IL thymòs in Francis Fukuyama: una forza rivoluzionaria
di Paolo Iagulli
Questo articolo nasce da un Seminario tenuto dall’autore il giorno 17 aprile 2019 presso l’Università degli Studi del Molise nell’ambito del Dottorato di ricerca in Innovazione e Gestione delle Risorse Pubbliche, curriculum di Scienze sociali, politiche e della comunicazione.
1. Politologo di fama internazionale, Francis Fukuyama è noto ai più per la tesi sulla «fine della storia», formulata a cavallo tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta del secolo scorso in un senso ben preciso (hegeliano-marxista e kojèviano: fine della storia come punto terminale della «evoluzione ideologica dell’umanità»1) e in termini non perentori, come alcuni suoi critici gli hanno erroneamente rimproverato, bensì interrogativi (2). È vero infatti che, scriveva Fukuyama nel suo libro più famoso, La fine della storia e l’ultimo uomo (3), una volta archiviati sistemi/forme di governo e ideologie quali la monarchia ereditaria e il fascismo, e consumatosi in quegli anni il crollo del comunismo, la democrazia liberale sembrava potersi considerare lo scenario largamente prevalente, la direzione verso cui la storia decisamente tendeva. Nondimeno, pur convinto che la democrazia liberale costituisse la «migliore soluzione del problema umano» (4) e che al suo ideale non fosse possibile apportare miglioramenti significativi, egli era sin da allora avvertito non solo, banalmente, del fatto che essa non poteva eliminare, in concreto, ogni forma di ingiustizia o problema sociale, ma anche, prospetticamente, dei pericoli di tenuta che essa avrebbe potuto incontrare ovunque, anche nei paesi più democratici e liberali, non avendo essa risolto fino in fondo il problema del thymós, che della democrazia è un pilastro fondamentale. Tale discorso è ripreso da Fukuyama nel suo ultimo e recentissimo lavoro, Identità (5). Non può essere naturalmente questa la sede per approfondire il tema del rapporto tra democrazia e thymós nella sua riflessione. Di certo, in entrambi i volumi, il primo del 1992, il secondo del 2018, al thymós si legano in modo più o meno diretto quasi tutti gli altri argomenti affrontati dallo studioso americano: il riconoscimento, la dignità, l’identità, il nazionalismo, il populismo, l’immigrazione, la religione e il fondamentalismo, la guerra. In questo breve articolo mi soffermerò su un’unica fondamentale dimensione del thymós: esso costituisce chiaramente, per Fukuyama, un potente motore della storia, una forza rivoluzionaria.
Cosa è il thymós? Lo studioso americano fa risalire il termine alla Repubblica di Platone: Socrate lo usa per riferirsi alla parte dell’anima che costituisce la sede sia della rabbia (anche contro se stessi) e dell’orgoglio che del giudizio di valore; il thymós vi appare come una parte indipendente dell’anima, come qualcosa di totalmente distinto dalle altre due componenti di quest’ultima, il desiderio e la ragione. Anche se nella Repubblica Socrate lega il thymós soprattutto alla classe dei guardiani responsabili della difesa della città, che sono guerrieri coraggiosi e rabbiosi disposti a rischiare la vita, egli mostra in realtà di ritenere che tutti gli esseri umani posseggano tutte e tre le parti dell’anima sopra indicate (6). Per descrivere più compiutamente il thymós, Socrate racconta a due giovani dell’aristocrazia ateniese la storia di un certo Leonzio che vide un mucchio di cadaveri distesi ai piedi del boia di Atene. Leonzio provava il desiderio di guardarli, ma nel contempo non tollerava quello spettacolo e distoglieva così lo sguardo; dopo aver lottato con se stesso, vinto dal desiderio, si avvicinò ai cadaveri e spalancò gli occhi per vederli. Leonzio sentiva, però, che aveva fatto qualcosa di sbagliato, di sconveniente, di inaccettabile e si arrabbiò profondamente. La lotta interna vissuta da Leonzio, fa notare Fukuyama, potrebbe essere interpretata come la lotta tra due desideri: il desiderio di guardare i cadaveri e il desiderio di non guardarli per il disgusto che si prova alla vista di un cadavere; una lotta che vede il prevalere di un desiderio sull’altro; ma si tratterebbe di una visione frutto di una psicologia troppo semplicistica. In