La rilettura di un «classico» della sociologia: Marx e le emozioni
Se prendiamo sul serio l’affermazione di Marx secondo cui occorre cominciare con «premesse reali» – cioè «individui reali», individui «come essi realmente sono», «esseri umani autentici e attivi»[1] – e «studiare […] il concreto processo di vita e l’attività degli individui di ciascuna epoca»[2], come possiamo giustificare la tendenza a ignorare o a trascurare gravemente il ruolo della vita emozionale da parte della scienza sociale nelle sue analisi o anche, a dirla tutta, da parte nostra nella maggior parte delle nostre analisi?Esistono «individui reali» che non provano «emozioni»? Non sono forse le emozioni un elemento praticamente onnipresente in tutta la vita sociale? Eppure, le analisi marxiste successive al suo ispiratore, e le analisi sociologiche più in generale, hanno quasi sempre avuto la caratteristica di essere «eccessivamente cognitive»[3].
Per molta parte del ventesimo secolo, la sociologia, sia a livello di ricerca che in sede teorica, si è sviluppata senza fare riferimento alle emozioni[4]. Perfino oggi molti continuano a considerare lo studio sociologico delle emozioni come una specializzazione pittoresca o bizzarra piuttosto che come un elemento di fondamentale rilevanza per la disciplina complessivamente considerata[5], e «molto ancora rimane da fare per rimediare a questa tradizionale dimenticanza»[6]. Come fece notare alcuni anni fa Jack Barbalet, «una volta che diventa chiara l’importanza delle emozioni per i processi sociali, lo statuto intellettuale della sociologia, e perciò la stessa storia della sociologia e coloro i quali vi hanno contribuito, devono essere ripensati»[7].
Oggi, questa situazione sta rapidamente mutando[8]. La «sociologia delle emozioni» si è diffusa considerevolmente quale campo di ricerca autonomo. Più in generale, si può dire che siamo nel pieno di una «svolta affettiva» o «emozionale» nelle scienze sociali[9]. Nondimeno, sorprendentemente, i classici e fondatori della sociologia hanno ricevuto scarsa attenzione[10]. Per questi, quindi, il «ripensarli rimane ancora largamente da fare»[11].
Anche se i classici non svilupparono teorie sistematiche sulle emozioni o sul loro ruolo nella vita sociale, neppure essi le trascurarono del tutto nel loro lavoro sociologico[12]. Se è così, perché i classici sono stati perlomeno sottovalutati nella «svolta emozionale» in corso? Almeno in parte, la ragione può risiedere nel banale fatto che molte delle nostre largamente accettate «letture» o «interpretazioni» dei testi classici si sono formate in un contesto riflessivo e sociologico che escludeva o marginalizzava le emozioni. Tali letture tendevano a ignorare le emozioni[13]. Perfino quei passaggi nei testi dei classici in cui le emozioni erano presenti passavano per lo più come irrilevanti – o addirittura sfuggivano del tutto alla considerazione[14].
Nell’indossare «paraocchi» rispetto alle emozioni, cosa possiamo avere perso? E se ci togliamo tali paraocchi, cosa possiamo vedere? Perfino il fatto di affrontare tali questioni è cosa controversa perché facendo ciò si sfidano le «letture» ormai consolidate e istituzionalizzate dei classici e si incoraggia a «pensare di nuovo». Tuttavia, solo facendo così possiamo sperare di portare la sociologia verso un nuovo ed eccitante terreno.
Considerata la centralità dei classici per il pensiero e per il lavoro sociologico successivo[15] e la trascurata centralità delle emozioni nella vita sociale, una tale ri-lettura e un tale ri-pensamento possono incidere in modo significativo sul lavoro sociologico contemporaneo[16]. Se ci focalizziamo sulle emozioni e sulla loro onnipresenza nella vita sociale, ed esploriamo i riferimenti alle emozioni e al loro ruolo in testi precedentemente letti in una luce largamente non emozionale, i lavori classici e contemporanei possono assumere nuovi significati: la nostra comprensione di questi testi cambia e diventa certamente più completa. In questo articolo, mi concentrerò sul ruolo delle emozioni nella concezione della natura umana di Karl Marx e nella sua teoria dell’alienazione (estrangement)[17]. Una tale ri-lettura di Marx appare a mio parere sia giustificata che meritevole di essere approfondita attraverso l’individuazione e la discussione di alcune connessioni e implicazioni legate alla contemporaneità.
Il contesto per la ri-lettura di Marx: l’azione umana come sociale, razionale ed emozionale
La tradizione occidentale. Dappertutto nella cultura occidentale in generale, e nel pensiero scientifico sociale in particolare, la tematizzazione dell’azione umana individuale è stata spesso legata a una enfatizzazione della «razionalità»[18]. In un modo o nell’altro, la «ragione» è stata generalmente vista come radicalmente separata dalle emozioni, e anzi in opposizione rispetto a esse[19]. In linea generale, il ruolo delle emozioni nella vita e nell’azione sociale è stato dimenticato oppure, quand’anche rilevato, considerato negativamente[20]. Inoltre, a prescindere da come la relazione tra ragione ed emozioni fosse concepita, la prima e le seconde sono state spesso considerate in termini astorici e indipendenti, piuttosto che come fenomeni sociali e contestualizzati. Queste erronee tendenze concettuali nella cultura occidentale hanno influenzato l’interpretazione di Marx (e di altri studiosi): l’attività umana è stata identificata con il pensiero razionale e l’azione degli individui descritta attraverso un disprezzo, o comunque un’esclusione delle emozioni, cioè delle passioni che animano, orientano, e guidano tale attività, oltre che della natura «socialmente integrata» delle emozioni[21].
