Immanenza e trascendenza nella teoria della legalità

Immanenza e trascendenza nella teoria della legalità*

Salvatore Amato**

The analogy between God and State is constantly present in the juridical thought. The analogy helps us reflect on the role of legality and on the meaning of social union. Schmitt is absolutely convinced that the true categories in discussion are transcendence and immanency. Kelsen convinced himself otherwise. In the background we can see the influence of Kierkegaard and Freud. Kierkegaard with the idea that human identity is founded on radical choices between good and evil. Freud with the idea that the morality is an illusion created by humanity itself. However different these views may be, they analyze the problem of the legality in terms of we may call the essence of a fundamental constraint on the juridical decision-making process.

 

 

Of Justice-as if Justice could be any thing, but same

ample law, expounded by natural judges and saviors,

As if it might be this thing or that thing, according to

decisions.

(W. Whitman, Thought in Leaves of Grass, 1891-2)

 

  1. La legalità come vincolo

 

Lo sviluppo del diritto, ci fa notare Perelman, presuppone la conciliazione dell’inconciliabile, la sintesi degli opposti. «Questo sforzo per risolvere delle incompatibilità è in uso a tutti i livelli dell’attività giuridica»[1]. Il legislatore, il giudice e il singolo interprete si trovano, ciascuno a suo modo, a produrre incoerenze, dando però per scontata la coerenza del tutto. A questa capacità del sistema giuridico di restare (o di apparire?) coerente nell’incoerenza noi diamo il nome di legalità. La legalità è il valore (la normalità) che sta dietro una struttura variabile (i rapporti tra regole). È un principio: l’esistenza di un ordine, l’esistenza di un senso nel confuso insieme di leggi, sentenze, comportamenti. È un fatto: l’esistenza di un rapporto tra norma e norma, tra norma e comportamento. Potremmo parlare di una sorta di «effetto specchio» tanto necessario quanto apparentemente impossibile. Ogni atto giuridico dovrebbe essere il riflesso di un atto precedente dal quale deriva e al quale rimanda. Tuttavia, questi legami di conformità, che la legalità dovrebbe garantire, sono osservabili empiricamente (la costituzione rimanda alla legge, la legge alla sentenza… e così via), ma appaiono difficilmente giustificabili teoreticamente. La regola precede la regola cronologicamente, nel senso che ogni regola presuppone l’esistenza di un’altra regola e poi di un’altra e così all’infinito, ma c’è qualcosa che giustifichi questo continuo rincorrersi? Oltre la cronologia, c’è l’ontologia? C’è un’essenza a cui questo rimando reciproco conduce?

Queste domande diventano ancora più cruciali alla luce del diritto moderno che, in quanto diritto posto, assume la mutabilità e variabilità a modello della propria dimensione strutturale. Come osserva Luhmann, «il diritto vale positivamente solo quando la decidibilità e quindi la mutabilità diventa permanente attualità e può essere sopportata come tale»[2]. Se tutto è difforme, se tutto cambia non esiste la legalità, non esiste alcuna plausibile connessione tra le norme. La natura, Dio, la ragione… costituivano, nei modelli giusnaturalistici, una valvola di sfogo con cui rendere tollerabile la mutabilità del diritto attraverso la convinzione di una immutabilità delle premesse[3].

Non possiamo ignorare che nel pensiero greco, e in particolare in Platone e Aristotele, l’espressione che più si avvicina al nostro concetto di legalità, nómimos, ha un connotato meramente descrittivo che assume connotati positivi solo quando giunge a garantire una visione e un sentimento comune (omonoia, omodoxia). Nell’esperienza giuridica romana non troviamo neppure un termine immediatamente corrispondente a nómimos. Legalitas è un’espressione del linguaggio medievale. Tuttavia, proprio il lento definirsi di una scienza del diritto, con le sue suddivisioni e le sue concettualizzazioni, rende ancora più indispensabile rinvenire un elemento unificante che tenga assieme le tante frammentazioni di una prassi sempre più complessa e articolata. Nel De legibus, forse il primo trattato di filosofia del diritto scritto da un giurista, Cicerone afferma che il senso dell’esperienza giuridica non si può certo trovare nei libercoli sugli stillicidi e sui diritti annessi ai muri o nelle formule di contratti e di sentenze[4], ma in quella sintesi di summa auctoritas et scientia che è riposta in «universi iuris ac legum». La legalità è universo, il verso unico a cui il diritto deve riuscire a ricondurre le esigenze umane. Se è possibile questo universo, tra la contraddittorietà di libercoli e formule[5], si può aspirare a quell’universalità di valori e sentimenti, cara a Cicerone e alla filosofia stoica.

Eliminando ogni fondamento meta-giuridico o meta-legale come presupposto dei processi normativi, il diritto moderno pone la legge e solo la legge al centro dell’esperienza giuridica, ma poi non riesce a definire una via teorica con cui garantire uno stabile legame con la legge. La legge vincola, ma nulla vincola alla legge. La legalità dovrebbe esprimere un’immutabilità di principio, nonostante la mutabilità di fatto delle norme. Dovrebbe essere un momento di chiusura assoluto e non problematizzabile: tanto necessario concettualmente quanto inesistente empiricamente. E infatti il concetto di legalità si allarga in quello di legittimità, tende a ricomprendere il problema della giustificazione del potere di emanare norme, della giustificazione dell’autorità e, di riflesso, della soggezione all’autorità. Abbiamo un ampliamento o una contrapposizione di concetti? La legalità presuppone la legittimità, ma la legittimità non è deducile dalla legalità se prestiamo fede all’osservazione di Böckenförde secondo cui «lo Stato liberale, secolarizzato, vive di presupposti che esso di per sé non può garantire»[6]. I giuri­sti oggi si trovano avviluppati in questa contraddizione che non sanno risolvere, ma che non riescono neppure a mettere da parte: avvertono l’evidente crisi del principio di legalità e intanto sanno di non poter rinunziare a pensare in termini di «legalità»[7]. Un disagio che si riflette involontariamente anche nell’uso linguistico ormai costante di circonlocuzioni del tipo «quale che sia», «in qualche misura», per indicare il legame, necessario ma indecifrabile, tra il giudice (e, più in generale, il giurista) e la legge.

Sotto questo punto di vista, non possiamo fare a meno di porre la domanda: la legalità, il sovrappiù che pretendiamo di scorgere oltre la singola norma, è un mito? I miti, nel senso classico dell’espressione, hanno sempre il compito di fondare un’esperienza umana a partire da una frattura, dalla rottura di un equilibrio. Il mito, come rivela già la sua radice etimologica (narrazione, favola), racconta quello che la ragione non riesce ad analizzare, ma non può neppure escludere o confutare. È necessario dare per presupposti questi racconti; è inutile pretendere di ricondurli entro un quadro definito di premesse e spiegazioni. I miti sono sempre al plurale, sempre infiniti racconti diversi del medesimo evento. Non è importante, infatti, la coerenza del racconto, ma la sua carica rivelativa… un po’ come la poesia che non ci colpisce per la rigorosità della trama, ma per la bellezza dei singoli versi. Il mito costituisce, dunque, il «pregiudizio» teoretico che rende pensabile tutto ciò che altrimenti sarebbe impensabile, perché sfuggente, equivoco, contraddittorio… Anche se non troviamo Giove o Apollo, possiamo ugualmente denunciarne la «presenza» in tutte quelle «costruzioni che, implicitamente o esplicitamente… ci permettono di collegare tra loro le componenti condizionate e mutevoli dell’esperienza, riferendole a realtà incondizionate…»[8]. Sotto questo punto di vista non è un caso se una delle analogie cui il pensiero umano ha fatto con maggior insistenza ricorso[9] sia quella tra pensiero teologico e pensiero giuridico-poli­tico. Il fondamento della politica è lo Stato? Il fondamento del diritto è la legalità? Tuttavia nessuno ha mai visto lo Stato, ma solo singoli atti d’autorità; nessuno ha mai visto la legalità, ma solo singole norme. Eppure tutti si comportano come se l’uno e l’altra esistessero nella stessa misura in cui la maggior parte delle persone crede in Dio, anche se non ne ha mai avuto la percezione materiale. Al di là di un accostamento così banale, nell’incontro tra la legalità come dato essenziale, eppure inverificabile, di pensabilità del diritto e Dio come dato essenziale, eppure sfuggente, di pensabilità del mondo troviamo un processo inibitorio e una carica rivelativa, che meritano una particolare attenzione.

Abbiamo un processo inibitorio in tutte quelle forme di negativismo e di nichilismo che avvertono il problema della legalità come presenza di un vincolo, ma intanto pretendono di dimostrare che questo vincolo non ha alcuna essenza. È un espediente mentale che inibisce la proposizione di ulteriori problemi. Vincola proprio perché non vincola ad alcuna precisa visione dell’uomo o della società. Sotto questo punto di vista mi sembrano particolarmente indicative tre prospettive: una legalità senza legittimità (Kelsen), una legittimità senza legalità (Schmitt) e, in­fine, una legalità senza senso (Legendre).

La scelta non è ca­suale né sul piano della storia delle idee del nostro secolo né su quello strettamente teore­tico[10]. Sul piano della storia delle idee, il ruolo della teologia nella costru­zione degli schemi giuridici e, in particolare, della relazione tra Stato e di­ritto rappre­senta uno dei tanti punti di polemica tra Kelsen e Schmitt. Ripro­porre le grandi linee di que­ste visioni alternative serve, in fondo, a «ripassare» alcuni dei punti centrali della sempre aperta questione della «giuridicità» del politico e della «politicità» del giuridico. Sul piano teoretico, il richiamo teo­logico finisce per spingere l’argomentazione fino ai suoi dati estremi, mettendo in discussione il fondamento stesso dell’esperienza giuridica: possiamo pensare il diritto e lo Stato senza affrontare il problema del ruolo di Dio nel mondo e, quindi, il problema dell’origine di ogni pensiero e di ogni vincolo? Schmitt è profondamente consapevole che le vere catego­rie in discussione sono quelle di tra­scendenza e metafi­sica. Kelsen è profondamente con­vinto che proprio di queste categorie dobbiamo liberarci. Nello sfondo intravvediamo Kierkegaard e Freud. Kierkegaard con l’idea che l’uomo trovi nella tensione delle scelte più profonde, le radici di un’esistenza che non sarà mai integralmente ed esclusivamente sua. Freud con l’idea che l’uomo trovi solo in sé stesso, nelle turbe nascoste del proprio intimo, le ragioni della propria condizione. Un’alternativa che riflette l’irruzione nel secolo scorso (e ancora nel nostro?) delle masse al centro dell’orizzonte politico. Una massa che si costituisce attraverso l’identificazione con qualcosa che la trascende: la razza, la classe, la nazione. Una massa che si costituisce attraverso le proprie suggestioni: il «Super io» come rappresentante del politico nella teoria dell’inconscio e dello psichico nella teoria politica[11].