particolare, se fosse così, non si spiegherebbe la rabbia di Leonzio. Tale rabbia, sottolinea Fukuyama, non poteva scaturire né dalla parte razionale né da quella concupiscibile dell’anima: essa derivava, invece, dal fatto che egli era tutt’altro che indifferente rispetto all’esito della sua lotta interiore; la rabbia di Leonzio non poteva che provenire da una terza e diversa parte dell’anima, quella che Socrate chiama appunto thymós (7). Quest’ultimo «è qualcosa che ha a che fare col valore che ciascuno dà a se stesso, quello che oggi potremmo chiamare “stima di sé”. Leonzio si considerava un individuo capace di comportarsi con una certa dignità e di dominare i propri impulsi, e quando non gli riuscì di essere coerente con l’immagine che aveva di sé, si arrabbiò con se stesso» (8). Socrate e Platone, evidenzia Fukuyama, avevano capito più di duemila anni prima dell’avvento dell’economia moderna qualcosa che quest’ultima non ha colto, e cioè che, se il desiderio e la ragione sono parti importanti della psiche e dell’anima umana, c’è anche una terza e decisiva parte, il thymós, che opera indipendentemente dalle altre due (9). Gli economisti, fa notare Fukuyama, hanno una visione riduttiva delle motivazioni umane, sostanzialmente ricondotte a quelle che essi definiscono «preferenze» o «utilità», cioè desideri di risorse o beni materiali (10); in realtà, buona parte di ciò che «interpretiamo come motivazione economica attivata da bisogni o desideri materiali è […] un desiderio “timotico” di riconoscimento della propria dignità» (11). Gli esseri umani, oltre a desiderare cose che si trovano al di fuori di loro, come cibo, bevande o un determinato risultato da raggiungere con mezzi razionalmente adeguati, aspirano anche e/o soprattutto a giudizi positivi sul loro valore (12). «Quei giudizi possono venire dall’interno, come nel caso di Leonzio, ma il più delle volte vengono formulati da altre persone nella cerchia sociale intorno a loro che riconoscono il loro valore. Se ricevono quel giudizio positivo provano orgoglio, e se non lo ricevono provano rabbia (quando sentono di essere sottovalutati) o vergogna (quando si accorgono di non essere stati all’altezza degli standard altrui» (13). Come è chiaro, quindi, il thymós, oltre a essere la sede dell’orgoglio, della vergogna e della rabbia (collera), si manifesta attraverso questi sentimenti/emozioni.
Secondo Fukuyama, il thymós è «la sede psicologica del desiderio hegeliano del riconoscimento» (14). Soprattutto ne La fine della storia e l’ultimo uomo, egli, sulla scia di Hegel-Kojève, insiste molto sul «riconoscimento» e sulla «lotta per il riconoscimento» quale fattori e «meccanismi» cruciali dei processi storici. Per Fukuyama, il «desiderio di riconoscimento», che precede concettualmente la lotta per il riconoscimento, non coincide col thymós: quest’ultimo è, come si è visto, quella parte dell’anima (né razionale, né desiderante) che conferisce valore alle cose e agli oggetti, mentre il «desiderio di riconoscimento» è quella parte/attività del thymós che aspira al riconoscimento da parte degli altri (15); è possibile, infatti, che l’essere umano provi, ad esempio, un orgoglio timotico, cioè legato alla stima di sé, senza chiederne il riconoscimento. Tuttavia, sottolinea Fukuyama, «la stima non è come una mela o una Porsche: essa è uno stato di coscienza, e per avere certezza soggettiva del proprio valore, è necessario che essa sia riconosciuta da un’altra coscienza. É perciò tipico [cioè altamente probabile] che il thymós spinga gli uomini a cercare il riconoscimento» (16). Ebbene, per Fukuyama, il thymós, con quella sua cruciale dimensione costituita dal desiderio di riconoscimento, è appunto il motore della storia: «[u]na descrizione del processo storico –di una vera storia universale- non può essere completa senza […] una spiegazione [dei suoi due pilastri costituiti dall’economia e dal riconoscimento], così come una descrizione della personalità umana non è completa se non tiene conto del desiderio, della ragione e del thymós» (17). E, come dovrebbe essere chiaro, per Fukuyama, il riconoscimento, il desiderio di esso e la conseguente lotta per ottenerlo hanno avuto origine nella parte timotica dell’anima (18).
