Il Ritorno della Gnosi. L’eclisse della rilevanza sessuale nella legislazione
di Angelo Pio Buffo
This paper deals with the removal from the legislation of some terms referring to sexual identity. This is an increasingly widespread orientation in European legal culture, which considers these words to be in contradiction with the principles of equality and non-discrimination. The article analyzes this phenomenon in the light of the doctrines of ancient Gnosis. The contact points between the choices of parliaments and the Gnostic mindset are on the several analytical levels: the same cultural background characterized by the rejection of the divine universal order; the tampering of the words; the use of technical language inspired by the principles of the Orwell’s Newspeak; the distortion of the idea of equality.
Anno 4. Numero 2.
Dicembre 2018
«Un vero filosofo non deve mai perdere di vista la lingua, vero barometro le cui variazioni annunciano infallibilmente il buono e il cattivo tempo». (J. de Maistre, Saggio sul principio generatore delle costituzioni politiche e delle altre istituzioni umane, 1814).
- Una chiave di lettura
L’espunzione dai Codici e dagli atti di certificazione anagrafica dei termini implicanti la rilevanza della differenza sessuale («padre» e «madre», «marito» e «moglie») – stigmatizzati come lesivi dell’uguaglianza di genere e sostituiti da espressioni neutre («coniuge», «parte»), talvolta discutibili («genitore 1» – «genitore 2») – riecheggia alcuni assunti dell’antica gnosi[1]. E dà contezza di quella rottura del patto tra parola e realtà, annunciata da George Steiner come «una delle poche autentiche rivoluzioni dello spirito nella storia occidentale»[2].
Il recupero delle categorie proprie della speculazione gnostica[3] può contribuire a inquadrare le scelte di alcuni legislatori europei – dalle Cortes spagnole (Ley 13/2005) all’Assemblée nationale francese (Loi 404/2013), dalla Chambre des représentants del Belgio (Loi 36/2003) al parlamento portoghese (Lei 9/2010) – che hanno provveduto a emendare le rispettive legislazioni dai suddetti riferimenti. Uno sguardo d’insieme, ancorché non esauriente, alle opzioni linguistiche adottate nei diversi ordinamenti giuridici nazionali mostra come il progetto di neutralizzazione della differenza sessuale costituisca una tendenza culturale profondamente sintonica con quella «mentalità gnostica», acutamente esposta da Samek Lodovici nel suo studio sulle epifanie postmoderne della gnosi[4]. Si tratta di un trend che affiora, sia pure con sfumature più attenute, anche nel contesto giuridico italiano, dopo l’approvazione della legge 76/ 2016 (cd. Cirinnà). Ne è prova la recente querelle sulla reintroduzione delle diciture «padre» e «madre» nella modulistica per l’emissione della carta d’identità, nell’ipotesi in cui venga richiesta dai genitori per i figli minorenni[5].
Eludendo in questa sede l’esame dei molteplici profili giusfilosofici connessi alla denormativizzazione del modello tradizionale fondato sul binarismo sessuale[6], le brevi riflessioni che seguono si limitano ad abbozzare una possibile chiave di lettura del fenomeno, estrapolandone alcune criticità. L’analisi proposta si articola su due piani interconnessi. Nella prima parte del lavoro, la sintetica ricostruzione del perimetro concettuale della gnosi – delineato anche in ragione dei riflessi etici e antropologici di cui essa è latrice – assolve un ruolo propedeutico alla valutazione dell’incidenza gnostica nell’esperienza giuridica odierna. Nella seconda parte, la trattazione del tema investe più direttamente i mutamenti linguistici introdotti nei codici e si focalizza su alcuni aspetti che paiono rivelare una più forte concordanza con la Weltanschauung gnostica.
