilità a partire dalle quali si potranno immaginare e costruire la società e l’individuo del futuro. Il modello in questo senso è quello delle piccole comunità di scienziati. In queste comunità la libertà dell’individuo è allo stesso tempo limitata ed estesa da un controllo di tipo scientifico. L’origine di questo controllo è difatti immanente alla stessa pratica scientifica, e dunque non deriva da una fonte esteriore di coercizione. In tal modo, la qualità e la potenza del contributo individuale vengono amplificate attraverso la mediazione interna della discussione pubblica. Secondo Dewey, a partire da questo modello si può costruire un’organizzazione sociale democratica che può superare la rottura tra individuale e sociale, ossia una delle cause più profonde della crisi.
È interessante notare come la continuità logica che accomuna il piano psicobiologico e il piano morale possa essere estesa al piano politico, in particolare alla relazione tra individuo e sociale. L’analisi deweyana propone infatti di concepire quest’ultima nei termini di una relazione di circuito organico. La crisi dell’individuo è difatti incomprensibile senza un riferimento alle sue condizioni sociali. La causa di questa impossibilità risiede nel fatto che la separazione tra le due entità de «l’individuo» e del «sociale» è una finzione irreale. Come sottolineato da Dewey, la distruzioni dei vecchi rapporti sociali e l’assenza di nuovi legami ha distrutto l’iniziativa individuale, mostrando così la natura contraddittoria del vecchio individualismo. È per questo che l’opposizione tra individuo e sociale rappresenta un ostacolo al superamento della crisi. Il nuovo individualismo deve essere creato agendo sulle condizioni sociali. Allo stesso tempo, una nuova organizzazione sociale democratica deve permettere lo sviluppo dell’individuo, seguendo il modello delle piccole comunità scientifiche.
Questa soluzione sembra tuttavia introdurre un evidente primato del sociale. Difatti, Dewey pare sostenere che la soluzione alla crisi individuale consista nell’adattamento dell’individuo al nuovo contesto sociale. Questo mero adattamento è difficilmente concepibile come un esempio di interazione reciproca, nella misura in cui l’individuo deve semplicemente sottomettersi alla forza della società e all’inesorabilità dei suoi cambiamenti. Se fosse davvero così, la relazione tra individuale e sociale non sarebbe pensabile in termini di circuito organico.
Tuttavia, la posizione di Dewey è molto più sofisticata. La sua idea di adattamento non consiste nella semplice normalizzazione passiva dell’individuo di fronte alla potenza della società. Sebbene la dimensione sociale sia in qualche maniera primaria, visto che una mera soluzione individuale alla crisi è definita come impensabile, l’individuo può ad ogni modo selezionare e rielaborare creativamente le possibilità aperte dal contesto sociale vigente. Dunque, l’adattamento è concepibile in termini interattivi, poiché il contributo dell’individuo e la creazione di una nuova organizzazione sociale non hanno degli esiti predeterminati. Ancora una volta, il primato va attribuito alla relazione: l’adattamento creativo di Dewey non è il risultato di una semplice iniziativa individuale e privata, né l’effetto inevitabile dell’azione determinista della società. Piuttosto, esso consiste in una nuova modalità di relazione tra individuale e sociale. Questa relazione può essere asimmetrica, in quanto la potenza dell’individuo non è comparabile alla forza del sociale. Tuttavia, l’asimmetria non esclude un certo degrado di reciprocità, come dimostrato dalla definizione deweyana del rapporto tra individuale e sociale. Questo rapporto non deve essere concepito come la lotte tra due soggetti ontologicamente separati, ossia «l’Individuo» e «il sociale». Piuttosto, si tratta di «configurazioni plurali di associazione»[19] all’interno delle quali l’individuo può svilupparsi, oppure può perdere il suo orientamento.
In breve, una relazione di circuito organico sembra essere attiva anche in questo contesto. È interessante come all’interno del rapporto tra individuo e sociale questo dispositivo si colori di una sfumatura platonica. Come nell’intellettualismo etico argomentato da Socrate, l’opposizione tra individuo e sociale non è pensata semplicemente come falsa a livello teorico, ma è addirittura ritenuta sbagliata, in quanto pericolosa e nociva. Riproducendo questo dualismo, l’individualismo ha prodotto disorientamento, dolore, disorganizzazione. Certo, con il termine «individualismo» Dewey non si riferisce strettamente a una semplice corrente intellettuale. Il movimento individualista è stato un movimento culturale, intellettuale, economico, politico. Di conseguenza, l’opposizione tra individuo e sociale è stata allo stesso tempo un’opposizione fittizia – in quanto è impossibile separare ontologicamente l’individuo e il sociale – e oggettiva – a causa della potenza delle conseguenze comportate dall’instaurazione di questa dicotomia. Per questo motivo, è sul piano politico che il dispositivo logico del circuito organico sembra raggiungere l’apice della sua forza sintetica. L’importanza di concepire la relazione tra individuale e sociale in termini interattivi assume un significato epistemologico, morale e politico.