La letteratura sulla teoria dell’alienazione di Marx è vasta, e i lavori più importanti comprendono almeno qualche discussione delle emozioni[22]. Il fatto che le emozioni siano presenti in tali lavori suggerisce che esse sono importanti e che è difficile evitare di fare i conti con esse; in altre parole, che esse meriterebbero una più consapevole ed esplicita attenzione di quanto ne abbiano solitamente ricevuta[23]. Nondimeno, così come è avvenuto nel lavoro sociologico più in generale, gli sporadici riferimenti alle emozioni presenti nella letteratura sulla alienazione sono di solito piuttosto involontari, incidentali e certamente non frutto di analisi sistematiche; neppure si può dire che siano state esplorate le ripercussioni che le emozioni hanno per la teoria dell’alienazione di Marx e per il suo complessivo lavoro teorico.
In una misura perfino maggiore, anche altra letteratura marxista (ad es., avente a oggetto la formazione delle classi, l’azione e la lotta) ha avuto la netta tendenza a essere «eccessivamente cognitiva»[24]. Nella letteratura marxista il «pensiero», e più largamente la «cultura», sono stati spesso trattati semplicemente come «epifenomeni» in qualche modo «determinati» da processi e condizioni materiali. In una tale visione, sarebbe il riconoscimento razionale o cognitivo di interessi, basati su processi e condizioni materiali, a portare alla formazione di classe, alla lotta e all’azione. Ebbene, ciò che tali approcci dimenticano è non soltanto il fatto che lo stesso Marx sembra costantemente legare «pensiero» e «azione», ma anche il ruolo che le emozioni possono giocare sia in questo legame che nel rendere possibile la stessa azione.
L’alternativa. L’approccio tradizionale/convenzionale, che oppone ragione ed emozioni, ha sempre avuto dei detrattori (ad es. David Hume e William James[25]), ma sono state le più recenti conoscenze a revocare in dubbio una tale visione e prospettiva. Come sottolinea il neuro-scienziato Antonio Damasio, «emozioni, sentimenti e regole biologiche giocano tutte un ruolo nella ragione umana»[26]. Invece che opposizione, c’è «un’interazione dei sistemi sottostanti gli ordinari processi delle emozioni, dei sentimenti, della ragione e dell’assumere decisioni»[27]. Ragione ed emozione, lungi dall’essere antitetiche e per natura distruttive l’una dell’altra, sono oggi ritenute complementari e perfino necessarie ciascuna per l’altra[28]. In una parola, come sottolineano i sociologi Jonathan Turner e Jan Stets, «le attuali ricerche di neurologia delle emozioni dimostrano che la contrapposizione di vecchia data tra emozioni e razionalità intesi come poli opposti è semplicemente sbagliata»[29].
Non possiamo più parlare di una «azione esclusivamente razionale» se intendiamo la razionalità o l’azione come priva di emozioni, perché «la ragione non guidata da adeguate emozioni porta a un’azione sconnessa rispetto allo scopo»[30]. TenHouten afferma che «le emozioni possono generalmente essere interpretate come sforzi di stabilire [o ri-stabilire] un orientamento razionale verso il mondo»[31], con particolari emozioni che servono come basi per la ragione stessa e altre emozioni che agiscono per ripristinare la ragione quando sorgono problemi (così che anche le emozioni possono essere viste come «razionali» a loro modo)[32]. Ne Le forme elementari della vita religiosa, Durkheim fa seguire alla sua importante affermazione secondo cui «la società ha bisogno non solo di un grado di conformismo morale ma anche di un minimo di conformismo logico» un argomento di ordine socio-emozionale nel delineare le caratteristiche della «specialissima autorità» che è «inerente alla ragione»[33]. Questa profonda osservazione suggerisce la necessità, per una comprensione più sociologica della mente umana, di uno sviluppo congiunto di ragione ed emozione, e di cambiamenti socio-culturali e storici negli stessi «modi di ragionare»[34].
Da questa prospettiva, la visione convenzionale che considera ragione ed emozione come opposte può ritenersi un «modo di ragionare» storicamente specifico (in cui diventano importanti le questioni relative al modo in cui esso è sorto e al che cosa lo sostiene)[35]. Inoltre, nella misura in cui distorce la nostra comprensione di noi stessi, e la nostra capacità di vivere secondo la nostra «natura», questo specifico «modo di ragionare» può anche essere visto come una forma di «alienazione» sotto il capitalismo. Su entrambi questi aspetti, tale (considerazione e) visione è in sintonia più con la formulazione originaria di Marx che con le molte successive «letture» del suo lavoro, basate invece sulla più «tradizionale» visione convenzionale occidentale sopra descritta.