- Il senso della gnosi
L’inestricabile groviglio di dottrine che segna l’orizzonte della speculazione sulla gnosi rende ardua l’impresa di scandagliare la nebulosa concettuale che si condensa intorno a questa misteriosa forma di conoscenza salvifica[7]. D’altronde, la frammentazione delle fonti storiche, la varietà delle scuole di pensiero, l’intreccio e la sovrapposizione di prospettive mitologiche divergenti, la mescolanza di elementi provenienti da tradizioni religiose eterogenee, nel complicare il quadro analitico, paiono finanche precludere la possibilità di concepire la γνῶσις come un corpus dottrinale coerente e unitario. Questa convinzione – pur costituendo uno dei punti meno controversi all’interno di un vivace dibattito, tuttora caratterizzato da un perdurante disaccordo tra gli studiosi circa l’esatta portata di questo fenomeno – non ha peraltro impedito di individuare alcuni tratti salienti comuni ai sistemi gnostici. Si tratta di aspetti che orbitano intorno alla vis salvifica della gnosi, espressioni di un sapere mediante il quale, «nel corso di un’illuminazione che è rigenerazione e divinizzazione, l’uomo si ripossiede nella propria verità, si ricorda e riprende coscienza di sé […], della propria natura e della propria autentica origine»[8]. Difatti, attingendo a questo patrimonio sapienziale, attraverso un’esperienza interiore, lo gnostico scopre il divino che è in lui, «si conosce o si riconosce in Dio, conosce Dio e appare a sé come emanato da Dio ed estraneo al mondo»[9].
Quest’ultimo profilo, nel rivelare la peculiare fisionomia della gnosi come processo conoscitivo implicante «l’identità divina del conoscente (gnostico), del conosciuto (la sostanza divina del suo Io trascendente) e del mezzo per cui egli conosce (la gnosi come facoltà divina implicita che deve essere risvegliata e attuata)»[10], costituisce l’imprescindibile premessa per descriverne le coordinate antropologiche ed etiche. E consente altresì di precisare il senso attribuito nel prosieguo del lavoro al lemma gnosi.
Si tratta di una chiarificazione tanto più doverosa quanto più incerti appaiono i contorni definitori e più magmatica si presenta la sua natura. A tal proposito si impone una duplice puntualizzazione. Non solo, infatti, è necessario ribadire l’importanza di una linea di demarcazione tra gnosi e gnosticismo, distinzione peraltro già adombrata nel documento finale del Colloquio di Messina[11]. Occorre, nondimeno, evitare l’indebita sovrapposizione tra due diversi paradigmi di gnosi. Giacché è possibile scindere una gnosi «antica» che muove dal riconoscimento dell’abisso ontologico sussistente tra creatore e creatura, e che, benché conoscenza imperfetta – l’uomo, Paolo di Tarso docet, contempla i misteri divini «per speculum in aenigmate» – si apre all’Infinito, lasciando che l’uomo maturi attraverso la relazione con il totalmente Altro[12]; da una gnosi «degenerata»[13] che non è ricerca di verità ma di potenza[14], che non coglie più la differenza tra creatura e creatore, che immanentizza l’eschaton nella convinzione che «l’avvento del regno della perfezione sulla terra si compirà per effetto dell’iniziativa umana»[15].
Oggetto della presente indagine sarà unicamente quest’ultima forma di conoscenza. I riferimenti all’atteggiamento gnostico, quindi, implicheranno un rimando a quella sapienza «degenerata» in virtù della quale lo gnostico, interrogandosi sulla presenza del male nel mondo e, più in generale, sulle grandi questioni dell’esistenza[16], nonché muovendo da una incontenibile insoddisfazione per la condizione umana, riflesso dell’intrinseca defettibilità dell’ordine dell’essere, propone di redimere l’uomo dalla creazione e di liberarlo dai lacci della materia che imprigionano lo spirito.
- Il magistero gnostico
La dottrina gnostica, seppur con una spiccata nuance di variazioni mitiche, illustra la genesi dell’universo ad opera di demiurghi malvagi[17]. Secondo questa prospettiva, il cosmo presenta una fallacia ontologica insita nello scarto tra il Pleroma e l’imperfezione della creazione, percepita come regno delle tenebre, in cui l’uomo viene gettato[18] e sperimenta un’angosciosa estraneità. Gli gnostici, infatti, sovvertono il «vidit quod esset bona» biblico[19] con l’«equazione Kosmos ꞊ Skotos (universo ꞊ tenebra)»[20], estensione in chiave universale della concezione orfico-platonica del «sôma ꞊ sêma (corpo ꞊ sepolcro)»[21]. Qui si radica il loro acceso anticosmismo e la convinzione di vivere nel «peggiore dei mondi possibili»[22].