In Schmitt, la teoria della legalità riproduce lo sfondo metafi­sico del conflitto tra bene e male della teodicea che, attraverso il marchio di Caino, si manifesta nell’alternativa politica radicale tra amico e ne­mico. In Kelsen, la teoria della legalità esprime, attraverso l’indecifrabilità della «norma fondamentale», un ordinamento che si auto-genera e auto-produce senza offrire una ragione all’essere del proprio dover essere. Schmitt non ha dubbi nel porre l’eccezionalità della presa di posizione radicale sul senso dell’esistenza a fondamento delle articolazioni giuridiche. Kelsen è incerto nello spiegare da cosa deriva un ordinamento giuridico: l’inizio dell’ordine delle norme non è mai così «puro» da essere solo uno schema logico o così «impuro» da es­sere solo un atto di volontà, allo stesso modo in cui cono­scenza e vo­lontà sem­brano confondersi in Dio e la teologia oscilla tra l’una e l’altra visione, tra un Dio «pensiero del pensiero» e un Dio «volontà della volontà».

La terza prospettiva che qui propongo si affida, invece, all’analisi di uno studio Le désir po­litique de Dieu. Étude sur les montages de l’état e du droit di Pierre Legendre[12] che riguarda più la psicologia e la storia delle istituzioni che la teoria del diritto. Tuttavia, mi sembra riesca a rendere molto bene il paradosso dell’insensato come senso della legalità verso cui ci sospingono sia il funzionalismo sia il realismo giuridico. Nella ritualità delle procedure (funzionalismo) e nella fatalistica fiducia nella conformità del comportamento dei giudici (realismo) non troviamo né il bisogno logico di un Dio (Kelsen) né il bi­sogno politico di trascendenza (Schmitt), ma l’esigenza psicologica di attribuire a ogni comportamento sociale dei referenti costanti che rendano comunicabile l’incomunicabile, affidabile l’inaffidabile.

Per quanto siano tra loro diverse, tutte queste prospettive affrontano il problema della legalità nei termini dell’essenza di un vincolo. Ci mostrano che la domanda su cosa vincola le norme tra loro, non è separabile da quella ulteriore su cosa vincola l’uno al tutto (Dio), il pensiero all’esigenza del pensare (Dio), l’uomo all’uomo. Ci mettono, insomma, di fronte a quella carica rivelativa implicita nel problema dell’oltre, del sovrappiù[13]. Non lo risolvono, lo registrano: Dio è presente nel ragionamento dei giuristi; l’esigenza di un vincolo è presente nel ragionamento dei giuristi. Anzi ci dicono ancora di più: Dio è presente e non può non essere presente. Avremmo, quindi, una premessa necessaria e inspiegabile, tanto difficile da definire compiutamente quanto impossibile da accantonare definitivamente. Io vorrei provare a riflettere proprio su questo apparente paradosso, per dimostrare come attraverso le riflessioni di Kelsen, Schmitt e Legendre, sia possibile incominciare a definire alcuni elementi di questo oltre, di questa presenza del divino nell’esperienza giuridica: non come suggestione da demistificare, ma come «essenza» di ogni vincolo, condizione di pensabilità del diritto.

Si tratta di un semplice muta­mento della prospettiva, un modo per cercare di intravedere quello che, attraverso un diverso approccio, restava magari nell’ombra. Non possiamo non pensare al delizioso aneddoto che ci racconta Er­nst Bloch.

 

«Un altro rabbino, vero cabalista, disse una volta: per instaurare il regno della pace non è necessario di­struggere tutto e dare inizio a un mondo comple­tamente nuovo; ba­sta spostare solo un pochino questa tazza o quell’arbusto o questa pietra, e così tutte le cose. Ma questo po­chino è così difficile da realiz­zare e la sua misura è così difficile da trovare che, per quanto riguarda il mondo, gli uomini non ce la fanno ed è necessa­rio che ar­rivi il messia»[14].

 

E anche nel nostro caso forse baste­rebbe discostarsi solo un po’ dalle conclusioni di Kelsen, Schmitt e Legendre per trovare uno spunto ulteriore di riflessione. Il problema è solo quello, tanto semplice quanto impossibile, di tro­vare la cor­retta misura di questo distacco.

 

 

  1. Kelsen: la legalità come immanenza

 

Kelsen è un pensatore così rigorosamente sistematico che è quasi riuscito a cancellare, di una produzione vastissima, le opere minori, gli scritti d’occasione, le riflessioni marginali. Nel tornare e ritornare, con una punti­gliosità notarile, sui propri pensieri ha finito per porre un ideale asterisco d’autorevolezza alle intui­zioni più rilevanti, riproponendole, se non addirit­tura riproducendole integral­mente nelle opere principali in quel conti­nuo ed in­stancabile affinamento della dottrina pura del diritto che lega in un’unica trama gli Hauptprobleme degli anni giovanili all’Allgemeine Theorie der Normen degli ultimi anni di vita.

In un simile contesto non è casuale che egli stesso affermi di aver più volte fatto ricorso a «quell’analogia solo apparentemente paradossale, che ri­corre tra il concetto di Dio e il concetto di Stato per una ricerca più pro­fondamente penetrante che persegua le tracce della tecnica concettuale e dell’economia del pensiero»[15]. L’asterisco d’autorevolezza, il luogo in cui l’argomento è am­piamente svilup­pato in diverse possibili sfaccettature, sta nel saggio Dio e Stato, apparso sul vol. 11, 1922-23, della rivista «Logos»[16]. La connessione con la dot­trina pura sta nell’analogia dei “procedimenti mentali” che esigono di pensare ad una norma fonda­mentale sul modello dell’idea di un Dio supremo: l’una  e l’altro sono «condizioni logico-trascendentali» della conoscenza che con­sentono di «interpretare il senso soggettivo dell’atto costituente  e degli atti statuiti con­formemente alla costituzione come loro senso oggettivo»[17]. Il problema di ogni teoria consiste nello spiegare in che modo tanti singoli atti soggettivi di volontà (la volontà del legislatore, la volontà del giudice, la volontà di chi stipula un contratto) finiscano per diventare quell’entità oggettiva e vincolante che chiamiamo diritto. In che modo quello che io voglio, quello che il giudice vuole, possono diventare un vincolo generale che tutti devono rispettare, che tutti devono volere (un contratto, una sentenza)? Kelsen trova la risposta nella norma fondamentale che chiude dall’interno i processi argomentativi, fondando la vali­dità dei singoli atti giuridici, e tuttavia resta all’esterno, ricavando validità da se stessa. Un atto soggettivo di volontà è diverso da un atto giuridico perché solo quest’ultimo è autorizzato da una norma che è autorizzata da un’altra norma e cosi via fino alla norma fondamentale. Allo stesso modo,

 

«un’etica teologica, conside­rando Dio come la massima autorità creatrice di norme, non può ritenere che qualcun altro abbia ordinato di obbe­dire agli ordini di Dio. E se si fosse suppo­sto che la norma, secondo cui bisogna ubbidire agli ordini di Dio, fosse statuita da Dio stesso, essa non potrebbe es­sere il fonda­mento della validità delle norme poste da Dio, dal momento che essa stessa sa­rebbe una norma posta da Dio. An­che l’etica teolo­gica come tale non può statuire questa norma, cioè ordinare di ubbidire agli im­perativi divini, perché, essendo una conoscenza, non può essere un’autorità che produce diritto»[18].

 

Questa intronizzazione della norma, per usare la felice espressione di Merkl[19], appare, sin dalle prime opere kelseniane, intimamente legata all’alternativa tra conoscenza e autorità. Stava già al centro di Der soziologi­sche und der juristische Staatsbegriff, l’opera in cui si manifestava per la prima volta la sug­gestione dell’idea di Dio come momento supremo e non derivato (di conoscenza o di autorità?) con cui spiegare il motivo per cui ogni sistema nor­mativo deve avere un solo centro di «osservazione, valuta­zione e spiegazione»: una norma originaria (Ursprungsnorm)[20]. Si tratta di una serrata analisi del pensiero teologico tesa a dimostrare come questo abbia alla propria base un dato teoretico ineliminabile: Dio, nel suo essere Dio, non può che es­sere unico ed esclusivo. Il biblico «Non avrai altro Dio fuori che me» non è un atto di autorità, un co­mando rivolto all’uomo, ma una raffigura­zione intellet­tuale che si offre alla nostra cono­scenza, anzi è la condizione di ogni cono­scenza. Che Dio sarebbe mai quello che ha bisogno di ordinare di aver fede solo in lui? Altri­menti? Altri­menti, gli verrebbe contestata la qualità divina? e da chi? Un Dio che ordinasse al mondo di ubbidirgli sarebbe auto-confutatorio, verrebbe egli stesso a mettere in discussione la propria autorità.

Non abbiamo, quindi, una vo­lontà assoluta che si impone alla no­stra conoscenza limitata, ma un nostro atto di conoscenza che attinge all’assoluto, nel senso che non ammette logicamente alter­native (non avrai altro Dio fuori che me), e solo in quanto tale vincola la nostra volontà. Per fare un esempio banalissimo (e non kelseniano), potremmo affermare che il tempo è la condizione logico-trascendentale di pensabilità dell’orologio nel senso che, se non avessimo l’idea del tempo, non potremmo neppure immaginare uno strumento attraverso il quale misurarlo. Il tempo è la conoscenza minima e fondamentale (Ursprungsnorm) dalla quale partire per pensare l’orologio. Ho già affermato che l’esempio forza e banalizza l’impostazione kelseniana[21]. Tuttavia riesce a rendere l’idea di quanto, in questi termini, il principio d’autorità serva poco. Il tempo non impone uno strumento di misura, non ci impone di usare l’orologio, ma usiamo uno strumento di misura in quanto conosciamo l’idea di tempo e in forza di questa conoscenza vogliamo (qui si colloca il momento dell’autorità) costruire infinite cronologie, imporre limiti, fissare scadenze. Non ci sono autorità e volontà, senza conoscenza. Voglio e ordino, perché so.

Con un analogo procedimento mentale, l’ordinamento giu­ridico appare in­nanzitutto una validità suprema (conoscenza), l’unico possi­bile centro logico di rife­rimento, piuttosto che un’esistenza suprema (autorità). Non è la volontà del giudice a determinare la sua autorità, e quindi l’obbligatorietà della sentenza, ma il fatto che io so che questa volontà è autorizzata da una norma che trae fondamento da una serie di ulteriori meccanismi autorizzativi che fanno capo a un momento fondamentale (e fondativo) iniziale. Ha poca importanza che questa norma fondamentale esista o non esista: io non posso distinguere un atto di volontà da un atto di autorità senza presuppore la norma fondamentale. Sul piano fattuale possiamo avere infiniti comandi contraddittori che provengono dalla stessa autorità o da autorità diverse. Sul piano logico è, invece, indispen­sabile af­fermare il prin­cipio di esclusività perché non posso ubbidire e non ubbidire nello stesso tempo. La condizione di pensabilità dell’insieme delle norme come si­stema unitario e coerente riposa, quindi, sulla capacità di riconoscere un solo centro univoco di riferimento. C’è Dio e nient’altro che Dio. C’è la norma fondamentale e nient’altro che la norma fondamentale. L’elaborazione teo­logica serve a Kelsen per compiere un passo decisivo: trasformare la sovranità da esistenza suprema in va­lidità suprema; da situa­zione di fatto (Dio c’è) a modello del pensiero (deve esserci Dio). Non sappiamo[22] quanto Kelsen sia stato influenzato dalle riflessioni di Freud sui nostri meccanismi inibitori e sul rapporto tra l’istituzione del tabù dell’incesto e l’invenzione della religione. Certo è che Freud sosteneva che fosse di natura illusoria «un altro patrimonio dell’umanità che noi altamente apprezziamo e al quale affidiamo il governo della nostra vita; vale a dire se i presupposti che regolano i nostri ordinamenti statali non debbano parimenti esser chiamati illusioni e se le relazioni tra i sessi della nostra civiltà non siano turbati da  una o da una serie di illusioni erotiche»[23].