La concezione di Marx della natura umana, delle emozioni e dell’alienazione
Marx afferma che «un essere umano, in quanto essere oggettivamente sensuale, è un essere che soffre, e poiché noi sentiamo la nostra sofferenza [Leiden], noi siamo essere passionali [leidenschaftliches]»[36]. In modo decisivo, Marx continua: «La passione è la nostra forza fondamentale vigorosamente protesa a ottenere i suoi obiettivi»[37]. L’emozione è perciò centrale nella concezione di Marx[38] della natura umana: essa è la nostra «forza fondamentale» che dà energia e dirige l’«attività libera e consapevole», la quale costituisce per Marx il «carattere di specie dell’umanità».
Noi siamo sia esseri sociali, per così dire, generali che esseri particolari, con caratteristiche fisiche e psichiche, che si muovono entro contesti specifici. Secondo E.K. Hunt[39], «per Marx, l’essenza dell’umanità è che ciascun essere umano individuale è l’unità del particolare e del generale». Poiché noi siamo esseri sociali, anche il modo in cui «sentiamo» e «pensiamo» la nostra particolarità è fondamentalmente legato alla nostra generalità sociale. Eppure allo stesso tempo la nostra esperienza e le nostre azioni uniche, particolari e specifiche ricostituiscono, ricostruiscono e potenzialmente cambiano in modo continuo quella generalità sociale, e con essa noi stessi. Come Marx esprime nella sua terza «Tesi» su Feuerbach, «la coincidenza del mutare delle circostanze e dell’attività umana o cambiamento del sé può essere concepita e razionalmente compresa solo come una pratica rivoluzionaria»[40]. Non solo: «la coscienza è […] dal primo momento un prodotto sociale, e rimarrà così finché gli esseri umani esisteranno»[41]. Esiste quindi una relazione reciproca e dialettica tra il fatto che noi siamo esseri sociali, e la «libera attività cosciente» degli individui, che «costituisce il carattere di specie dell’umanità»[42]. Ebbene, le emozioni sono centrali nel plasmare, sostenere, come pure nel cambiare i legami tra le esperienze «particolari» dell’individuo e le esperienze «generali» e i modelli di vita sociale. Con le parole di Marx:
[g]li esseri umani si appropriano della loro essenza integrale in un modo integrale, come una persona totale. Tutte le loro relazioni umane col mondo –vedere, ascoltare, odorare, l’assaporare, provare sentimenti, pensare, contemplare, avvertire, desiderare, agire, amare- in breve, tutti gli organi che costituiscono la loro individualità, così come gli organi che sono immediatamente nella loro forma organi comuni, sono nel loro comportamento oggettivo o nel loro comportamento di fronte all’oggetto l’appropriazione di quell’oggetto. Questa appropriazione della realtà umana è la conferma e l’attuazione della realtà umana. Essa è azione umana e sofferenza umana, perché la sofferenza, concepita umanamente, è un godimento del sé per l’individuo[43].
Perciò solo includendo l’emozione («provare sentimenti», «avvertire», «desiderare», «amare», «soffrire», «appagarsi») quale componente della nostra «essenza integrale» e della nostra «persona totale», questa «natura umana» può essere compresa, molto meno compiuta e realizzata. Marx – qui come altrove – considera l’essere umano come una totalità, come un essere intero. Ciò che sto sostenendo, e cioè che l’emozione è parte della sua concezione della natura umana, è perciò coerente con la sua complessiva posizione teorica: senza l’emozione noi ci occupiamo non dell’«intero» della natura e dell’esperienza umana, bensì solo di un suo frammento.
Nel legare il «particolare» e il «generale», le emozioni possono essere viste come meccanismi adattivi che, in un modo culturalmente mediato, da un lato assicurano significativi cambiamenti nel nostro sé, contesto o ambiente, dall’altro aiutano a comunicare tali cambiamenti agli altri[44]. Esse non riguardano perciò solo il modo in cui noi agiamo e reagiamo entro tali contesti ma ci dicono in modi importanti, e dicono a chi sta attorno a noi, cosa quei contesti, in realtà, sono. Le emozioni non sono quindi semplicemente prodotti sociali, ma aspetti fondamentali, costitutivi della vita sociale[45]. Come afferma Jack Katz in estrema sintesi, «ciascuno di noi normalmente sente situazioni»[46].
Agnes Heller afferma che «sentire significa essere coinvolti in qualcosa»[47]. Le emozioni mantengono gli individui in armonia con il loro continuo «impegno» in vari contesti, attività e relazioni sociali – in definitiva nella «vita» stessa – e favoriscono gli adattamenti necessari a rendere tale impegno possibile. Significativamente, tale sintonizzazione può verificarsi nel corpo ancora prima di una consapevolezza di tali cambiamenti, o anche in assenza di quest’ultima[48]; ma certo, rispetto a tale consapevolezza non è secondario l’impegno emozionale, poiché quest’ultimo la favorisce e la forma. Così profondamente integrata è la «materializzazione» delle emozioni nell’interazione sociale che gli altri possono qualche volta diventare consapevoli dei nostri stati emozionali prima di noi attraverso il nostro linguaggio del corpo[49]. Senza la reazione espressa dalle emozioni[50], cambiamenti anche importanti nel nostro ambiente sociale potrebbero passare inosservati.