L’impianto di questa cosmogonia si riverbera in sede etica attraverso due corollari. Da un lato, genera il rifiuto delle coordinate in cui è inscritto l’uomo: il creato e le sue leggi sono concepiti come prigione dalla quale liberarsi con ogni mezzo. Straniero nel corpo[23] e nel mondo – sebbene sia nel mondo, egli sente di non appartenere al mondo[24] – lo gnostico vive come in un «involucro che soffoca la sua vera natura»[25] e sperimenta il taedium vitae[26]. Dall’altro lato, determina un sostanziale indifferentismo morale che finisce per convergere verso l’anomismo degli atti umani: «non esistono in sostanza atti buoni o cattivi in sé perché non esiste una diaphorà di natura»[27]. Essendo adiafori, gli atti non differiscono tra loro in base ad una diversa qualità morale sicché lo gnostico può compierli tutti. Anzi, egli può addirittura sentirsi spinto alla trasgressione di un assetto normativo, per far emergere con maggiore enfasi la sua superiorità rispetto alla legge stessa, espressione, quest’ultima, di una tirannia cosmica dalla quale ambisce emanciparsi.
L’estraneità rispetto ad un universo visto come terra d’esilio spinge lo gnostico, possessore di una «scintilla»[28] che lo rende consustanziale (homooùsion) con il divino[29], verso l’impresa di «distruggere l’ordine dell’essere, che è avvertito come difettoso e ingiusto, e, […] sostituirlo con un ordine perfetto e giusto»[30]. Affinché questo tentativo non appaia del tutto insensato, «deve essere cancellata quella caratteristica di dato che è propria dell’ordine dell’essere: l’ordine dell’essere deve invece venire interpretato come qualcosa che è essenzialmente soggetto al controllo dell’uomo»[31]. Questo aspetto, peraltro, avvince il quadro assiologico degli gnostici con quello delle odierne teorie gender[32] che, svuotata di senso la datità sessuale, dichiarano la natura umana arbitrariamente costruibile e de-costruibile. L’approdo comune è la costruzione di un mondo nuovo: egualitario, pacificato da tutti gli antagonismi, in cui è predicata una libertà senza premesse né condizioni, ove scompare ogni idea di limite.
Alla luce di questo orizzonte di sintesi è possibile intercettare alcune tracce gnostiche nell’opera di rettificazione dei codici e degli atti di certificazione anagrafica. Nella consapevolezza che le mutazioni linguistiche introdotte, non rubricabili a meri eventi lessicali, sono sintomatiche di una sottostante visione antropologica e politica: la lingua non solo si conferma «spia dello spirito»[33] ma è anche rivelativa di un assetto istituzionale di società. Con acume, infatti, Hannah Arendt – inserendosi nella traiettoria aristotelica del nesso tra «zôon politikòn» e «zôon lógon échon»[34] – ha evidenziato come «ogni volta che è in gioco il linguaggio, la situazione diviene politica per definizione, perché è il linguaggio che fa dell’uomo un essere politico»[35].
- L’alterazione della parola
Un primo rilievo, dunque, attiene alle implicazioni linguistiche sottese alla revisione dei testi legislativi. L’orientamento fatto proprio dai parlamenti sembra traslare l’ostilità gnostica verso l’ordine creato nel campo delle parole: i legislatori, non potendo abolire per legge l’ordo creationis, mirano ad occultare il linguaggio[36] che lo rende intelligibile.
Nella fattispecie, la tecnica usata per segregare la parola dalla realtà muove dalla convergenza riduzionistica dei termini implicanti l’alterità sessuale («padre» – «madre», «marito» – «moglie») verso una sola polarità semantica («genitore», «consorte», «parte»). In questa ottica si è orientato il legislatore francese, attraverso il decreto 429/2013, attuativo della legge 404/2013, che ha sostituito ad ampio spettro – non solo nel Code de procédure civile[37] ma anche in molte altre importanti disposizioni normative relative al funzionamento dell’État civil – le parole «père et mère» con «parents» o con «époux»[38]. La metodologia in esame rinnova per certi versi l’espediente della neolingua orwelliana: puntare alla sostanziale invarianza di un lemma, per impedire la localizzazione della pienezza dei significati.[39] In questo modo, il processo di manomissione delle parole si fa instrumentum regni poiché pretende di fissare i limiti di ciò che è enunciabile, indebolendo finanche la possibilità di meditare un pensiero non in linea con l’ideologia dominante[40]. La prosa giuridica, volgendo verso questa direzione, rischia di arretrare nel cono d’ombra di quell’antilingua stigmatizzata da Italo Calvino – il cui tratto saliente è proprio il «terrore semantico» verso la realtà, «la fuga di fronte a ogni vocabolo che abbia di per se stesso un significato»[41] – e di interdire una efficace captazione del reale[42], assottigliando la possibilità di avvertire le evidenze, finanche scientifiche, dell’unità duale costitutiva della condizione umana, fondata sulla complementarità e sulla cooperazione feconda, nella differenza, tra i due sessi.