Tema principale della riflessione dello studioso americano è, come noto e come ricordato in apertura, la democrazia liberale, che costituisce per lui l’ultimo stadio della storia umana perché soddisfa l’uomo molto più di ogni altra forma di governo e ideologia: lo soddisfa perché lo riconosce. La democrazia liberale poggia, dunque, per Fukuyama, in modo decisivo, oltre che su fattori economici, sul thymós (19). A ben vedere, però, la democrazia liberale costituisce il frutto di una rivoluzione (liberale) mondiale: è lo stesso Fukuyama ad affermarlo plasticamente nel titolo di un paragrafo de La fine della storia e l’ultimo uomo (20). Ebbene, per lo studioso americano, «ogni tentativo di descrivere come puramente economico l’impulso fondamentale che ha portato alle rivoluzioni liberali del secolo XX o, per essere più esatti, a tutte le rivoluzioni liberali che si sono avute dopo quella americana e francese del secolo XVIII, è risultato radicalmente incompleto» (21). «Hegel affermò che con le rivoluzioni americana e francese la storia veniva ad aver fine in quanto, in una società caratterizzata dal riconoscimento universale e reciproco, la brama che aveva messo in moto il processo storico, e cioè la lotta per questo riconoscimento, era stata finalmente soddisfatta» (22). Prima della Rivoluzione francese, infatti, le società erano, in buona sostanza, monarchiche o aristocratiche: in esse venivano riconosciute una persona sola, il re, ovvero alcune persone, cioè la classe dominante (l’élite) (23). Il thymós, dunque, con tutte le dimensioni e caratteristiche sopra ricordate, compreso il «desiderio di riconoscimento», è alla base delle rivoluzioni, è una forza rivoluzionaria. Non è possibile, insomma, sottolinea Fukuyama, comprendere in modo adeguato i fenomeni rivoluzionari se non ci si rende conto della funzione che vi hanno la rabbia timotica e la richiesta di riconoscimento. Per evidenziare come sia tanto comune quanto erroneo ritenere che le rivoluzioni siano provocate (solo) dalla povertà o comunque da condizioni meramente materiali, Fukuyama ricorda, citando Tocqueville, come nei trenta, quarant’anni che precedettero la rivoluzione, la Francia godesse in realtà di un’inedita crescita economica accompagnata peraltro da riforme complessivamente «liberaleggianti», per cui alla vigilia della rivoluzione i contadini e la stessa classe media stavano certamente meglio rispetto, ad esempio, ai contadini e alla classe media della Slesia o della Prussia Orientale (24). «Essi divennero materiale combustibile per la rivoluzione solo perché la liberalizzazione della vita politica che ebbe luogo verso la fine del XVIII li mise in condizioni di sentire le loro privazioni relative molto più acutamente dei contadini prussiani, e di esprimere la loro rabbia» (25).