Resta, tuttavia, aperto il dubbio se questa inca­pacità di co­struire un’immagine del mondo e di noi stessi senza dover ricor­rere a un modello com­plessivo inglo­bante non sia il segno del limite intellet­tuale della nostra conoscenza. Perché mai ricorriamo al concetto di Dio e alla sfera reli­giosa per capire il mondo? Perché abbiamo bisogno del concetto di sovrano e di Stato per ca­pire il diritto? È una necessità teo­retica o un’ideologia sociale? Quale radice psichica, «quale com­plesso di rappresentazioni viventi nella coscienza dell’umanità», sta alla base dell’identità tra atteggiamento religioso e costru­zione politica? In Dio e Stato Kelsen non si appaga della consta­tazione dell’analogia e neppure della facile rilevazione del biso­gno di «un tutto sen­tito come qualcosa di supremo che condi­ziona e rende possibile la propria esi­stenza di membro…». Il problema cruciale è capire la «situazione gnoseologica» che sta dietro quell’ansia di totalità, con i suoi correlati di infallibilità, onnipotenza, onnivalenza, su cui si fonda l’ideologia sociale dell’identità tra Dio e Stato. Se strappiamo «la maschera al volto degli attori» troviamo soltanto un meccanismo imperfetto del pen­siero. Nel concetto di Dio elaborato dalla teo­logia si rinvengono, infatti, due funzioni profondamente di­verse: Dio è lo scopo e la causa. È tanto il fine su­premo del tutto (sommo bene) quanto la causa originaria del tutto. «Egli serve sia alla giustificazione di ogni dovere sia alla spiegazione di ogni essere, la sua vo­lontà è tanto la norma etica quanto la legge naturale»[24]. Il mondo del dover es­sere (quello che Dio ha voluto) e il mondo dell’essere (quello che Dio ha creato) dovrebbero coincidere in un’unità che è logicamente insostenibile. La possibilità (voglio il mondo) non è la necessità (il mondo esiste). La causa non è il fine. Il normativo non è il fattuale. E soprattutto l’essere non può coin­cidere con il dover essere, nella prospettiva di un non cognitivismo che Kelsen non cita mai esplicitamente in questo saggio, ma di cui su­bisce l’evidente condi­zionamento.

Il primitivo non avverte il problema. Risolve questo «scoppio logico» di concetti nell’ingenuità della visione antropomorfica. Volendo capire il mondo, lo per­sonifica in un tutto dotato di senso (il Dio creatore), confondendo lo stru­mento della conoscenza (l’ipotesi che tutto abbia un senso) con l’oggetto della cono­scenza (il senso del tutto: Dio). La stessa ipostatizzazione av­viene attraverso il concetto di Stato. Per spiegare l’unità astratta dell’ordinamento giuridico, si crea una persona (lo Stato) «la cui volontà è il contenuto dell’ordinamento giuri­dico». Ed ecco riprodursi l’assurdo dualismo della teolo­gia. Lo Stato sa­rebbe un ideale e un fatto; il potere e la personificazione del potere, la validità del dovere e l’effettività dell’essere.

 

«L’atto psichico della rappresentazione delle norme che formano l’ordinamento statale è un fatto del mondo della realtà natu­rale ed ha – in quanto causa – i suoi effetti. La forza motivante ora maggiore ora minore di queste rappresentazioni è sicuramente un “potere” nel senso naturale, solo che questo fatto non può essere mischiato con quell’ordine idealmente nor­mativo che trova conside­razione solo come ordinamento dello Stato o ordinamento giuridico[25]».

 

Kelsen sviluppa una dettagliata casistica in cui la teologia e la teoria del diritto sembrano seguire i medesimi e «primitivi» percorsi mentali. Come l’idea di incarna­zione aiuta a spiegare l’assurdo di un Dio, onnipotente e senza vin­coli, ep­pure soggetto alle leggi di natura fino al punto di morire, così la teoria del diritto pubblico escogita la dottrina dell’auto-obbligazione dello Stato per giustificare il fatto che il creatore onnipotente del diritto sia, nello stesso tempo, soggetto al diritto fino al punto di essere condannato se compie un atto illecito. La teodicea serve a trovare un motivo alla presenza del male in quel sommo bene che è l’ordine divino? La teoria dell’illecito dello Stato svolge l’analogo ruolo di spiegare come lo Stato possa compiere atti illegittimi, trasgre­dire la legge e intanto essere la «legge». Stesso tipo di ragionamento potremmo fare per il rapporto tra l’idea di miracolo e quella di diritto pubblico. La teologia concepisce l’uno come deroga im­posta dalla volontà divina alle leggi di natura, la dottrina costruisce l’altro come qualcosa di diverso dal diritto privato, pur essendo entrambi atti dello Stato (Staatsrecht).  Vi sarebbe «più Stato» nel diritto pubblico come vi sarebbe «più Dio» nel miracolo…

Incarnazione, miracolo, teodicea, auto-obbligazione, illecito dello Stato, pubblico e privato, sono il frutto di uno pseudo-problema: il rapporto impossibile tra un sistema e la sua ipostatizzazione. Abbiamo una sostanzializ­zazione che presenta Dio e lo Stato come essenza e fondamento del mondo e del diritto, men­tre sono il mondo e il diritto. Non esiste un soggetto creatore e un oggetto creato. Dio è il mondo e il mondo è Dio; lo Stato è il diritto e il di­ritto è lo Stato. Ogni preteso dualismo riesce a mascherare la propria evidente as­surdità logica e fragilità teo­rica solo attraverso l’idea di trascendenza. La trascen­denza di Dio rispetto al mondo diventa anche la trascendenza dello Stato rispetto al diritto, presentando questa fittizia dualità come quella «peculiare unità» in virtù della quale, per capire la na­tura, è indispensabile il concetto meta-naturale di Dio e, di ri­flesso, per capire l’ordinamento giuridico è neces­sario il con­cetto meta-giuridico e meta-positivo di Stato.

Secondo Kelsen, la scienza moderna ci ha liberato definitiva­mente sia dal condiziona­mento metafisico di un’unità ideale tra­scendente le singole manifesta­zioni reali sia dalla conseguente ansia di sostanzializzazione che raffigura il mondo a misura di un’inattingibile essenza a priori. «… Dio e Stato esistono solo se e nella misura in cui ci si crede, e vanno in fumo con la loro eccezio­nale potenza, che ha riempito la storia del mondo, non ap­pena la mente umana si libera di que­sta credenza»[26]. Questa liberazione, a livello epistemologico, è avvenuta so­stituendo all’idea di sostanza quella di funzione che commisura ogni conoscenza ai livelli oggettivi di rilevazione empirica. La domanda, cos’è il mondo, è stata sostituita da quella su come funziona, dall’analisi delle leggi che determinano la struttura di ogni cosa. La scienza moderna ci ha abituato a non cercare più l’essenza dell’universo (Dio), ma leggi attraverso cui si articola. L’universo è l’insieme di queste leggi. Allo stesso modo lo Stato non esiste come essenza, ma è un insieme di norme, l’insieme degli atti attraverso cui funziona. Se possiamo elaborare una scienza della natura senza Dio, anche la scienza del di­ritto, in quanto dottrina pura del diritto, deve distruggere l’abuso della pseudo-idea di Stato. Lo Stato è l’ordinamento giuri­dico: la dottrina pura del diritto è quindi, senza nulla di pa­radossale, una teoria dello diritto senza Stato, se non dello «Stato senza Stato».

Kelsen definisce, non so con quanta ironia, questo suo modo di proce­dere un «anarchismo puramente gnoseologico». In effetti, si tratta di un modello teo­rico in cui il preteso processo di raziona­lizzazione delle costruzioni giu­ridiche coincide integralmente con il radicale rifiuto di qualsiasi fondamento dell’esperienza del diritto, e addirittura dell’esperienza del mondo stesso, che vada oltre i limiti del verificabile empiricamente. Tuttavia Kelsen, se è anar­chico, non è un anar­chico così «puro» come vorrebbe fosse la sua teoria. Sono stati spesi volumi e volumi per dimostrarci che non riesce a liberarsi di un re­siduo, costante ed assil­lante, di arché: la norma fondamentale. Abbiamo visto preceden­temente che la Dottrina pura affronta l’analogia tra Dio e Stato per spiegare i motivi per cui non si può fare a meno di pensare a una norma fon­damentale e per chiarire quale esigenza logica na­sconda questo trabocchetto concettuale al quale egli non intende, nonostante le continue e costanti critiche, rinunciare. La solu­zione è la stessa già formulata nello studio sul concetto so­ciologico e giuri­dico di Stato del ’22: la norma fondamentale non può essere un atto di vo­lontà, ma deve essere un atto di conoscenza così assoluto ed incondi­zionato da assumere una forza costitu­tiva vincolante. E’ così e non può es­sere diversamente… come il numero, come Dio, sembra dirci Kelsen, mentre at­tribuisce alla norma fonda­mentale fattezze quasi aristoteliche: pensiero del pensiero[27].

Questa prospettiva cambia lentamente, a mano a mano che Kelsen accentua gli aspetti volontaristici del suo pensiero. La Teoria generale delle norme, l’opera che lascia incompiuta e a cui dedica gli ultimi anni di vita, è percorsa dal fascino e insieme dal tormento di eliminare ogni re­siduo logico e contenutistico dalla cono­scenza del diritto. La norma fondamentale non svolge più quel ruolo di ipotesi lo­gica di pensabilità teoretica del sistema che le aveva affidato la Dot­trina pura, ma diventa una finzione necessaria: il col­lante empirico degli atti di volontà. È il «nesso generativo» che «stabilisce chi debba sta­tuire le norme dell’ordinamento», «statuisce l’atto della statuizione». Il pro­blema della coordina­zione sistematica tra le norme si risolve, quindi, nell’individuazione delle gerarchie di sovra- e sotto-ordinazione e il quesito sulla validità dell’ordinamento giuridico va a parare nell’enigma di chi può au­torizzare l’autorizzazione di ogni singola statuizione. Qui Kelsen sfiora le ver­tigini di una volontà che, per essere così assoluta da non tradire alcun condi­zionamento con­tenutistico, è sempre e soltanto relativa a sé stessa: deve volere di volere. Una sorta di «autismo» che non può non rievo­care Dio nella sua assoluta autosufficienza come arbitrio assoluto, come volontà che vuole perché vuole: «la validità della norma statuita da Dio “Gli uomini non devono uccidere altri uomini”, come tutte le norme statuite da Dio, trova fondamento nella presupposta validità della norma fondamentale, cioè è con­forme alla norma fonda­mentale presupposta che autorizza Dio a sta­tuire norme»[28]. Come non è possibile trovare chi autorizza Dio a porre norme così non è possibile trovare chi attribuisce legalità al sistema delle norme. Dunque, non c’è conoscenza senza volontà e autorità. Conosco perché voglio.