Osservazioni conclusive
All’interno dell’opera di John Dewey, il dispositivo logico del circuito organico sembra produrre dunque una continuità tra la dimensione psicobiologia, la dimensione etica e quella politica. A partire dall’esistenza di questa continuità, la cui dimostrazione rappresenta il compito fondamentale del presente articolo, possono essere articolate in via preliminare alcune osservazioni conclusive.
In primo luogo, in base a quanto sostenuto finora e come già in parte anticipato, pare legittimo definire l’approccio deweyano come naturalista. Ciò non significa tuttavia che la teoria etica e politica di Dewey sia una teoria naturalista nel senso in cui lo sono la neuroetica e la neuropolitica contemporanee. Il pensatore americano non sostiene infatti che i criteri del bene e del giusto siano determinati da ciò che accade a livello neuronale. Al contrario, l’omologia logica che accomuna psicologia, etica e politica nel pensiero di Dewey non può essere concepita in termini riduzionisti, in quanto la continuità tra dimensione biopsichica e la dimensione sociopolitica non mira a ridurre la complessità dell’ambito umano. Il naturalismo di Dewey comporta un ampliamento del concetto di natura, piuttosto che una riduzione del dominio dell’esperienza umana.
È per questo motivo che il punto di vista deweyano pone delle questioni pressanti al pensiero contemporaneo. Difatti, la continuità logica tra psicobiologia, etica e politica indebolisce la forza argomentativa sia del naturalismo riduzionista, sia di quelle forme di ultra umanismo che rifiutano ogni riferimento al concetto di natura e ogni confronto con le scienze naturali. In tal modo, Dewey permette di vedere aldilà della dicotomia tra riduzionismo culturale e riduzionismo naturale, spingendo gli appartenenti ai due orientamenti a rendere più sofisticate le loro argomentazioni e le loro critiche incrociate.
Come facilmente intuibile, vi sono alcuni aspetti dell’applicazione del dispositivo del circuito organico alla dimensione socio-politica che devono essere elaborati e precisati. Dal punto di vista teorico, il punto critico più importante è rappresentato dalla questione dell’asimmetria[20]. Come già osservato in relazione al rapporto tra sociale e individuale, la reciprocità di una relazione non è incompatibile con la sua natura asimmetrica. Tuttavia, la presenza di una profonda asimmetria sembra mettere in discussione la natura reciproca di un determinato rapporto. È il caso dei rapporti di potere. È possibile concepire relazioni di questo tipo alla luce del dispositivo logico del circuito organico? È possibile pensare una pratica chiaramente ed esplicitamente asimmetrica nei termini di una relazione reciproca?
Si tratta di una questione complessa e delicata, che chiama in causa una difficoltà generale del pensiero deweyano – e forse di tutta la scuola pragmatista – di fronte ai temi del potere e delle relazioni asimmetriche. Questa difficoltà è stata sottolineata da importanti autori interni alla storia contemporanea del pensiero pragmatista, come ad esempio Richard Bernstein, il quale in un contributo recente scrive: «talvolta, nel suo fare affidamento a metafore di armonia e unità armonica, Dewey sottostima il conflitto, la dissonanza e le relazioni asimmetriche di potere che interrompono l’”armoniosa” totalità»[21].
Senza entrare in modo analitico nell’ampia questione del rapporto tra il pragmatismo e la questione del potere, è possibile avanzare alcune ipotesi di lavoro riguardo il problema specifico del rapporto tra asimmetria e reciprocità. In particolare, due possibili soluzioni alternative sembrano essere percorribili da un punto di vista deweyano.
Da un lato, è possibile pensare che le relazioni di potere contrassegnate da una forte componente asimmetrica siano relazioni a bassissimo contenuto di reciprocità. Qualora la bilancia dei rapporti di forza sia troppo sbilanciata verso una delle parti interagenti, la transazione tenderà così a perdere la propria natura reciproca. Dewey sembra propendere per questa ipotesi di lettura in un passaggio molto significativo di Democracy and Education dedicato all’analisi delle società dispotiche. All’interno di queste società, l’interesse comune è costruito ed esercitato a discapito dell’interazione reciproca e creativa tra i soggetti portatori di diversi interessi sociali:[22]
Ciò equivale a dire che non c’è un numero ampio di interessi comuni; non c’è un libero gioco di scambio reciproco tra i membri del gruppo sociale. Lo stimolo e la risposta sono eccessivamente unilineari. Al fine di avere un grande numero di valori in comune, tutti i membri del gruppo devono avere un’uguale opportunità di ricevere e prendere dagli altri. Deve esserci un’ampia varietà di esperienze e iniziative condivise. Altrimenti, le influenze che educano alcuni a diventare padroni, educheranno altri a diventare schiavi. E l’esperienza di ogni parte perde in significato, quando il libero scambio di modelli cangianti di esperienze di vita si arresta[23].