Ma c’è di più. In questo atteggiamento è possibile intravedere un’ulteriore concordanza tra le scelte legislative e la mentalità gnostica. Si tratta dell’impiego di un registro linguistico impoverito, talvolta allegorico[43], spesso orientato alla trasvalutazione semantica dei vocaboli[44].
L’alterazione della parola veicola nella cultura gnostica quel generale sentimento di disprezzo verso il Creatore, non a caso identificato – nel prologo giovanneo – proprio con la Parola: «In principio erat Verbum, et Verbum erat apud Deum, et Deus erat Verbum». Se, infatti, per la rivelazione ebraico-cristiana la parola assolve una precisa funzione ontologica, si pone come cardine della creazione in quanto «vince il nulla e crea l’essere»[45], dagli gnostici essa sembra impiegata per occultare l’essere. Vocaboli come «madre» e «padre», in quanto epifanie di una legislazione cosmica dispotica, vengono così ad essere percepiti come ostili e quindi sostituiti da formule neutre. Questo aspetto rivela l’intentio profundior del nominalismo gnostico: l’idea che la parola non sia rivelativa di un’essenza ma dica se stessa e null’altro. Rubricata a flatus vocis o a mero segno vuoto, essa diventa completamente autoreferenziale. E finisce col perdere ogni aderenza alla realtà.
- Il limite capovolto
Una seconda connessione è ravvisabile nell’insofferenza, anche essa gnostica, verso qualunque limite. Gli gnostici, infatti, capovolgono il concetto classico di limite (πέρας) attribuendogli una valenza detrattiva: limite non è ciò che dà compiutezza all’essere e ne garantisce l’ordine, ma ciò che ne argina la piena realizzazione. Scrive, a tal proposito, Jacob Taubes: «il limite, che nello schema cosmologico antico era garante dell’ordine armonico, nell’esperienza gnostica diventa la barriera esteriore che bisogna superare […] L’ordine diventa l’ordinamento rigido e ostile, la legge diventa legislazione tirannica e malvagia»[46].
Tale metamorfosi concettuale – peraltro coerente con le odierne logiche del «monoteismo del mercato»[47] e con il dispiegamento nella cultura contemporanea del nomos della tecnica[48] – si riflette anche nell’àmbito linguistico. Coglie questo aspetto Roland Barthes quando sostiene che «ogni lingua è classificazione e ogni classificazione è oppressiva»[49]. Anche la semantica, manifestando la necessità di regole espressive e ponendo una barriera all’arbitrio comunicativo, è avvertita come limite soffocante e dispotico. La lingua, quindi, si rivela «fascista»[50]. Non tanto, però, nella misura in cui impedisce di dire, quanto piuttosto perché obbliga a dire, a vagliare, a relazionarsi. In sintesi, a fare i conti con la ricchezza del reale che fa attrito con l’agire umano.
Per ovviare alle barriere poste da un reale roccioso, refrattario ad essere assorbito nella vaghezza di certi schemi concettuali, e per recuperare l’esuberanza di una libertà senza presupposti non resta altro che «barare con la lingua»[51], provando ad istituire con la parola universi fittizi in cui fondare l’assiologia dell’ego volo. Anche a costo di pagare l’alto pedaggio dello smarrimento del senso della realtà. D’altronde, per gli gnostici, come per il personaggio del Demian di Hesse, «non esiste realtà tranne quella che è in noi»[52]. Ed è proprio «la rinuncia alla realtà»[53], secondo lo schema di Voegelin, lo snodo centrale della rivoluzione gnostica: «nello scontro fra sistema e realtà è la realtà che deve cedere»[54]. La realizzazione di un «mondo di sogno contro esistenziale»[55], infatti, richiede di agire come se il sogno gnostico fosse realtà. In questo senso, i progetti legislativi volti a eclissare la differenza sessuale – differenza «reale in senso forte»[56] in quanto esprime la struttura originaria della condizione umana – sembrano risentire di una forma gnostica di onirizzazione della realtà. Lo stesso può dirsi delle istanze di superamento del binarismo sessuale: il riconoscimento giuridico del «terzo sesso» – tanto secondo i canoni della Dritte Option tedesca[57] quanto nelle declinazioni gender fluid, per molti versi più radicali, del «sesso X»[58] – testimonia come ormai anche la polarizzazione maschile-femminile sia percepita come insopportabile limite. Retaggio di un ordine regolativo statico, da obliterare. E perciò terreno di scontro tra paradigmi antropologici latori di diverse configurazioni della dialettica natura-cultura[59]. Dialettica problematica[60] ma preziosa, che rischia tuttavia di essere travolta proprio dall’ablazione della dimensione naturale, messa in discussione dal postulato della mera costruzione socio-culturale del sesso[61].