Non mi viene in mente altro commento che la sofferta constata­zione di Horkheimer: «È vano salvare un senso incondizionato senza Dio»[29]. Il processo di razionalizzazione dell’Illuminismo ha un solo esito coerente il nichilismo. Horkheimer lo constatava con tristezza: senza metafisica e senza ricerca della ve­rità non è possibile né trovare un fondamento plausibile alla conoscenza né dare un senso compiuto e definitivo all’impegno etico. Mi pare che il lento pro­gredire di Kelsen verso gli esiti della Teoria gene­rale delle norme sia proprio la manifestazione evidente di una ri­cerca di senso (la norma fondamentale) che finisce per sfociare nel non senso (la volontà della volontà). E così abbiamo un diritto dello Stato senza Stato e una teoria della legalità senza legittimità.

 

 

  1. Schmitt: la legalità come trascendenza

 

Schmitt, nella Teologia politica, conduce una decisa polemica contro que­gli estremi del riduzionismo metodologico kelseniano che finiscono per costruire tutto il pensiero umano a ricalco delle scienze naturali, ignorando persino qualsiasi differenza tra legge di natura e legge normativa, tra causa e crea­zione, tra sostanza naturalistica e dottrina politica della titolarità del po­tere: «crede che la critica di Hume e Kant al concetto di sostanza possono es­sere trasferite alla dottrina dello Stato, senza scorgere che il concetto di so­stanza del pensiero scolastico è cosa diversa da quello del pensiero delle scienze matematiche e naturali»[30]. La polemica ha per oggetto Der soziologi­sche und der juristische Staatsbegriff e si rivolge, quindi, solo al Kelsen classico o addirittura pre-classico ancora molto lontano dagli ultimi esiti volontaristici. Pone tuttavia in luce un aspetto che rimane costante in tutto il pensiero kelse­niano: quello di non riuscire ad andare oltre una «sociologia della concettualiz­zazione» (credo si possa chiamare così) nel senso che individua astrattamente un certo percorso intellettuale, ad esempio «il legame logico tra teologia e giuri­sprudenza», e attraverso questo percorso pretende di spiegare qualsiasi schema mentale, ignorando «l’eccezione», la particolarità tipica di ogni costruzione del pen­siero umano. Si limita ad osservare l’analogia tra processi di astra­zione, metodologie olistiche, tecniche di inferenza senza fare nessuna diffe­renza tra la varietà e complessità dei singoli referenti teoretici. In questo modo tutto appare uguale (il culto di Dio, il culto degli idoli e il culto del sovrano) e tutto affetto dagli stessi vizi logici.

Nel concetto di norma fondamentale avvertiamo l’influenza di Freud? L’influenza dell’idea che i meccanismi inibitori, e quindi l’esigenza della normatività, derivino da noi stessi, da quanto ci portiamo dentro e poi trasformiamo nella normalizzazione di paure e illusioni. Allo stesso modo è possibile scorgere Kierkegaard dietro la centralità dell’eccezione come «forza della vita reale»[31] nel pensiero di Schmitt. L’eccezione come dato costitutivo della sovranità, come situazione limite da cui trae origine il diritto (Grundnahme), dissolve la facile immanenza di una ripetitività che si propone e ripropone continuamente in una normalità senza mistero, per porre il problema della trascendenza in tutta la radicalità delle sue inquietudini.

Schmitt rifiuta la logica della secolarizzazione che si appaga di utilizzare concetti sui cui fondamenti non si interroga, perché inutili o illusori. Come abbiamo visto già negli scritti giovanili, e in particolare in Gesetz und Urteil del 1912, critica la pretesa kelseniana di tenere rigidamente separate indagine giuridica e indagine sociologica per elaborare «una teoria del diritto valido, la quale, muovendo dal proposito di prescindere da tutto ciò che non sia deducibile dalla legge, non ha per sua natura nulla a che fare con il metodo che procede dalla prassi»[32]. Schmitt intende invece assumere integralmente al centro delle sue riflessioni la prassi da cui deriva l’ordine dei rapporti sociali, la Grundnahme che sta oltre ogni Grundnorm. «Nessuna validità normativa si fa valere da sé; e non esiste neppure -se non si vuole indulgere a metafore o allegorie- alcuna gerarchia delle norme, ma solo una gerarchia di persone e di istanze concrete»[33].

A differenza di quella sociologia della concettualizzazione che induce Kelsen a riflettere sul perché si formano certi concetti e che ruolo svolgono nel processo di teorizzazione, Schmitt intende sviluppare una sorta di «sociologia dei concetti» che si fonda proprio sulla peculiarità di ogni percorso intellettuale, rintracciando prima «la struttura ultima e radicalmente sistematica» dei concetti di teologia e di politica e comparando poi questa struttura concettuale con «la struttura sociale di una determinata epoca»[34]. Schmitt non analizza idee, ma gli uomini o i fatti che stanno dietro le idee. Se Kelsen domanda quali sono le condizioni di pensabilità di Dio e del diritto, Schmitt domanda quali sono le condizioni di pensabilità del Dio cristiano, o forse meglio cattolico, e del diritto in un certo momento storico. Se l’uno privilegia la prospettiva astratta, cercando di analizzare il modo in cui l’uomo ha sempre pensato, l’altro esaspera i particolari per cogliere in che modo il «moderno» concepisca e non possa non concepire Dio e il diritto a partire dai presupposti culturali che ha alla base. Un particolarismo che, esaminando ogni co­struzione nella sua radi­calità teoretica e storica, evidenzia l’esistenza di te­ologia e teologia, di politica e politica, con tutta una serie di legami ed esiti assolutamente inconciliabili tra loro. Il nucleo centrale di queste diffe­renze è rappresentato dalla contrapposizione tra due «metafisiche», tra due vi­sioni del mondo alternative: dominate l’una dalla tra­scendenza e l’altra dall’immanenza; l’una dal modello dell’architetto e del crea­tore, l’altra dal modello della macchina che si muove da sé.

La macchina è, a suo avviso, il simbolo del processo di secolarizzazione con cui l’uomo, attraverso la scienza e la tecnica, si è auto-investito del per­fezionamento del mondo. Il «moderno» si ra­dica nella sicurezza di un continuo pro­gresso eretto sugli ideali ra­zionalistici dell’oggettività, stabilità, certezza e calcolabilità di qualsiasi legge, tanto naturale quanto umana: «l’idea del mo­derno Stato di diritto si realizza con il deismo, con una teologia e una metafi­sica che esclude il miracolo dal mondo e che elimina la violazione delle leggi di natura, contenuta nel concetto di mira­colo e produttiva, attraverso un inter­vento diretto di una eccezione, allo stesso modo in cui esclude l’intervento di­retto del sovrano sull’ordinamento giuridico vigente»[35]. È il mondo della neutralizzazione, della spoliticiz­zazione e della deresponsabilizzazione in cui il momento fondativo dell’ordine dello Stato si risolve nell’insieme impersonale dell’ordinamento giuridico e l’immediatezza radicale della decisione politica nel complesso anonimo delle procedure dell’apparato burocratico. In questo domi­nio dell’immanenza il deismo di Hegel incontra l’ateismo di Kel­sen, lo storicismo dell’uno si trasforma nel funzionalismo dell’altro, assu­mendo ora l’aspetto «pragmatico-razionale» di una volontà popolare russoviana­mente sempre giusta ed indiscutibile, ora la ve­ste teorica di un potere costi­tuente kelsenianamente invisibile ed intangibile, ora la condizione di assogget­tamento a un mer­cato già perfetto nei suoi equilibri. In ogni caso oltre la prassi c’è il vuoto, «un funzionalismo e formalismo senza motivazione e senza riferimenti con­creti».

L’analogia tra Stato e Chiesa che si sviluppa nei particolari percorsi della Teologia politica ha, quindi, un ruolo innanzitutto dirompente, ponendosi come netta alternativa alla dissoluzione, nella modernità, del momento sogget­tivo e tra­scendente. La sociologia dei concetti assume sempre più i caratteri di un’analisi dei limiti teoretici di pensabilità della nostra cultura. L’affermazione secondo cui «tutti i concetti più pregnanti della moderna dot­trina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati»[36] non si li­mita a rilevare un uso linguistico o una desueta psicologia dell’agire sociale, ma sot­tolinea un nodo problematico ineludibile: la teologia è la chiave di com­prensione della politica e la politica è la chiave di comprensione dell’antropologia. La secolarizzazione non determina, quindi, solo la cancella­zione del politico, ma la stessa messa in discussione dell’umano. Se Dio scom­pare dall’orizzonte di comprensione del mondo e la Chiesa si riduce allo svago dome­nicale «per curare i dolori della libera concorrenza»[37], l’uomo perde ogni identità e diventa il meccanismo anonimo di una società di produttori e consuma­tori, pacificata perché resa indifferente alla domanda di senso che le viene dall’esistenza.

Dio e politica nascono assieme e tramontano assieme. Le istituzioni (lo Stato, la Sovranità o la stessa Legislazione), che in Kelsen sono pure astra­zioni concettuali ipostatizzate e personificate, residui logori del bisogno pri­mitivo e irrazionale di totalità, appaiono in Schmitt le specifiche creazioni con cui la politica avvicina il divino all’umano, esprimendo lo sforzo supremo per dare un senso al mondo, per rendere visibile l’invisibile.

Pensiamo al problema della «rappresentanza» politica. Per Kelsen è soltanto una tecnica di assunzione delle decisioni: un insieme di norme attraverso le quali i cittadini attribuiscono ai governanti il potere di assumere decisioni collettive. Per Schmitt è, invece, la rappresentazione, proprio nel senso di raffigurazione, speci­fica e reale dell’identità di un popolo. «Qualcosa di morto, qualcosa di scadente o privo di valore, qualcosa di basso non può essere rappresentato»[38]. La rappresentanza è quindi la dimensione esistenziale dell’unità di un popolo, espressa dalla sovranità nelle forme del diritto. L’ethos di una comunità spirituale si incontra con il pathos dell’autorità: trova in questa la sua «rappresentazione» e la giustifica con la sua presenza. «…nella realtà concreta dell’esistenza politica non governano ordinamenti e insiemi di norme astratte, ma vi sono sempre soltanto uomini o gruppi concreti che dominano su altri uomini o gruppi concreti»[39]. Solo nella Chiesa troviamo questi concetti in tutta la loro pu­rezza e pienezza. «La Chiesa rappresenta la civitas humana, rappresenta in ogni attimo il rapporto storico con l’incarnazione e con il sacrificio in croce di Cristo, rappresenta Cristo stesso in forma personale, il Dio che si è fatto uomo nella sua realtà storica. Nel rappresentare sta la sua superiorità su di un’epoca di pensiero economico»[40].

Potremmo quasi affermare che la politica appare qui l’attestazione profonda e definitiva di un atto di fede: Dio c’è. Come in Kelsen la dottrina pura del diritto rappresenta l’esemplificazione massima di uno sforzo intellettuale: Dio non c’è o quantomeno non è rilevante nei processi di teorizzazione. È come se Schmitt ci dicesse: «Dio c’è e quindi c’è Cristo e quindi c’è la Chiesa e quindi l’uomo con il problema radicale della decisione tra il bene e il male». Kelsen sembra dirci, invece: «Esiste la Chiesa perché abbiamo bisogno di credere in Cristo. Crediamo in Cristo perché abbiamo bisogno di credere in Dio e crediamo in Dio perché le esigenze sociali ci impongono di distinguere tra il bene e il male». Un altro legame tra Kelsen e Freud? Anche Freud sosteneva che sia stato il tabù a istituire la religione e non la religione a istituire il tabù[41].