Insomma, le emozioni aiutano a dare inizio ed energia ai processi sociali dell’azione e dell’adattamento, a focalizzarsi su di essi e inoltre a dirigerli: qui «sociale» è nel senso di Weber dell’«azione sociale» orientata verso gli altri. Eppure, storicamente, tale attività è stata compresa e/o raffigurata primariamente in termini «cognitivi» o «razionali». Il ruolo centrale che le emozioni giocano nel facilitare la «consapevolezza», la «ragione» e l’«azione» è stato generalmente ignorato[51]. L’opposizione di ragione ed emozioni caratteristica della cultura occidentale ipostatizza e si concentra su una dimensione della nostra natura (la nostra apparentemente indipendente, «oggettiva» e universale capacità della «ragione») e ne offusca contestualmente un’altra (la nostra di nuovo apparentemente indipendentemente, «soggettiva» e individuale esperienza dell’«emozione»), determinando una forma indebitamente separata/alienata di essere e coscienza.
Gli esseri umani come self-makers: individualmente e come specie. Ne L’ideologia tedesca, Marx descrive chiaramente i processi socialmente fondati del «self-making» che caratterizzano la specie umana:
Gli esseri umani sono i produttori delle loro concezioni, idee, etc.-gli esseri umani reali, attivi, ma così come sono condizionati da un determinato sviluppo delle loro forze produttive e delle relazioni che vi corrispondono […]. La coscienza non può mai essere qualcosa di diverso dall’esistenza consapevole, e l’esistenza degli esseri umani è il loro concreto e reale processo della vita[52].
In modo cruciale, Marx non dice che «forze produttive» producono le nostre «concezioni, idee, etc.», ma che siamo noi a farlo[53]. Noi produciamo le nostre proprie idee, ma facciamo questo come persone reali, in contesti reali, e perciò prendendo in considerazione reali condizioni e limitazioni. La nostra esperienza emozionale di questi contesti, condizioni, e limitazioni/costrizioni forma una parte essenziale dei nostri «concreti processi di vita», di ciò di cui ci occupiamo, di ciò che ignoriamo e del perché, e perciò di quale tipo di idee e comprensioni noi «produciamo» e/o «utilizziamo» in ogni contesto dato. «Agire, pensare, sentire e percepire sono, perciò, un processo unificato»[54]. Anche le famose righe che aprono Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte sono in linea con questa teoria della natura umana e della consapevolezza: «gli esseri umani fanno la loro propria storia [compresi se stessi e le loro idee], ma essi non la fanno precisamente come desiderano; essi non la fanno in circostanze da essi scelte, ma in circostanze in cui si imbattono, date e trasmesse dal passato»[55].
Il carattere dialettico della concezione di Marx è cruciale per capire l’apparente contraddizione in cui, come esseri alienati nel nostro contesto sociale corrente, noi possiamo essere sia sociali che non sociali, sia «attori liberi e consapevoli» che, allo stesso tempo, non liberi, non pienamente consapevoli, non in controllo delle nostre proprie azioni. Come sottolinea E.K. Hunt[56] in termini aristotelici, il nostro potenziale è parte della nostra «essenza», anche se quel potenziale non può essere sempre realizzato a causa delle condizioni esistenti. Noi, come esseri umani, continuamente «facciamo» noi stessi, sia individualmente che come specie, sia consciamente che non. Quando noi facciamo questo in un modo non alienante, lo facciamo in un modo pienamente «coinvolto»-consapevolmente, olisticamente e socialmente. In un tale olistico impegno con e verso il mondo, ragione ed emozioni lavorano insieme come parte della persona totale.
Emozione, ragione e alienazione. Benché mistificata sotto il capitalismo, la nostra natura sociale costituisce il cuore della concezione di Marx dell’essenza umana. Per di più, «un’alienazione dalla specie umana o dalla socialità è la base di tutte le forme di alienazione»[57]. Essere alienati significa che la nostra natura sociale, che da un lato rende possibile la nostra «attività libera e consapevole» (la quale è peraltro favorita dalla sua componente emozionale) e dall’altro si realizza attraverso di essa, è in qualche modo irrealizzata o comunque fortemente ostacolata nella pratica.
La teoria di Marx dell’alienazione, che si basa sulla sua concezione della natura umana, deve essere rivista per includere l’«emozione» come una componente essenziale del nostro «essere intero». Wallimann affermò che Marx ci vede come alienati ogni volta che determinate condizioni (le più varie) ci impediscano di vivere secondo la nostra generale natura umana (che include le nostre capacità di «intelletto, consapevolezza, volontà ed emozione»)[58]. Similmente, secondo Hunt, Marx vide l’alienazione come il trovarsi in uno stato in cui la nostra «esistenza» (nelle sue varie forme) contraddice la nostra «essenza»[59]. Secondo Ollman[60], «la persona alienata è quella che è diventata un “concetto astratto”»-«ogni caso in cui una relazione che contraddistingue la specie umana è scomparsa e i suoi elementi costitutivi sono stati riorganizzati per sembrare come qualcos’altro»-per esempio, quando i processi concretamente interconnessi di «ragione-ed-emozioni» appaiono nella veste dei distinti concetti «ragione» versus «emozione».