Il rifermento al concetto di limite è infine utile a spiegare la sedes materiae delle riforme legislative in esame, sussistendo una sottile liaison tra la rivoluzione gnostica e la regolamentazione dell’istituto familiare. Ogni progetto di rigenerazione totale della società, compreso quello egualitario di matrice gnostica, trova sacche di resistenza proprio nella famiglia, società naturale in cui la differenziazione delle funzioni e la complementarità maschile-femminile non si radicano nelle pieghe del potere ma nel servizio e nella cura della persona. La famiglia, secondo Samek Lodovici, si presenta proprio come «luogo del limite»[62]. Almeno da due punti di vista: come comunità in cui si sperimenta la interdipendenza e come ambiente in cui si custodisce, per il tramite degli anziani, la memoria storica. In essa, infatti, «si acuisce sia il senso di una realtà che non è totalmente in nostro potere, perché in essa non nasciamo onnipotenti ma siamo dipendenti da altri (dai genitori innanzitutto), sia il senso che la storia non è senza insegnamenti per noi, qualora ci illudessimo sul fatto che con noi comincia veramente una nuova epoca»[63]. Ed è chiaro che ogni istanza utopica che punti a rovesciare l’ordine esistente debba indebolire la struttura familiare e screditare il valore pedagogico della storia attraverso una damnatio memoriae «degli errori e dei tentativi dell’umanità falliti nello sforzo di infrangere il limite e di costruire insieme all’uomo nuovo la città perfetta»[64].
- Il deragliamento dell’uguaglianza
Un ultimo punto che colloca l’opzione in esame sotto l’egida della gnosi è rinvenibile nella volontà di superare il binarismo sessuale in quanto discriminatorio. Lo spettro della discriminazione – agitato per propiziare una cornice legislativa asettica, «ambiente ideale per il soggetto che si vuole autodeterminare, quasi un laboratorio, schermato da ogni possibile interferenza»[65] – si regge su un fraintendimento[66], effetto collaterale del dispiegamento more geometrico dell’uguaglianza. Si tratta della sovrapposizione acritica tra differenza e discriminazione[67]. Sovrapposizione che produce cortocircuiti nei meccanismi di regolamentazione giuridica delle tutele. In primo luogo poiché ignora che trattare in modo diverso realtà diverse costituisce l’essenza della giustizia. Ma soprattutto perché coltiva, in maniera più o meno consapevole, l’illusione di promuovere l’inclusione politica sul piano inclinato dell’indistinzione.
Una lettura complessiva dei mutamenti introdotti nella legislazione esplicita gli esiti di questo malinteso senso del discrimen. E restituisce uno spaccato normativo tutto proteso verso la neutralizzazione di ogni diversità: il principio di uguaglianza, usato come testa d’ariete per abolire ogni differenza, ritenuta un male in sé, funge da potente dispositivo omologante[68]. Finendo così per convertire la garanzia dell’uguale trattamento delle differenze nell’indifferenza verso il valore di ogni differenza. Difatti, la cancellazione dei vocaboli implicanti la rilevanza sessuale non rafforza la pari dignità fra soggetti ma determina unicamente un livellamento asfittico e totalizzante che assorbe ogni possibile diversità: i due sessi – in conformità con il principio di identità degli indiscernibili di Leibniz – diventano tanto uguali da non essere più due ma uno solo.
Tale ipertrofia egualitaria[69] fa spiccare in controluce la nostalgia gnostica verso la perfezione primordiale del Pleroma in cui tutto era uno ed indistinto. E riflette l’idea secondo cui ogni specificità e singolarità sarebbero l’effetto collaterale della creazione, una vera e propria frattura che lo gnostico deve ricomporre per ritornare alla koinonia originaria. Sembra così riaffiorare il mito dell’androgino divino – archetipo di una perfezione che si declina come totalità indifferenziata, espressiva della coincidentia oppositorum maschio-femmina – attestato nei codici gnostici di Nag Hammadi e in un antico frammento del Vangelo di Tommaso, in cui viene espressamente indicato il sentiero della salvezza dell’uomo nella reintegrazione dell’unità primordiale: «Quando dei due voi farete uno; quando farete il dentro come il fuori e il fuori come il dentro, e l’alto come il basso; quando farete del maschio e della femmina un solo essere, sì che il maschio non sia più maschio e la femmina non sia più femmina, solo allora voi entrerete nel Regno»[70].