Io non vorrei addentrarmi nelle tante possibili letture di Schmitt, ma solo accentuare quegli aspetti del suo pensiero che mi sembrano partico­larmente significativi per ri­prendere e capovolgere le conclusioni a cui era giunto Kel­sen. In fondo l’ultimo Kelsen sembra estremamente vicino a Schmitt. Cosa separa la volontà che vuole se stessa della Teoria generale delle norme dal decisioni­smo delle Categorie del politico? La dimensione cognitiva. Schmitt afferma quello che Kelsen intende negare; è come se gli domandasse: perché mai Dio dovrebbe autorizzare se stesso a produrre norme, se que­sto atto non ha un senso e se non è per ricercare questo senso che esiste il mondo? La Grundnorm non può, né vuole, rispondere a questa domanda. La decisione è, invece, il segno della presenza del divino nell’uomo non solo come atto di libertà, come pura capacità di creare il nuovo e l’inedito ri­spetto alla causalità indetermi­nata dell’immanentismo meccanicistico, ma soprat­tutto come impossibilità di escludere il momento etico: ogni decisione è una presa di posizione sul mondo.

Dio e lo Stato rappresentano, nella loro essenza, questo momento costitutivo in funzione del quale la realtà esiste. «Il concetto di Stato in rapporto al diritto riceve così una posizione del tutto analoga a quella che il concetto di Dio, che sorge dalla necessità di realizzare ciò che è morale nel mondo, assume riguardo all’etica»[42]. Questa idea attraversa le opere giovanili, prima ancora di divenire uno dei temi di fondo della Teologia politica. «Il creatore del mondo è nello stesso tempo causa originaria e legislatore, cioè autorità legittimante»[43]. Se non vi è l’ordine non vi può essere l’ordinamento. L’idea di legitti­mità ha una profonda valenza cogni­tiva che si giustifica solo in chiave teolo­gica: Dio esiste come autorità suprema e creatrice. A misura di questa cono­scenza si co­struisce la dimensione dell’autorità terrena nella sovranità. Il problema non è tanto chiarire da chi e come vengono statuite le norme (l’angustia epistemologica da cui Kelsen non riesce a liberarsi) quanto comprendere le implica­zioni teoretiche insite nell’idea di statuizione: la sovranità è l’autorità e l’autorità è la ve­rità, quella verità prima che l’immagine di Dio proietta sul mondo attraverso la Chiesa come «presenza della trascendenza»: «un’organizzazione volta a far valere l’invisibile nel visibile deve radicarsi nell’invisibile ed apparire nel visi­bile»[44].

La legittimità dà forma giuridica a questa presenza di Dio nel mondo come dato concreto, evidente, ineludibile, che rende impossibile svincolare il potere dalla verità e l’ordinamento giuridico dall’ordine teologico della Rivelazione. In fondo, «anche il diavolo ha la propria legalità»[45] nel senso che sviluppa comportamenti coerenti con un principio primo fondativo (il rifiuto di Dio), ma ha una legitti­mità? Quale dimensione veritativa dischiude all’uomo se non quella della propria ostinazione a negare, della propria condanna alla contrapposizione? Una «cattiva caricatura» di Dio «che viene punita dal fatto di avere una propria orribile norma di sviluppo». Il diavolo è condannato all’immanenza, non ha nulla oltre sé stesso da svelarci. Sarei tentato di affer­mare che sembra quasi ricalcare certi aspetti della norma fondamentale kelse­niana: «pura» presenza, volontà chiusa nel proprio volere, essere irrimediabil­mente scisso dal dover essere.

Si tratta, è ovvio, di un’iperbole, che però ci aiuta a capire l’orrore che Schmitt ha per una legalità fine a sé stessa, un puro vincolo alla coazione, la «legalità che uccide» della rivoluzione francese. Questa esasperante pretesa di costruire il diritto su un vuoto teoretico, sull’impossibilità di giustificare sé stesso, evidenzia gli involontari risvolti nichili­stici a cui il pensiero kelse­niano potrebbe giungere. Nello sfiorare il nulla, Kelsen è sempre sorretto dal profondo intento etico di di­schiudere all’uomo un mondo senza altro condiziona­mento che non sia la capacità razionale di costruire il proprio pensiero. E’ animato dall’esigenza di portare a compimento il processo di maturazione della li­bertà, aiutando la fragile democrazia del suo (e del nostro?) tempo a capire che ciascuno di noi è l’artefice del proprio destino, a capire che «lo Stato è opera dell’uomo, fatto dall’uomo e per l’uomo, e che per­ciò dall’essenza dello Stato non si può rica­vare nulla contro l’uomo»[46]. Un Dio calato a forza nel mondo e nel diritto finirebbe dunque per aprire le vie a qualsiasi operazione anche la più inumana; finirebbe per scaricare su Dio le nefandezze dell’uomo.

Schmitt è perfettamente consapevole di questo rischio. Non a caso torna più volte sulla valenza etica del Silete theologi in munere alieno! di Alberico Gentile. Tuttavia, a suo avviso, una cosa è la pretesa giustificazione teologica della singola azione politica, come nel caso del concetto di guerra giusta, che rifiuta perché gli appare come un’intromissione indebita del teologico e del giuridico nel poli­tico; altro è il ri­chiamo alla teologia come statuto teoretico di compren­sione delle istituzioni umane: l’uomo, come gli ha insegnato De Maistre, non può pretendere di trovare da solo la misura dell’orientamento. Una misura relativa, variabile, funzionale, che si ag­giusta ora su questo o su quell’equilibrio sul modello della democrazia kelse­niana, sa­rebbe un’ipocrisia. La misura è sempre in rapporto con la capacità di valutare e di decidere, con la capacità quindi di fornire una risposta alla do­manda origi­naria: da che parte sto? Dal peccato originale all’omicidio di Caino, la teolo­gia vincola l’identità umana alla capacità di prendere posizione sul mondo. L’uomo vive l’alternativa tra il bene e il male, entro i propri limiti crea­turali, come conflitto esisten­ziale tra amico e nemico, come spartizione mate­riale del territorio, come rag­gruppamento giuridico attorno allo stesso no­mos… ma quella che resta incon­futabile è la declinazione politica dell’unità. L’unità è teologicamente possibile solo nella dualità, nel conflitto tra oppo­sti, per­fettamente esemplificato, nei sofferti e confusi percorsi della Teologia poli­tica II, dalla ripresa dell’enigmatico passo di Gregorio di Nazianzo: «L’Uno – to Hen – è sempre in ri­volta –stasiatson – contro se stesso – pros heauton»[47].

Il conflitto finisce quindi per rappresentare una sorta di grande imbuto esisten­ziale in cui tutto si riversa e sbiadisce. Ogni cosa trae origine dal conflitto, ma dal conflitto non deriva nulla, tranne lo stesso conflitto: siamo sempre fermi alla scelta iniziale tra amico e nemico. La verità si afferma perché c’è l’errore. L’autorità si impone perché c’è il caos. Una continua tensione tra gli opposti in cui quello che emerge come il dato teo­retico decisivo è la ten­sione e non l’ermeneutica. La verità è il conflitto, ma c’è una verità da raggiungere attraverso il conflitto?

La presa di posizione che fonda l’esistenza umana è tanto necessaria quanto indeterminata: chiunque può essere amico e chiunque può essere nemico, purché vi sia un’aggregazione. Un fondamento senza altro fondamento che la propria fatticità[48].Per questo ho parlato di una legittimità senza legalità. Perché dal vincolo della scelta originaria non possiamo trarre alcun vincolo ulteriore, se non quello di restare fedeli a questa scelta. È come se non potessimo andare oltre la Grundnorm, perché creare un vincolo del vincolo sarebbe correre dietro ai parametri formali della legalità, dimenticando l’assolutezza della presa di posizione originaria (Grundnahme); perché privilegiare i rapporti di aggregazione significherebbe trascurare il pericolo della disgregazione.

È assai significativo che Schmitt accentui, nelle opere più mature e sofferte, il versante esistenziale della «legittimità» del politico. «Chi posso in ge­nerale riconoscere come mio nemico? Evidentemente soltanto colui che mi può met­tere in questione. Riconoscendolo come nemico, riconosco ch’egli mi può mettere in questione. E chi può mettermi realmente in questione? Solo io stesso. O mio fratello. Ecco. L’altro è mio fratello. L’altro si rivela fratello mio, e il fratello, mio nemico. Adamo ed Eva ebbero due figli, Caino e Abele. Così comin­cia la storia dell’umanità. Questo è il volto del padre di tutte le cose. Questa la tensione dialettica che tiene in moto la storia del mondo, e la storia del mondo non è ancora alla fine»[49]. A Schmitt non interessa risolvere il problema se la verità stia dalla parte di Caino o da quella di Abele, ma sottolineare l’impossibilità di separare ontologicamente e definitiva­mente fratello e nemico. Non a caso, riscopre questa conflittualità la­tente all’interno stesso dell’animo umano: non solo l’altro, ma già io stesso posso mettermi in que­stione. Identità umana e conflittualità esistenziale sono così legate che la te­ologia sconfina nella polemologia, diventa «una stasiologia teo­logico-poli­tica», secondo la definizione della Teologia politica II.

 

 

 

  1. Legendre: la legalità come performativo

 

In fondo, alla base della tensione teoretica di Schmitt troviamo, come già in Kelsen, solo un bisogno di identità colorito dalla di­vinità. Nell’ultimo Kelsen l’analogia tra pensiero teologico e pensiero giuri­dico serve ancora a costruire la metafora della norma fondamentale come illu­sione che vi sia almeno l’esigenza di una costante teoretica nell’effettualità del potere. In Schmitt la teologia fonda il politico, ma viene a sua volta poli­ticizzata nel senso che il richiamo alla trascendenza come ricerca di un senso e di un orientamento nella costruzione del potere si identifica con l’intrascendibilità della decisione che risolve il conflitto proprio perché lo risolve (auctoritas) e non perché lo dirime (veritas): una «decisione per la decisionalità»[50]. Nella totale irrazionalità di una così drastica decisione per la decisione ci rendiamo conto di come Schmitt sembra ricadere in quel nichilismo che intende combattere. Parla di Dio, del Cristianesimo, ma poi finisce per non offrirci altro che un vincolo fine a sé stesso: Dio dà un volto, legittiman­dolo, all’onnipotenza del potere, di qualsiasi potere, come la Grundnorm nasconde, legalizzandolo, il volto del potere, di qualsiasi potere…

Dinanzi a questa conclusione, mi sembra opportuno, come ho già osservato, analizzare un’opera che tende proprio a dimostrare che la legalità è necessaria, ma è senza senso. Si tratta di quella strana mescolanza di Lacan e Foucault, di psicoanalisi che si perde nella semiologia e di semiologia che prepara lo strutturalismo con cui Legendre cerca di dimostrare come vi sia un modulo reli­gioso in ogni istituzione, e in particolare nelle istituzioni giuridiche e poli­tiche, proprio perché hanno in­nanzitutto lo scopo di instituere vitam, sono «vivente parlato» che dà forma e rende comunicabili i dati es­senziali dello spazio umano.