Un’idea chiave dell’antropologa Catherine Lutz può ulteriormente chiarire la nostra prospettiva analitica. Lutz nota che nella cultura occidentale l’assenza di emozione è associata sia alla «ragione» che alla «alienazione». Con le sue parole, «dire che qualcuno è “non emozionale” significa affermare che quella persona è calma, razionale e posata oppure che è riservata o distaccata, alienata, o perfino catatonica»[61]. Damasio[62] riconosce la visione di lunga data secondo cui troppa emozione disturba la ragione, ma allo stesso tempo dimostra che troppo poca emozione è altrettanto negativa per la ragione. Inoltre, così come troppa emozione si ritiene che comprometta la ragione, essa può considerarsi anche come una manifestazione di alienazione; per esempio, quando noi siamo «portati via», «consumati da», o «accecati» da rabbia, dolore e così via, noi non siamo «noi stessi».
Questa doppia relazione dell’emozione, da un lato, con la ragione, dall’altra, con l’alienazione, supporta ulteriormente il mio argomento secondo cui il particolare «modo della razionalità» caratteristico della cultura occidentale è legato all’alienazione umana, oltre che in qualche modo una sua manifestazione. In primo luogo, la conseguenza di tali copioni culturali è la sistematica dimenticanza o esclusione dall’ambito della «emozionalità» proprio di quelle esperienze emozionali che aiutano a delineare e a mettere a fuoco il «razionale», specialmente per il fatto che tali esperienze sono collegate al «self»[63]. Più precisamente, gli specifici sentimenti che stanno alla base delle caratteristiche forme della «razionalità» capitalistica, quelli che sono quindi centrali per il normale funzionamento del capitalismo, non sono visti come emozioni e sono nascosti o rimossi, mentre quei sentimenti che ostacolano tale funzionamento sono visti come emozioni, e ritenuti necessariamente da sopprimere[64]. La dicotomia tra «ragione» ed «emozione» diventa perciò una sorta di «profezia che si auto-avvera».
Sotto l’influenza della peculiare forma di razionalità richiesta dalle condizioni del moderno capitalismo, il «controllo delle emozioni, la chiarificazione dei propri obiettivi e valori, l’uso della modalità calcolatrice e la decontestualizzazione ed oggettivazione delle emozioni comportano una intellettualizzazione dei legami intimi»[65]. Tale «intellettualizzazione» comporta un distanziamento dalle emozioni e una loro neutralizzazione atta a facilitare l‘azione e l’interazione umana. Noi diventiamo così sempre più alienati dalla nostra capacità umana di provare una piena gamma di sentimenti e di relazioni umane.
In conclusione, attraverso l’enfatizzazione delle emozioni come un aspetto centrale nella concezione di Marx della natura umana e nella sua teoria dell’alienazione, possiamo sviluppare la necessaria attenzione analitica rispetto alla ri-considerazione della combinazione di aspetti dialetticamente interrelati della natura umana quali sono la socialità, le emozioni e la nostra stessa capacità di una attività libera e consapevole; allo stesso tempo, possiamo e dobbiamo evitare di reificare tali aspetti come ontologicamente separati o indipendenti l’uno dall’altro. L’inclusione dell’emozione dovrebbe, perciò, permetterci di comprendere meglio i vari modi in cui l’alienazione può manifestarsi in differenti sfere della società e come ciascun modo può essere legato all’altro: e ciò sia nel lavoro di Marx che nella ricerca contemporanea legata a Marx. Allo stesso tempo, è importante riconoscere che Marx vide l’alienazione non soltanto in termini di luoghi, condizioni e processi sociali specifici, ma legata alla società moderna nella sua interezza. Perciò, le forme economiche, religiose e politiche di alienazione (alcune delle sfere di cui più comunemente ci si occupa) non possono essere pienamente comprese senza considerarle come parti di questo più largo intero[66]. In modo decisivo, per Marx, la stessa esperienza di tali «sfere» sociali come campi separati dell’attività umana è un prodotto delle condizioni capitalistiche moderne e un’espressione di alienazione. Pertanto, possiamo considerare il «capitalismo» come una totalità che, proprio in quanto costituito di caratteristiche relazioni e processi sociali, ha anche una caratteristica composizione emozionale[67] diversa da quella di altri modi di produzione.