Anche la crisi, anzi il crollo del comunismo non può essere spiegato in termini esclusivamente economici, sottolinea Fukuyama. Nel provocare il terremoto anticomunista di fine secondo millennio nell’Unione Sovietica, nell’Europa Orientale e nella stessa Cina un ruolo determinante lo ha giocato il desiderio di riconoscimento. Fukuyama non disconosce affatto la presenza di ragioni economiche: molti cittadini europei dell’Est volevano la fine del comunismo perché pensavano che quella avrebbe potuto portare ai livelli e al tenore di vita della Germania Occidentale e nell’Unione Sovietica e in Cina un impulso fondamentale alle riforme intraprese poteva certamente ricondursi all’incapacità delle economie «centralizzate» di soddisfare le esigenze della cd. società post-industriale (26). Nondimeno, è indubbio che al desiderio di prosperità si sia decisivamente accompagnata la richiesta di diritti democratici e di una partecipazione politica come «fini a sé stanti, in altre parole la richiesta di un sistema che realizzasse il riconoscimento come cosa corrente ed universale»(27).
Il caso della Cina di Deng Xiaoping è, poi, suo modo emblematico. Essa, rispetto alla Cina di Mao, grazie a incisive riforme economiche, appariva un paese molto più dinamico e ricco di opportunità per i giovani cinesi diventati maggiorenni negli anni ’80 del secolo scorso, per almeno alcuni dei quali si profilò per la prima volta dalla rivoluzione comunista la possibilità di andare a studiare negli Stati Uniti, leggere giornali stranieri e mettersi in affari. Eppure furono proprio gli studenti delle Università di Pechino, Xian, Canton e Shangai, figli privilegiati dell’élite, a organizzare quelle ben note dimostrazioni per una maggiore libertà e democrazia della fine degli anni Ottanta drammaticamente culminate nei fatti di piazza Tienanmen del giugno 1989. La (modernizzazione e) liberalizzazione economica evidentemente non bastava: essi, insieme alla libertà politica, volevano essere ascoltati, riconosciuti e presi sul serio come giovani adulti che avevano delle idee meritevoli di rispetto (28). Insomma, evidenzia Fukuyama, non si possono creare situazioni rivoluzionarie se non c’è qualcuno disposto a rischiare la vita e il relativo coraggio non può emergere dalla parte concupiscibile dell’anima, bensì dalla parte timotica (29).
Con le sue parole,
«[l]’uomo del desiderio, l’Uomo economico, il vero borghese sarà solo capace di un’«analisi costi-benefici» interna che gli darà sempre una ragione per continuare a lavorare «all’interno del sistema». È solo l’uomo timotico, l’uomo della rabbia, geloso della propria dignità e di quella dei suoi concittadini, l’uomo che sente che il proprio valore consisteva in qualcosa di più della complessa serie di desideri che truccano la sua esistenza: è solo quest’uomo che è disposto ad andare contro un carro armato o ad affrontare una formazione di soldati. Ed accade spesso che senza questi piccoli atti di coraggio in risposta ad altrettanto piccoli atti di ingiustizia non prenda il via nessuno dei grandi avvenimenti che portano a cambiamenti fondamentali nelle strutture politiche ed economiche» (30).
2. Appare del tutto chiaro, in entrambi i volumi qui considerati, che per Fukuyama le interpretazioni economiche della storia sono incomplete e quindi insoddisfacenti: l’uomo non è solo un animale economico (31). Questo vale non solo per la genesi della democrazia liberale ma per le rivoluzioni più in generale. Ora, Fukuyama è uno studioso che sarebbe riduttivo definire solo come un politologo; le sue analisi attraversano molte discipline, per cui egli è certamente (anche) un teorico sociale. Ebbene, vorrei concludere queste brevi note sottolineando come, anche se egli ha giustamente ricordato che il thymós è un concetto antico, l’attore sociale emergente dalle sue riflessioni è «moderno», perché solo negli ultimi decenni la