Come ho già detto, mi occupo di Legendre, ma penso al realismo, al funzionalismo, al decostruzionismo, a tutte quelle concezioni che considerano il diritto un meccanismo interattivo che assorbe funzioni e che scarica tensioni. Anche il realismo, per quanto varie siano le sue componenti, assimila i concetti giuridici a «meccanismi psicologici» e attribuisce alla morale il ruolo pragmatico o «magico» di difendere i valori socialmente diffusi… perché socialmente diffusi e non perché giusti o buoni. Anche il realismo, in particolare Olivecrona, ricorre spesso all’esempio del Decalogo come modello di un sistema di obbedienza che si sviluppa senza che vi sia un comando specifico e determinato, osservabile empiricamente. Anche Luhmann ricorre frequentemente al paradigma della perfezione divina come esempio del modello di funzionamento di qualsiasi sistema sociale e comunicativo. I sistemi comunicativi hanno il problema di «variare», apparendo invariati, devono cioè assorbire la contingenza, ritornando su sé stessi, eliminano e, intanto, fanno proprio (riflessività) ogni cambiamento. Operano attraverso un paradosso che i nostri processi mentali considerano consueto proprio attraverso l’idea di Dio. È il paradosso della «inseparabile fusione» tra la funzione di dare istruzioni per la selezione dei dati (riduzione della complessità) e la funzione di ricostruzione del caos indeterminato come invarianza determinabile (mantenimento della differenziazione, complessificazione): Dio è la determinazione dell’indeterminabile.

Che vuol dire? Potremmo provare a capire attraverso un esempio, anche se non è Luhmann a farlo. Le parole, che stanno alla base di ogni sistema comunicativo, contengono istruzioni per selezionare la realtà: dico «cane» e implico in questo enunciato tutta una serie di animali pelosi che hanno certi requisiti. Le parole sono anche istruzioni per ricondurre tutta la realtà a linguaggio: dico «cane» e implico in questo enunciato ogni possibile incrocio tra razze e ogni cane, naturale o artificiale, che esiste o esisterà. Al linguaggio chiediamo proprio di definire senza definire, di aprire la possibilità della conoscenza senza esaurire le possibilità della conoscenza. La fede in Dio ci pone di fronte a un processo analogo, ci apre le porte dell’assoluto senza chiarire mai cosa sia l’assoluto: pone «la questione dell’accettazione o del rifiuto del mondo, senza poter, per ragioni strutturali, deciderla, bensì differendola sino alla fine»[51]. Allo stesso modo i processi comunicativi (e il diritto è uno di questi) assumono la capacità di determinare la singola comunicazione, lasciando indeterminata la possibilità del comunicare. «Non è affatto necessario che il consenso sui valori sia prestabilito; è il problema della doppia contingenza (cioè l’autoriferimento, vuoto, chiuso, indefinibile) che aspira letteralmente la casualità e rende il sistema sensibile al caso: se non esistesse il consenso sui valori lo si inventerebbe. Il sistema si forma, etsi non daretur Deus»[52].

Derrida compie, invece, il processo inverso, per spiegare il ruolo di Dio, del «messia» nella religione, ricorre al concetto di legalità nel diritto. Ogni ragionamento, ogni pretesa di razionalità, si arresta, nella religione e nel diritto, davanti all’irresolubilità del paradosso che il fondamento dell’ordine e della legge – la legge della legge, l’istituzione dell’istituzione, l’origine della costituzione – è un evento «performativo» che non può appartenere all’insieme che fonda, inaugura o giustifica. «È la decisione dell’altro nell’indicibile»[53]. Un «che sia così» che chiude la catena delle domande proprio perché non dice che cosa non dice[54]. In un altro dei pochi scritti che dedica al diritto Derrida ribadisce che «l’operazione consistente nel fondare, inaugurare, giustificare il diritto, nel fare la legge, consisterebbe in un colpo di forza, in una violenza performativa che in sé non è né giusta né ingiusta e che nessuna giustizia, nessun diritto preliminarmente e anteriormente fondatore, nessuna fondazione preesistente, per definizione, potrebbe garantire né contraddire o invalidare»[55].

Legendre analizza proprio il dato che tutte queste visioni danno per scontato: i processi sociali e le istituzioni come modelli senza senso attraverso cui dare un senso a tutto quello che avviene. Nel Désir politique de Dieu, la religione presiede a questa costituzione del vi­vente, che è l’archetipo di ogni ulteriore manifesta­zione di organizzazione so­ciale, attraverso un duplice processo di «civilizza­zione della rappresentazione» e di controllo del cambiamento. L’uomo si caratterizza per due dati elementari, la domanda e il deside­rio, costitutivamente dominati, entrambi, dalla dismisura. Ogni do­manda sul mondo è un’ansia globale e indifferenziata di sapere che si riflette in un desi­derio generico e incondizionato. L’uomo si interroga su tutto e desi­dera tutto. Il si­stema istituzionale serve proprio a far fronte a questa domanda smisurata, cir­coscrivendo l’assoluto, definendo i giochi del sapere e del vo­lere, mettendo ogni cosa entro un limite, di apprendimento e comunicazione (l’interdetto) in cui sia chiaro tanto l’oggetto del desiderabile e la soggettività del desiderante quanto il limite del desiderabile e la responsabilità del desiderante. L’interdetto indica tanto il linguaggio con stiamo assieme quanto i divieti che ci tengono assieme. Impone, insomma, ad una premessa una conseguenza, attribuisce al soggetto l’oggetto, de­finendo la logica del discorso e, nel contempo, definendo gli spazi sociali. Legalità, per i Bizantini, era uguale a logos, nel doppio senso di parola o discorso e causalità[56]. Civilizzare la rap­presentazione significa organizzare questo «montaggio» di relazioni e rapporti, inscrivendo ogni soggetto entro un ordine politico nel senso aristotelico di «spa­zio orga­nizzato attorno alla parola». La parola è un «sistema di referenti»; è la possibi­lità di riferire qualcosa a qualcuno. Un sistema che istituisce e ali­menta il desiderio, assimila e differenzia la sfera del desiderabile. Non si può realiz­zare un desiderio senza identificarlo; non si può identificarlo senza dif­ferenziarlo; ma non si può fare nulla di tutto questo se non si ha una scala globale di refe­renti. Dio è il primo referente che fonda e condiziona tutti i successivi giochi dell’esistenza. Non possiamo avere sistemi istituzionali che non funzionino «in nome di» (au nom de): solo questa «referenza inventata», que­sta «costruzione del nome di» permette di produrre effetti soggettivi e sociali[57].

Ecco perché, ad avviso di Legendre, non vi può essere nessuna norma in una società senza che vi sia anche una «religione del potere»; o meglio, senza che si costruiscano tecni­che che assumono in sé il sistema della referenza assoluta («in nome di»): lo Stato, ma soprat­tutto il diritto. È proprio la tecnica giuridica, e in par­ticolare la dogma­tica, a consentire il riciclaggio periodico e costante dei mo­delli di referenza, offrendo la possibilità dell’interpretazione e, allo stesso tempo, della sovver­sione di questa possibilità nel continuo vai e vieni della dogmatica che, come Dio, crea e distrugge, conferma, completa, contraddice, eppure è sempre uguale a se stessa. La dogmatica starebbe a indicare ciò che è legale in quanto tale, rievocando, o meglio mettendo in scena, lo spazio originario e proprio di ogni comunicazione: l’interdetto come parola che istituisce il linguaggio e il diritto, esprimendo l’essenza dell’umano (instituere vitam).

Da Dio al diritto, dal di­ritto allo Stato, le manovre della referenza sono un lavoro di réglage della rappresentazione, di continuo aggiu­stamento del tiro ed equilibrio sociale delle misure: un lento e costante pro­cesso di umanizzazione in cui l’individualità del desiderio e l’assolutezza della volontà si stemperano nel senso del dovere che la legalità, attraverso l’interdetto, «notifica» a ciascuno di noi, mettendoci di fronte all’impossibilità di essere il tutto. Per rappresentare il mio mondo dell’immaginazione, devo sco­prirmi legato ad una referenza che non mi appar­tiene: il «chi è chi?». Avverto di dover agire sem­pre e solo «in nome di», rinunciando all’onnipotenza, alla pretesa di un deside­rio assoluto e totalizzante.

Come ci mostra l’uso estremamente particolare dell’espressione dogmatica, Dio in questa ricostruzione non è un dogma nel senso di finzione necessaria (come in Kelsen), ma il dogma. Il dogma del limite che allude continuamente al problema dell’origine. L’inizio dell’identità umana e della società come separazione, frattura, interdetto, la scoperta di quel limite invalicabile che determina l’instaurarsi della vita (instituere vitam) come necessità della referenza, del riferirsi al «nome di». Ma dietro «il nome di» non c’è un «chi». La domanda radicale sul senso del mondo, «chi è chi?», si perde dietro il «che sia così» della Grundnorm o dietro il «che sia così» della Grundnahme, confusi entrambi nella performatività dell’interdetto.

Invenzione simbolica e neces­sità politica si legano al diritto quasi in un gioco assurdo attraverso cui la dogmatica genera la parola e la mette in scena, genera la parola e la mette in scena, ge­nera la parola e la mette in scena e così via all’infinito di interpretazione in interpretazione. E tutto perché de­sideriamo, ma non siamo padroni dell’assolutezza dei nostri desideri. La reli­gione e il diritto sarebbero meccanismi inibenti ed evocativi, allo stesso tempo. Inibenti la totalità ed evocativi dell’assoluto. Con una netta differenza di piani: la totalità esiste nell’immediatezza della volontà e del desiderio, mentre l’assoluto, quale conclusione del processo intellettuale e creativo, esi­ste solo come invenzione, come strumento inventato per dare «parola al vivente», instituere vitam. Inventiamo Dio, scoprendolo nella rimozione del desiderio. Or­ganizziamo la dogmatica giuridica e pensiamo la legalità per lasciare sempre aperto questo processo di invenzione e rimozione attraverso il quale esistiamo e pensiamo. Vale a dire: mettiamo in scena noi stessi. E il diritto non è altro che una di queste messe in scena.

 

 

  1. L’ essenza della legalità

 

Questa è l’unica conclusione possibile, almeno credo, se vogliamo restare fedeli alle intenzioni di Legendre. Potremmo, però, servircene per rimettere in discussione tutto quello che abbiamo finora osservato, partendo da Kelsen e Schmitt e finendo proprio a Legendre. Come ho detto, basterebbe forse solo spo­stare la prospettiva di lettura, per cercare di considerare quello che nella teoria appare solo un meccanismo del pensiero come il principio filosofico di lettura del significato esistenziale del diritto. La filosofia della legalità comincia dove la teoria della legalità si ferma. Proprio la metafora di Dio ci aiuta a compiere questo passaggio se proviamo a concepirla non solo come meccanismo di raccordo dei rapporti tra norme, ma come segno rivelativo della presenza del divino nel diritto.