Marx e gli approcci micro all’azione e all’esperienze di vita quotidiana
Con le parole di Eva Illouz, in sintonia con Marx, «l’emozione […] è l’energia interna che ci spinge verso un atto»[68]. Nei suoi scritti, Marx enfatizza costantemente sia gli «individui reali» che le «azioni umane», e l’emozione è certo fondamentale sia per i primi che per le seconde, oltre che per il contesto sociale più in generale. Nel confrontarci con la teoria dell’alienazione di Marx, dobbiamo perciò occuparci sia del livello micro che del livello macro della realtà sociale[69]. Come legare i due livelli è sempre stato, tuttavia, un problema[70]. E l’emozione può aiutare a teorizzare la connessione[71]. Secondo Jack Barbalet, «l’emozione è un legame necessario tra struttura sociale e attore sociale»[72]. Più specificamente, «l’emozione connette fasi differenti della struttura sociale attraverso il tempo. L’emozione […] forma la base dell’azione, che poi consolida o modifica le strutture sociali qualche tempo dopo»[73]. Come sottolinea Randall Collins, «un’accurata visione della macrostruttura, ridotta al suo scheletro delle micro-situazioni legate insieme nel tempo e nello spazio, rivelerebbe flutti di emozioni, connesse alle cognizioni e motivanti comportamenti fisici, che scorrono attraverso lo spazio sociale»[74]. E nelle parole di Jonathan Turner, «le emozioni costituiscono l’energia che sostiene o cambia la realtà sociale»[75]. Tutto questo è in sintonia con la visione di Marx[76] delle emozioni come «nostro fondamentale potere vigorosamente proteso verso il suo oggetto» e con la sua premessa metodologica secondo cui gli esseri umani sono fondamentalmente esseri «storici» per comprendere i quali occorre «studiare il concreto processo di vita e l’attività degli individui di ciascuna epoca»[77].
Il metodo e il lavoro di Marx possono essere visti in termini fenomenologici.[78] «La fenomenologia ci dice che il nostro primario e usuale modo di essere nel mondo è interazione pragmatica»[79]. Per tale «interazione pragmatica» le emozioni sono fondamentali. Secondo William James, «le nostre ragioni non sono in alcun modo paragonabili al volume dei nostri sentimenti, eppure noi agiamo senza esitazione»[80]. James, in sintonia con la recente evidenza neuroscientifica[81], affermava, cioè, il carattere fondamentale delle emozioni per l’azione. Le emozioni svolgono questo ruolo aiutando a «allontanare l’incertezza dal futuro»[82]; esse fanno questo evidenziando ciò che è familiare e ciò che è inaspettato, e permettendoci di proiettare le aspettative al di là del presente.
Tuttavia, James andò oltre Damasio affermando che le emozioni sono alla base dello stesso «sentimento della razionalità»[83]. Nei termini di Barbalet: «James caratterizza la razionalità come la particolare configurazione emozionale che mette in grado l’attore di impegnarsi nei propri affari pratici»[84]. Nel suo ormai classico studio social-fenomenologico sulle emozioni, Denzin afferma che «l’emozionalità, il processo stesso del provare emozioni, colloca la persona nel mondo della interazione sociale»[85]. Denzin continua: «se tutta la vita sociale è essenzialmente pratica, comprendendo le pratiche umane nel mondo, allora le emozioni sono basate sulle (e a loro volta aiutano a fondare le) attività pratiche che collocano gli individui nel mondo»[86].
Tutto questo è considerevolmente simile ai passaggi di Marx con cui questo articolo si è aperto; vale a dire, che occorre cominciare con «premesse reali», cioè «individui reali», individui «come essi realmente sono», «esseri umani autentici e attivi»[87] e che noi «studiamo […] il concreto processo di vita e l’attività [compresa l’attività interpersonale] degli individui di ciascuna epoca». Le emozioni sono una componente fondamentale in tali concreti processi di vita, indicando il nostro stesso coinvolgimento in tali processi e attività.
Discussione
Sia la teoria dell’alienazione di Marx che la più recente sociologia delle emozioni, quest’ultima in rapida crescita, fanno registrare un’abbondante letteratura. Dapprima, considererò brevemente alcuni lavori sulla teoria dell’alienazione di Marx, legandoli alla sociologia delle emozioni contemporanea, o alla sociologia più in generale: ciò può contribuire all’approfondimento degli incidentali riferimenti alle emozioni rinvenibili in quei lavori[88]. Successivamente, passerò a una discussione, questa più dettagliata, del lavoro di Arlie Russell Hochschild sulla alienazione e sul «lavoro emozionale» e sul modo in cui questa autrice lega emozioni, «ideologie» e «strategie d’azione»: si tratta, infatti, di idee direttamente rilevanti per l’argomento qui in questione.