componente emozionale dell’azione sociale è stata riscoperta, e la componente timotica, su cui Fukuyama si è così attentamente soffermato, è certamente, almeno in parte, riconducibile alla sfera emozionale. Se l’economia è diventata una scienza sociale dominante e prestigiosa è perché, fa notare Fukuyama, la gente si comporta spesso secondo la versione riduttiva della motivazione umana fornita dagli economisti. Indubbiamente, gli incentivi materiali contano e non è in discussione che gli esseri umani siano individui interessati a se stessi e alla ricerca di ricchezza e risorse e neppure che essi siano, più in generale, «animali razionali». Tuttavia, il modello di «comportamento economico», pur spiegando una parte importante del comportamento umano, presenta evidenti punti deboli: ad esempio, la teoria economica non spiega in modo soddisfacente né il soldato che si getta sulla mina né l’attentatore suicida, e più in generale tutti quei casi in cui è in gioco qualcosa di diverso dall’interesse personale materiale. È difficile dire, infatti, che noi «desideriamo» o «vogliamo razionalmente» cose o comportamenti dolorosi, pericolosi o costosi così come desideriamo cibo o denaro in banca. Oltre al desiderio e alla ragione, è necessario perciò tenere conto di altre motivazioni e spiegazioni del comportamento umano e queste vanno al di là di quelle economiche (32). Insomma, Fukuyama ha avuto il merito, tra l’altro, di evidenziare che, per comprendere adeguatamente non solo la storia ma anche la condotta dei concreti esseri umani nel mondo contemporaneo, dobbiamo fare i conti con una psicologia umana che è molto più complessa di quanto lasci intendere un modello economico elementare: è necessario sviluppare una comprensione più profonda e ricca delle motivazioni e del comportamento umano. Abbiamo bisogno, in altre parole, di «una teoria migliore dell’animo umano» (33); una teoria in cui non solo trova largo spazio, come abbiamo visto in Fukuyama, il thymós, ma che sancisca anche, più in generale, il definitivo tramonto dell’opposizione cartesiana tra ragione ed emozioni. Naturalmente, questo è un più ampio discorso, scientificamente molto attuale e legato alla rivalutazione della componente emozionale nell’azione sociale: di certo, per ciò che abbiamo qui brevemente ricordato, anche Fukuyama vi ha fornito un suo peculiare ma incisivo contributo.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
FUKUYAMA Francis, 1989, «The End of History?». In The National Interest, 16, 3-18.
FUKUYAMA Francis, 2009, La fine della storia e l’ultimo uomo. Bur Rizzoli, Milano, ed. or. 1992.
FUKUYAMA Francis, 2018. «Trent’anni dopo, ritorno su La fine della Storia?». In Vita e Pensiero, 3, 10-21.
FUKUYAMA Francis, 2019, Identità. La ricerca della dignità e i nuovi populismi. UTET, Milano, ed. or. 2018.
NOTE A PIÈ DI PAGINA
1 Fukuyama, 2009, 9.
2 Come egli ha avuto modo di ribadire anche recentemente: cfr. Fukuyama 2018.
3 Si tratta di Fukuyama, 2009 (ed. orig. 1992) che ampliava largamente un suo precedente articolo, vale a dire Fukuyama 1989.
4 Fukuyama, 2009, 351.
5 Si tratta di Fukuyama, 2019.
6 Cfr. ivi, 33-36.
7 Cfr. Fukuyama, 2009, 181-182.
8 Ivi, 182.
9 Cfr. Fukuyama, 2019, 33.
10 Cfr. ivi, 97.
11 Ibidem.
12 Cfr. ivi, 33.
13 Ibidem.
14 Fukuyama 2009, 183.
15 Cfr. ibidem.
16 Ibidem.
17 Ivi, 220.
18 Cfr. ibidem.
19 Mi limito qui a rinviare, in particolare, rispettivamente alla parte seconda e alla parte terza di Fukuyama, 2009, per le ampie e analitiche riflessioni da lui dedicate ai due pilastri della democrazia liberale, appunto l’economia (e le scienze moderne) e il thymós (e il riconoscimento).
20 Cfr. Fukuyama, 2009, 60.
21 Ivi, 161-162.
22 Ivi, 16.
23 Cfr. ivi, 216.
24 Cfr. ivi, 191-192
25 Ivi, 192.
26 Cfr. ivi, 194.
27 Ibidem.
28 Cfr. ivi, 196.
29 Cfr. ivi, 197.
30 Ibidem.
31 Cfr. ivi, 14.
32 Cfr. Fukuyama 2019, 25, 28-30.
33 Ivi, 25.