Sotto questo punto di vista tanto la norma fon­damentale, alla luce della teoria dell’ordinamento giuridico, è vuota, sia come premessa intellettuale che come impulso volontari­stico, quanto «au nom de» è ca­rico di contenuti, alla luce dei moventi individuali. Quello che in Kelsen è uno schema di autorizzazione diventa così una carica valorativa: il problema del fondamento dell’azione. L’atto assolutamente volontaristico o consapevolmente arbitrario non si esercita in nome di nulla, come mette perfettamente in luce la teoria politica dell’assolutismo attraverso la radicalità dell’hoc volo sic iu­beo. Invocare il «nome di» significa vincolare la pretesa alla necessità di un sostegno etico, ma anche riconoscere l’esistenza di un ordine più ampio di soli­darietà e di tutela. Strappato alla sua singolarità, l’uomo non incontra il di­vino per caso, come ipostasi o invenzione, ma come la condizione teoretica ori­ginaria senza la quale sarebbe impossibile un orizzonte complessivo di giu­stificazione.

In nome di chi agisce Caino? Legendre e Schmitt, letti assieme, fanno pen­sare alla singolare esegesi biblica che Neher suggerisce nel Pozzo dell’esilio[58]. Caino e Abele affrontano per la prima volta, nella storia dell’umanità, il problema del dialogo orizzontale. Fino ad allora Adamo ed Eva avevano parlato, verticalmente, solo con Dio o attraverso Dio. Con la coppia fraterna, le cose cambiano: abbiamo due esseri soli ed esclusivi, a tal punto separati radical­mente l’uno dall’altro che conoscono esclusivamente la logica del monologo. Cia­scuno intende parlare solo in nome proprio. In questa chiave la forma ontologia della comunicazione non può che essere la concorrenza, portata fino alle estreme conseguenze del conflitto e della distruzione reciproca. Caino non era più mal­vagio di Abele e l’assassino avrebbe potuto essere indifferentemente l’uno o l’altro. Il caso ha voluto che il marchio del fratricidio segnasse Caino e ri­producesse in Abele il simbolo dell’innocenza. In realtà, la posta in gioco era proprio la parzialità di ciascun essere eretta a sistema della comunicazione: se ciascuno agisce per far valere soltanto la «propria parte» non c’è alternativa, schmittianamente, al conflitto: l’altro, anche mio fratello, proprio mio fra­tello, è soltanto colui che «mi mette in discussione», il nemico da sottomettere o da uccidere.

Per capovolgere radicalmente questa impossibilità della comunicazione è necessario trovare un elemento di contatto, una mediazione che renda il dialogo non solo possibile, ma necessario. Neher si rifà all’«emsa» e pensa alla Torah, in conformità alla tradizione ebraica in cui si muove. L’ ‘emsa’ è la parola, quella misura comune che consente di mettere il logos dell’uno in contatto con il logos dell’altro. Solo così è possibile il dialogo. Attraverso la fenomenologia del «nome di» Legendre ci suggerisce un percorso analogo. Agendo «in nome di» porto avanti me stesso, le mie rivendicazioni, le mie esigenze, eppure già riconosco la loro insufficienza ed anzi invoco un riconoscimento ulteriore. Nell’esperienza giuridica ciascuno fa valere il proprio diritto, ma non agisce mai in nome pro­prio. Il «proprio» è tale solo se si trova ad essere conforme a tutta una serie di elementi meta-individuali: la sentenza, la legge, il contratto… o, in sintesi, il principio di legalità. Anche i casi estremi e marginali di autodifesa devono essere le­gittimi, trovare un avallo che non sia la reazione fine a sé stessa. Il dramma di Caino e Abele ci porta ancora, come già in Schmitt, davanti ad una sorta di religiosità intrinseca ed immediata. Qui, però, il conflitto eretto a mistero teologico e a vincolo ontologico lascia il posto alla necessità dell’«emsa», alla pacificazione della parola. L’una e l’altra legano il diritto a quello strano paradosso per cui, pur essendo in gran parte solo un sistema di attua­zione delle rivendicazioni individuali, è inconcepibile in chiave di pura auto­sufficienza individuale.

Potremmo ripercorrere, in questa prospettiva, il parallelo kelseniano tra Dio e norma fondamentale? Io sono auto­rizzato ad agire da una sentenza (in nome del provvedimento emesso in data… dal…), il giudice è autorizzato ad emet­tere la sentenza dalla legge (in nome della legge), la legge è autorizzata dalla Costi­tuzione (in nome del popolo ita­liano): un continuo andare e riandare dalla base al vertice, dalla situazione di fatto alla norma, dalla norma alla legge, dalla legge alla Costituzione, dalla Costituzione ai valori sociali, in cui l’aspetto logico-volontaristico (la chiusura dei rapporti di inferenza) non esclude la valenza etico-esistenziale: l’esigenza della relazionalità. L’interpretazione è sempre un mettere in relazione l’uomo con la parola, le pa­role tra loro, l’insieme delle parole con la realtà sociale. L’interpretazione non è mai un atto assolutamente individuale e non può neppure mai essere una ma­nifestazione di conflittualità. Interpretando, ciascuno si sottomette al con­trollo, all’accettazione o al rifiuto dell’altro, di qualsiasi altro. Nell’interpretazione la persona non rinuncia a sé stessa, come fa notare Pareyson[59], e, anzi, compie lo sforzo più estremo per affermare la propria verità, ma intanto incontra gli oggetti e gli altri, esce fuori di sé e si apre al mondo. Nell’interpretazione troviamo il senso più genuino della filosofia come

 

«consapevolezza del rapporto ontologico, in cui il nesso con la verità è totale e la formulazione che se ne dà è personale; il pensiero teologico è l’unico che permette al pensiero filosofico d’essere insieme filosofia della filosofia, cioè punto di vista critico, consapevole e giustificato sulla molteplicità delle filosofie, e quindi riconoscimento di personalità, alterità, Intersoggettività delle prospettive, e filosofia, cioè presa di posizione, ripudio d’una neutralità pseudo scientifica, formulazione personale e responsabile della verità; ed è così che solo nella filosofia è possibile ammettere le altre adottandone una, e quindi aprire veramente le prospettive al dialogo»[60].

 

L’interpretazione evidenzia nel sistema di vincoli della legalità, nel reciproco rimando delle norme alle norme, un vincolo etico ulteriore e più profondo: il rifiuto della solitudine, l’impossibilità dell’indifferenza. Ha probabilmente ragione Le­gendre nel sostenere che la religione è la con­quista del mondo attraverso degli interpreti [61] e nell’individuare nei mo­duli della dogmatica giuridica sco­lastica il riflesso politico e istituzionale di questo lavoro ininterrotto di «montaggio» della realtà. Solo che l’interpretazione non è soltanto, come egli vorrebbe, un gioco intellettuale che mescola i tasselli di un puzzle infinito per creare l’illusione che vi sia un senso. L’interpretazione mette l’uomo di fronte al problema dell’eccedenza. Se non vi fosse un “di più” che allontana e separa enunciato e significato, dispo­sizione e norma, vita e vissuto, pensiero e pensato, non avremmo interpreta­zione, ma reazione, feedback. Il cigolio di una porta è la conseguenza di un at­trito e non l’interpretazione di un disagio proprio perché è integralmente spie­gato dai meccanismi di funzionamento: il cardine che non scorre, l’ostruzione che si è creata. I meccanismi di funzionamento del pensiero non esauriscono, in­vece, il problema dell’uomo. L’uomo non sa mai fino a che punto sia l’artefice dei propri disagi, il costruttore del «di più» che avverte e non sa leggere in­tegralmente, che mette in relazione a sé stesso eppure non rie­sce a dominare solo con le proprie forze. Dobbiamo sempre interpretare, cercare ol­tre… oltre che cosa? Ecco che compare la trascendenza come senso ultimo dell’esistenza.

Qui il pensiero va a Schmitt. Dio non è la trascendenza imperscrutabile di una vo­lontà quale che sia. L’onnipotenza divina non significa onnivalenza dei per­corsi: un Dio indifferentemente amico e nemico. Dalla vicenda biblica rac­chiusa nel libro di Giobbe, stranamente la filosofia politica, e con essa Schmitt, hanno estrapolato solo il Leviathan, il mostro di forza e potenza. Ep­pure, nel libro di Giobbe, c’è proprio l’antitesi della persecuzione e della violenza. Alla fine, Dio inter­viene a difendere l’uomo anche «contro Dio», po­nendo il vincolo etico dell’intollerabilità dell’indifferenza: come Dio, anche l’uomo deve intervenire a difesa di ogni altro uomo[62]. L’egoismo ha struttural­mente un limite oggettivo e su questo limite va ricercata l’idea di giustizia: «ogni senso di umanità poggia su una facoltà della coscienza che non è per nulla ovvia, cioè che non dobbiamo pensarci per quello che siamo, ma che possiamo pen­sare ogni altro per quello che potremmo es­sere… il prossimo come quello che per caso non si è»[63]. Il diritto è tutto costruito, come la reli­gione, sulla necessità di pensarci per quello che non siamo, di uscire dai vin­coli chiusi della parte in cui sto. Solo così possiamo agire «in nome di» ed in­vocare «il nome di». La sofferenza dell’altro perché ripugna alla mia coscienza, la soffe­renza dell’altro perché potrei essere io, costitui­sce comunque il segno dell’impossibilità dell’indifferenza, vale a dire del ri­fiuto di ogni mezzo di comunicazione. Appena nasce la comunicazione, diventa impossibile continuare a pronunciare la famosa frase di Caino: sono forse io il custode di mio fra­tello?

L’impossibilità dell’indifferenza pone in luce un altro aspetto, tipica­mente religioso e giuridico, la non equivalenza delle posizioni esistenziali. Se la naturalità del male è una condizione originaria dell’uomo, non è mai così forte da poter escludere la possibilità del bene. È questo il profondo significato etico che svela il diritto di difesa nel lento sviluppo storico che lo ha portato ad essere uno dei cardini di ogni sistema giuridico. Anche il reo confesso, anche il soggetto colto in flagranza di reato hanno diritto a un difensore e a un processo. Perché? Potremmo trovare la risposta nei riti seicenteschi dell’inquisizione, in cui l’ansia di riuscire con qualsiasi mezzo a redimere l’imputato aveva portato a elaborare una specifica categoria di reati, i reati di stregoneria (il crimen exceptum), così gravi da non meritare nessuna tutela processuale e, tanto meno, l’assistenza di un difensore. Ma proprio all’interno della Chiesa veniva sollevato un problema teologico estremamente complesso: può essere il male così assoluto da escludere ogni possibilità di redenzione? E se la redenzione è sempre possibile, ed è anzi l’essenza stessa del Cristianesimo, nessuno può essere mai considerato colpevole a priori. Penso alle accorate pagine con cui la Cautio criminalis di Von Spee[64] sviluppava proprio questa argomentazione per combattere gli assurdi pregiu­dizi e le crudeli nefandezze che ani­mavano in quel tempo i processi di stregone­ria. Come è possibile, domandava Von Spee, avere la certezza della colpa senza celebrare il processo e come è possibile celebrare un processo senza garantire il diritto difesa? Più grave sarà il reato, più gravi sa­ranno i rischi; più il reato è efferato, «tanto più gli stru­menti difensivi messi a mia disposizione do­vranno essere all’altezza della situa­zione e gli avvo­cati abili e idonei secondo i principi del diritto naturale». Lo esige il diritto, ma ancor più «la carità cri­stiana, che non solo non ti vieta di difenderti, ma vuole anzi aiutarti e fornirti gli strumenti migliori per questo».