Nel suo classico studio sulla teoria dell’«alienazione» di Marx, Mészáros[89] vi si confronta attraverso una concezione olistica della natura umana nella cui economia le emozioni sembrerebbero poter avere un ruolo. Nondimeno, l’emozione di per sé costituisce qui un tema del tutto circoscritto. I capitoli in cui l’attenzione per le emozioni è più sviluppata sono quelli in cui egli discute degli «aspetti ontologici e morali» dell’alienazione, seguiti da quello sugli «aspetti estetici». Qui, Mészáros sottolinea giustamente che se «gli aspetti ontologici e morali» come pure quelli «estetici» non possono essere compresi a prescindere dagli aspetti «economici» e «politici», vale in realtà anche la reciproca: con ciò, egli intende sottolineare una totalità dialetticamente interrelata. Tuttavia, Mészáros si occupa in modo solo assai selettivo di emozioni e lascia le relative connessioni implicate e non sviluppate. I lavori di Heller, Barbalet e quelli più recenti di Turner e di Lawler, Thye e Yoon[90] possono offrire importanti idee per precisare ulteriormente il modo in cui le emozioni si spalmano attraverso tutti gli aspetti discussi da Mészáros e anzi aiutano a integrarli. Per esempio, Barbalet[91] si concentra strategicamente sul ruolo delle emozioni nei normali processi macro-sociali, compresi quelli attinenti alla politica e all’economia. Parimenti, Turner[92] sottolinea, da un lato, il fatto che l’interazione faccia-a-faccia «è inserita/incorporata» nelle strutture societarie sia di meso che di macro livello, dall’altro, l’importanza delle emozioni per comprendere tutti e tre questi livelli (micro-meso-macro).
Anche Ollman[93] evidenzia la notevole rilevanza della concezione di Marx della natura umana. Benché egli tratti le emozioni un po’ più esplicitamente di Mészáros, all’argomento non è però mai riservata l’attenzione che meriterebbe. Nondimeno, la discussione di Ollman della razionalità è qui particolarmente importante. Ollman include la dicotomia tra «emozioni e ragione» tra le più generali dicotomie tipiche della consapevolezza e della «ideologia borghese»; dicotomie, queste, che riflettono l’alienazione umana. Ollman sottolinea in modo importante che tali dicotomie pongono le cose nella prospettiva dell’«aut/aut» anche quando, in realtà, esse formano una «unità». Il lavoro di Durkheim su emozioni e razionalità, e il recente lavoro entro questa tradizione ad opera di Rawls[94] possono aiutare a precisare ciò ulteriormente (al riguardo, si vedano comunque i lavori di Bergesen e Schmaus[95]). Inoltre, attraverso il suo argomento secondo cui Marx aderì a una «filosofia delle relazioni interne» (si veda il lavoro di Hunt[96] per una critica), Ollman propone l’intrigante argomento secondo cui le forme di alienazione oggetto della tematizzazione di Marx del lavoro, della politica e dello stato e della religione corrono parallele (piuttosto che distinte). Tuttavia, le specifiche interconnessioni tra tali sfere di vita sociale e l’alienazione avrebbero bisogno di essere maggiormente precisate. A un tale fine, l’analisi delle emozioni nella natura umana e nella teoria della alienazione di Marx da me qui presentata può costituire uno stadio iniziale di lavoro. Lavoro che potrebbe altresì essere avviato, tra l’altro, attraverso le idee di Barbalet[97] sulle emozioni nella lotta di classe e politica e quelle di Turner[98], specialmente su emozioni e stratificazione[99] (su cui si veda anche Collins[100]).
Benché io non condivida l’affermazione di Israel[101] secondo cui la prima teoria di Marx della natura umana (così come presentata in Manoscritti economico-filosofici del 1844) fosse metafisica e perciò dovesse essere scartata insieme alla prima teoria dell’alienazione a essa legata, la sua discussione della «reificazione» (che egli vede come un’estensione della prima teoria della «alienazione») è promettente. Israel[102] presenta un modello di «tipologia di relazioni sociali» che esplicitamente include il «valore emozionale» e la «intensità» della relazione e che perciò sarebbe utile esplorare ulteriormente alla luce di modelli provenienti dalla sociologia delle emozioni[103]. Israel[104] discute anche il «fattore umano» come quel fattore che è implicitamente ritenuto essere «irrazionale» nei moderni sistemi tecnici. Questo è un aspetto cui proficuamente dedicarsi rispetto alla alienazione sia dal punto di vista generale della natura umana (che Israel scarta come metafisico) che dal punto di vista particolare dell’alienazione incorporata nella dicotomia storica tra «emozione e ragione».
Un recente lavoro di Padgett e alcuni lavori contenuti in Langman e Kalekin-Fishman[105] (specialmente quelli di Smith, Langman, Porpora, Salerno e Kalekin-Fishman) aprono interessanti prospettive per vedere l’alienazione nei termini della nostra esperienza che cambia con un mondo che cambia. Significativamente, l’emozione è presente in queste discussioni, ma non è attribuita a essa una sistematica o comunque centrale attenzione. Una più esplicita inclusione e uno sviluppo del ruolo delle emozioni in tali resoconti, attinta sia da una rilettura di Marx che dal contemporaneo lavoro della sociologia delle emozioni, potrebbe favorire una migliore comprensione dei meccanismi implicati.