In tal modo, nel passaggio dal piano biologico a quello socio-politico lo schema interattivo sembra assumere un carattere sempre più regolativo, e sempre meno puramente descrittivo. La reciprocità e l’apertura degli scambi all’interno della transazione caratterizza soltanto un certo tipo di società, ossia la società democratica.[24] Piuttosto che rappresentare la struttura onnipresente in tutte le interazioni sociali, il dispositivo logico del circuito organico appare dunque come il modello regolativo al quale dovrebbero tendere le relazioni che intercorrono all’interno di una società pienamente giusta e democratica.
È tuttavia possibile pensare in modo alternativo il rapporto tra schema del circuito organico e relazioni di potere, ad esempio sostenendo che quest’ultime siano caratterizzate da una reciprocità di tipo particolare. All’interno di queste relazioni, la presenza di una forte componente asimmetrica non esclude il fatto che le due parti vi sia un’interazione e una negoziazione continua. Anche nei rapporti di potere, è sempre in azione una «dialettica della dominazione»[25]. In tale prospettiva, una particolare variante dello schema generale del circuito organico, tarata sul tipo particolare di reciprocità messo in atto dei rapporti di potere, potrebbe dare conto in modo adeguato anche di relazioni sociali fortemente asimmetriche.
Il compito di declinare in modo esatto le due diverse alternative, in questa sede soltanto abbozzate, di vagliarne sia la credibilità rispetto al reale svolgimento delle pratiche sociali, e ovviamente di delineare ulteriori soluzioni alternative, potrà essere adeguatamente svolto soltanto in un articolo successivo.
Matteo Santarelli*
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* Matteo Santarelli, Dottorando in Innovazione e gestione delle risorse pubbliche – Curriculum di Scienze sociali, politiche e della comunicazione, Università degli Studi del Molise. Email: matteosantarelli1985@gmail.com.
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- [4] J. Dewey, 1896, 110 (Tutte le traduzioni dall’inglese sono a cura dell’autore del presente articolo, salvo ove diversamente indicato).
- [5] J. Dewey, 1896, 98.
- [6] J. Dewey, 1896, 102.
- [7] Sul rapporto tra gli autori pragmatisti e queste recenti tendenze della psicologia sperimentale contemporanea, cfr. R. Madzia, 2013.
- [8] Per un confronto tra le prospettive emotiviste e il punto di vista pragmatista sul tema dei giudizi di valore, cfr. G. Marchetti, 2013.
- [9] M. Weber, 1917, 265.
- [10] M. Weber 1917, 272.
- [11] M. Weber, 1917, 273-274.
- [12] Dal testo può sembrare che vi sia stata una vera discussione tra i due autori. Purtroppo, Weber non è mai menzionato all’interno della discussione deweyana sulla relazione tra mezzi e fini, né viceversa.
- [13] J. Dewey, 1939, 219.
- [14] Per un’analisi del superamento da parte di Dewey dello schema mezzi-fini nella sua versione classica, cfr. H. Joas 1996.
- [15] Per una definizione pragmatista del livello psicobiologico, cfr. G. Baggio, 2015.
- [16] Vedi J. Dewey, 1925.
- [17] J. Dewey, 1930, 40 (trad. it. a cura di R. Gronda).
- [18] J. Dewey, 1943, 212.
- [19] J. Dewey, 1943, 212.
- [20] Sul tema dell’asimmetria, confronta L. Scillitani, 2011.
- [21] R. Bernstein, 1998, 149.
- [22] La citazione proposta è significativa, in quanto in essa l’analisi sociale e politica è articolata attraverso un riferimento esplicito alle categorie di stimolo e risposta. Ciò sembra avvalorare la lettura continuista dei vari ambiti del pensiero deweyano proposta nel presente articolo, e già avanzata negli scorsi anni nell’autorevole J. Garrison, 2003.
- [23] J. Dewey, 1916, 90.
- [24] È imprescindibile in questo senso il riferimento a J. Dewey, 1921.
- [25] A. Giddens, 1984.
asymmetry, individual and social reciprocity, John Dewey, organic circuit, valuation