Sono le parole di un cristiano, ma sono anche le parole di un giurista, che ricordava come l’essenza del diritto non stesse nella capacità di condannare (qualsiasi tiranno sa incarcerare, torturare, impiccare…), ma nella possibilità di assolvere. E’quello che dimentichiamo ancora oggi: tutte le volte in cui ci lamentiamo dell’eccesso di «garanzie» che rendono estremamente difficile la condanna dell’imputato, quasi «una ruota della fortuna truccata a favore del criminale»[65]. Ed è vero: il diritto di difesa spesso è negativo dal punto di vista pratico, perché impedisce un ra­pido sviluppo delle inda­gini ed un efficace accertamento istruttorio. Esprime solo l’importanza di un principio: quell’insopprimibile dignità dell’imputato che impone di non escludere mai la possibilità dell’innocenza. L’innocenza, purtroppo, è inutile: non serve alla società che vuole sco­perto il colpevole al più presto; non serve all’inquisitore che vede vanificato il proprio lavoro; non serve alle vittime che non ottengono giustizia. Serve solo all’ imputato, fosse anche il più abbietto tra gli uo­mini. Insomma non si può sfuggire al paradosso per cui il diritto, con tutti i suoi assilli pragmatici, è costretto a rifiutare il più immediato degli impulsi pratici: quello del risultato ad ogni costo. Si trova, in­fatti, a dover costruire la ricerca della giustizia sul ti­more dell’ingiustizia (in dubio pro reo), rifiutando l’intransigenza di reprimere il male, l’intransigenza dell’utilità collettiva, la considerazione dell’uno e dell’altra come valori a cui va sacrificato tutto. Se il processo è uno spiraglio sempre aperto sulla possibilità del bene, al vertice della propria gerarchia di valori deve stare la salva­guardia di ogni essere umano, malgrado i suoi vizi, le sue falsità, le sue reti­cenze: nemo tenetur se detegere. Il diritto si sforza di attribuire un difensore a chi non lo vuole (artt. 82 c.p.c. e 96 e 97 c.p.p.), di celebrare un processo anche dinanzi all’evidenza della confessione o della flagranza di reato. Anche se non serve a nulla, anche se si già quale sarà l’esito, va sempre lasciato uno spazio al dubbio ed uno spiraglio al dialogo. Ogni giurista dovrebbe essere pronto a sottoscrivere la di­chiarazione di colpevo­lezza del Rubasciov di Buio a Mezzogiorno: «Mi riconosco colpevole di avere posto il problema della colpevolezza e dell’innocenza più in alto di quello dell’utilità e del danno»[66].

Proprio perché nessun uomo può mai essere considerato a priori colpevole, il processo nasce e si alimenta sulla presun­zione di innocenza, vale a dire sulla necessità di lasciare uno spiraglio sem­pre aperto alla ricerca del bene, nonostante le mise­rie del mondo, nonostante la presenza del male. È «in nome di» questa verità su­prema che il diritto erige tutte le sue complesse orditure e pone il caso singolo, marginale, secondario, al cen­tro dei propri interessi. Se la società guarda le cose all’ingrosso, come dice Bergson[67], e va­luta sui grandi numeri, il diritto si costruisce sulle minuzie dei particolari, delle vicende personali, delle pretese anche più meschine e margi­nali. Ogni pro­cesso ha la stessa importanza, ogni sentenza deve avere la sua mo­tivazione. La microfisica di ogni sentenza rimette quasi in discussione la ma­crofisica della teodicea, si interroga sul bene e sul male, ma soprattutto cerca un senso ad ogni cosa. Il diritto è, sotto questo punto di vista, un continuo ed involonta­rio atto di fede: c’è Dio e non il caso, l’ordine e non il disordine.

Mi ero ripromesso all’inizio di queste riflessioni di seguire i percorsi intellettuali di Kelsen, Schmitt e Legendre, per vedere se il rapporto tra idea di Dio e legalità fosse solo il segno di una difficoltà concettuale insuperabile, un’illusione con cui inibire ogni ulteriore problematizzazione, o se fosse il segno di una particolare caratterizzazione etica. In particolare, volevo provare a spostare la chiave di lettura dai meccanismi mentali alle esigenze esistenziali, senza alterare la lezione di Kelsen, Schmitt e Legendre. Ci siano trovati allora davanti tre dati inconfutabili del nostro contatto quo­tidiano con il diritto: l’agire «in nome di», l’interpretazione, il diritto di difesa con la presunzione di innocenza. Ciascuno di essi pone il problema della relazionalità, della trascendenza e del bene in maniera così radicale da rendere impossibile continuare a considerare il rapporto tra esperienza giuridica ed esperienza re­ligiosa solo la metafora inconsistente di un bisogno insoddisfatto di totalità. Kelsen, Schmitt, Legendre sembrano quasi assumere un significato di­verso se, ab­bandonando la teoria dell’ordinamento giuridico, le categorie del poli­tico, la struttura psicologica delle istituzioni burocratiche, osserviamo il di­sagio e la sofferenza del singolo individuo, qui ed ora. Mi rendo conto di quanto questa conclusione possa apparire leziosa, eppure «col dare al mondo un Kraus, Dio pone il mondo in un certo senso dinanzi ad un enigma oscuro, insolu­bile. Un enigma che non sarà mai penetrato, perché, vedi caso, non c’è nessuno che si preoccupi di risolverlo… perché la sua so­luzione non attira nessuno, perché non ci sarà neppure un uomo sulla terra che possa supporre l’esistenza, dietro a codesto Kraus anonimo e insignificante, di una qualunque missione, di un qualunque enigma, di un senso più squisito»[68]. La religione e il diritto esi­stono per dare una soluzione a questo enigma, per dare un «senso più squisito» anche al più insignificante dei Kraus.

 

 

 

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* Il saggio riproduce con ampie revisioni il IV Capitolo di S. Amato, 2002, Coazione, coesistenza, compassione. Giappichelli, Torino.

** Salvatore Amato, Professore ordinario di Filosofia del diritto IUS/20, Università di Catania. Email: samato@lex.unict.it

[1] Ch. Perelman, 1966, 436.

[2] N. Luhmann, 1990, 116.

[3] «La teoria giusnaturalistica consiglia… un corso deflattivo. Poiché ammette fondamenti normativi naturali e quindi autoevidenti…  In quanto a ciò il positivismo giuridico opta piuttosto per un corso inflattivo. Tipicamente esso ammette più diritto di quanto sia coperto da consenso…» Ivi, 381-2.

[4] «Ut libellos conficiam de stillicidiorum ac de parietum iure? An ut stipulationum et iudiciorum formulas conponam?» (I, 4, 14).

[5] Nel De oratore Cicerone ribadisce che è compito della filosofia «rem dissolutam divulsamque conglutinaret et ratione quadam constringeret» (I, 42, 189).

[6] E. W. Böckenförde, 2007, 53.

[7] S. Fois, 1978, 703.

[8] L. Kolakowski, 1992, 24. Usano il concetto di mito o meglio di deriva mitologica per descrivere certi percorsi della scienza giuridica anche J. Lenoble e F. Ost in 1980.

[9] N. Rouland, 1992, 382.

[10] Ad esempio, il lavoro di D. Dyzenhaus, 1997.

[11] E. Balibar, 2012, 57.

[12] P. Legendre, 1988.

[13] Vi è sempre un oltre che, come scrive Cotta, impone il passaggio dall’ordine del misurabile o della quantità all’ordine del pensabile o della qualità: 1993, 150.

[14] E. Bloch, 1989, 216.

[15] H. Kelsen, 1988b, 24.

[16] Tradotto in italiano nei saggi raccolti da Agostino Carrino: H. Kelsen, 1988a, 139-164.

[17] H. Kelsen, 19753, 226-7.

[18] Ivi, p. 228.

[19] A. Merkl, 1987, 79.

[20] H. Kelsen, 1922 che io cito nella ristampa del 1962, Scientia Verlag AAlen, 92-105. L’analogia tra Dio e Stato è, invece, sviluppata nella parte finale del libro (parte IV, 205 ss.).

[21] Su questo problema si veda la raffinata analisi di R. Alexy, 1997, 109 ss.

[22] Anche se sono innegabili i reciproci rapporti: F. Lijoi, F. S. Trincia, 2015.

[23] S. Freud, 1978, vol. X, 431-485.

[24] H. Kelsen, 1988a, 141; 1988b, 25.

[25] H. Kelsen, 1988a, 150-151.

[26] Ivi, 162.

[27] Sull’analogia tra norma originaria e assiomi matematici: H. Kelsen, 1922, 95. Nella Dottrina pura, leggiamo: «…se la norma fondamentale non può es­sere una norma voluta, ma se è logicamente indispensabile enunciarla nella premessa maggiore di un sillogismo che fondi la validità oggettiva di certe norme, può essere soltanto una norma pensata» (H. Kelsen, 19753,228).

[28] H. Kelsen, 1985, 438. Potremmo ricordare per inciso quanto Leibniz avesse orrore proprio di un Dio «volere del vo­lere»: sarebbe un «paradosso inaudito» che «Dio esi­sta perché così ha ordinato» (1951, 256)

[29] Su cui ha richiamato recentemente l’attenzione J. Habermas, 1993, 115 ss.

[30] C. Schmitt, 1972, 65.

[31] J. Taubes, 1997, 125.

[32] C. Schmitt, 2016, 75.

[33] C. Schmitt, 2018, 87.

[34] C. Schmitt, 1972, 68.

[35] Ivi, 61.

[36] Ibidem.

[37] C. Schmitt, 1986, 40.

[38] C. Schmitt, 1984, 277.

[39] C. Schmitt, 1972, 159.

[40] C. Schmitt, 1986, 47.

[41] S. Freud, 1978, vol. VII, 3021.

[42] C. Schmitt, 2013, 60.

[43] C. Schmitt, 1972, 70.

[44] C. Schmitt, 1986, 78.

[45] Ivi, 84.

[46] H. Kelsen, 1988a, 163.

[47] C. Schmitt, 1992, 95.

[48] E. Balibar, 2003, 157.

[49] C. Schmitt, 1987, 91-92.

[50] Cfr. V. Hösle, 1990, 71.

[51] N. Luhmann, 1991, 132.

[52] N. Luhmann, 1990, 207.

[53] J. Derrida, 1995, 20.

[54] Analoghi sviluppi troviamo ancora in N. Luhmann, 2013, 73.

[55] J. Derrida, 2003, 62-63.

[56] P. Legendre, 1988, 145.

[57] Ivi, 20.

[58] A. Neher, 1990, 127-131.

[59] L. Pareyson, 1975, 93.

[60] Ivi, 210

[61] P. Legendre, 1988, 393.

[62] Seguendo la suggestiva lettura di R. Girard, 1994, 173.

[63] H. Blumenberg, 1989, 59.

[64] F. Von Spee, 1986, 98.

[65] T. Capote, 1999, 822.

[66] A. Koestler, 1981, 218.

[67] H. Bergson, 1979, 220.

[68]  R. Walser, 1992, 86.

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