Traslando la dottrina gnostica della reductio ad unum nel contesto giuridico si produce un deragliamento del principio di uguaglianza il quale, da fattore ineliminabile di ogni legislazione, finisce per negare la stessa la missione tipica di ogni normazione che è quella di ordinare e di differenziare ove necessario[71]. L’atrofia della capacità di distinguere che ne deriva è particolarmente perniciosa perché priva il principio di uguaglianza di quella dimensione di ragionevolezza che da esso deriva – «come Eva dalla costola di Adamo»[72], secondo l’icastica metafora di Rescigno – e che lo perfeziona, illuminandone il senso. Difatti, uguaglianza e ratio distinguendi[73] separate l’una dall’altra collassano e non lasciano che due macerie: l’egualitarismo amorfo con le sue false pretese inclusive e l’ingiusta discriminazione con il suo odioso arbitrio. Entrambe queste prospettive riduzioniste non tengono conto che forse una «diseguaglianza ben temperata»[74], secondo la formula di Rawls, alla prova dei fatti è funzionale alla tenuta sistematica degli ordinamenti giuridici più che un’«eguaglianza di tutti in tutto»[75] che finirebbe per sopprimere le differenze, invece di coglierle, integrarle e farle concorrere alla realizzazione del bene comune.
- Conclusioni
Sullo sfondo del progetto di rimozione dal discorso giuridico dei termini implicanti l’alterità sessuale campeggia una Weltanschauung gnostica. La sintonia con la mentalità degli antichi pneumatici è rinvenibile su più livelli: nel retroterra culturale, poiché gli studi gender che ispirano questo nuovo corso, nell’eclissare il valore del dato biologico nella nube di mere proiezioni culturali, ripropongono l’aspirazione gnostica di «poter essere tutto senza dover essere nulla»[76]; nelle linee guida, con il pervasivo rifiuto dell’ordo creationis e della finitezza della condizione umana; nelle tecniche impiegate, in particolare le forzature nominalistiche e la sclerotizzazione dell’idea di uguaglianza; nelle prospettive, con i miraggi di una rifondazione dell’umano, facies abscondita di un umanesimo ormai reso, nei suoi principali gangli, totalmente negoziabile.
In questo scenario – in cui l’«umanesimo esclusivo»[77] converge con la curvatura nichilistica del paesaggio giuridico[78] – emergono nuove sfide per il diritto. Affiora qui tutta la portata problematica dell’«uso giuridico della natura»[79], il cui carattere prescrittivo appare sempre più controverso. Non soltanto perché l’appello alla phýsis è considerato come strumento ideologico che maschera, dietro l’apparente verticalità del ricorso a un ordine superiore e immutabile, l’essenza orizzontale e contingente della lotta per il potere[80]. Ma soprattutto per via dell’epocale cortocircuito tra lógos e nómos che, nel segnare la traiettoria della postmodernità giuridica, colloca diritto e natura nell’orizzonte dell’artificialità. Entrambi ridotti, riprendendo Heidegger, a Bestand, a fondo disponibile. Così, per un verso, l’irruzione del nichilismo nella scientia iuris porta a configurare la norma giuridica come nomodotto, canale pronto ad accogliere la volontà, qualsiasi volontà, normativa. E mira a rappresentare il diritto come regno della pura possibilità, della possibilità tutta dispiegata, senza più vincoli metafisici[81], né tradizione né natura né alcunché in grado di condizionarlo. Al punto che il massimo grado di indifferenza contenutistica, saldandosi col formalismo più radicale, risolve e dissolve la validità e il valore nel volere: «Volo ergo sum – ricorda Irti – è la divisa del diritto»[82]. E, per l’altro verso, la natura, tramontata l’idea della sua oggettività, cade sotto il dominio della tecnica che ne ridisegna il vólto. Di una tecnica che penetra in ogni angolo del bíos ed è oggi finanche in grado di riperimetrare i confini dello humanum.
Riletta alla luce di queste coordinate, la questione dell’eclisse della rilevanza sessuale lascia trasparire snodi problematici e profili di complessità con cui l’esperienza giuridica sarà chiamata nei prossimi anni, in maniera sempre più frequente, a confrontarsi.