Particolarmente importante per tutti questi resoconti può essere il recente lavoro sull’emozione della «vergogna», considerata la sua centralità per i «selves» sociali (si vedano i lavori di Scheff, di Turner e di TenHouten[106]). Per Scheff, la vergogna è «la emozione sociale»[107]. In una lettera a Arnold Ruge, Marx fa un esplicito commento sul ruolo sia individuale che sociale della «vergogna» che echeggia la sua idea di «cambiamento del sé» come «pratica rivoluzionaria» (vedi sopra), e offre anche una definizione di questa emozione: «Le rivoluzioni non sono fatte dalla vergogna […] la vergogna è una rivoluzione in se stessa…La vergogna è un tipo di rabbia rivolta su se stessi. E se una intera nazione sente vergogna, essa è come un leone che indietreggia per saltare»[108]. Similmente, «l’alienazione è un concetto intrinsecamente dinamico: un concetto che necessariamente implica cambiamento»[109]. C’è perciò qualcosa di intrigante nella considerazione di Jonathan Turner[110] della «alienazione» come essa stessa una complessa emozione, strettamente legata alla «vergogna». Alienazione e vergogna condividono le stesse componenti basilari, nello stesso ordine di importanza («sconforto-tristezza», «affermazione-rabbia» e «avversione-paura») e sono distinte solamente tramite i differenti orientamenti verso questi elementi in relazione al «sé», agli «altri», alla «situazione» e così via[111]. Quella di Turner potrebbe essere interpretata come una formulazione in cui l’emozione della vergogna, diretta verso l’interno, intensamente personale, ma che si riflette socialmente, segna l’inizio di un potenziale generalizzarsi nell’«alienazione» (la prima principalmente orientata verso il sé, la seconda orientata sia all’interno del sé che verso l’esterno costituito dagli altri e dalle situazioni). Tuttavia, pur configurandosi come un utile punto di partenza, la concettualizzazione di Turner sia della vergogna che della alienazione non viene ulteriormente precisata in termini di condizioni e relazioni sociali (cfr. TenHouten[112] sui modelli socio-relazionali di vergogna; sfortunatamente l’alienazione non è qui considerata).
Una delle più influenti studiose della «sociologia delle emozioni» contemporanea, Arlie Russell Hochschild, impiega il termine «alienazione» per descrivere le conseguenze di quello che chiama «lavoro emozionale». Lavoro emozionale è quel «controllo delle emozioni» realizzato come un aspetto centrale del proprio lavoro e quindi «retribuito». Nel suo libro The Managed Heart, l’«alienazione» è centrale: nell’ambito delle professioni di servizio contemporanee, l’attivazione, l’esperienza e l’espressione delle emozioni è diventata sempre più dettata dal datore di lavoro, «standardizzata» e «mercificata». Con le sue parole, «quando elementi del […] [nostro privato] sistema [emozionale] entrano nel mercato e vengono venduti come lavoro umano, essi diventano parte delle forme sociali standardizzate. In queste forme, il contributo emozionale di una persona è più esile, meno carico di conseguenze, e allo stesso tempo sembra arrivare meno dal self ed essere diretto meno all’altro. Per questa ragione esso è più suscettibile di alienazione»[113]. Tale «diradamento» del contributo emozionale personale di ciascuno e la «riduzione» dei legami sia col «sé» che con l’«altro» riflettono chiaramente il concetto di alienazione di Marx descritto in questo articolo.
Hochschild afferma che c’è «un filo intrecciato che riguarda l’intera esperienza di lavoro: il compito di gestire un’alienazione tra il sé e il sentimento e tra il sé e la manifestazione; in altre parole, di gestire la distanza tra ciò che si prova e ciò che si deve manifestare»[114]. Benché la studiosa americana trovi questo vero per i lavori del settore dei servizi che ha studiato, secondo me ciò può essere riferito più in generale all’intera società capitalistica. Come ha affermato Mészáros, «l’auto-ricerca della realizzazione egoistica è la camicia di forza imposta dallo sviluppo capitalistico sugli esseri umani, e i valori dell’“autonomia individuale” rappresentano la sua celebrazione etica»[115]. In qualche modo, nel distinguere tra «emotion work» e «emotional labor» – cioè tra «controllo delle emozioni» realizzato nella vita quotidiana e «controllo delle emozioni» realizzato per un lavoro retribuito – Hochschild ha normalizzato il primo. Ciò che Mészáros evidenzia è che la stessa «atomizzazione» e «individualizzazione» che è intrinseca nelle relazioni di produzione di merce del capitalismo ha un impatto sulle relazioni sociali in tutta la società, e non solo in diretta relazione con la retribuzione. Più «atomizzati» diventiamo, più alienati siamo dagli altri attorno a noi – in tutte le nostre relazioni sociali – e più dobbiamo perciò impegnarci in forme di «controllo emozionale» che ulteriormente contrappongono «noi stessi» agli «altri», in un «lavoro emozionale» diretto a mantenere la nostra «autonomia individuale». Anche il classico lavoro di Ralph Turner[116] sugli orientamenti «istituzionali» versus quelli «impulsivi» rispetto ai nostri «veri sé» pone una analoga contrapposizione, che può essere messa in relazione al lavoro della Hochschild: il sentimento di alienazione legato al lavoro emozionale (emotional labor) può essere alleviato o da una aumentata identificazione con lo stesso lavoro e con le emozioni implicate o dal dare maggiore credito e sfogo alle (reali) emozioni suscitate dal lavoro, quindi al proprio «self reale».
Benché l’argomento di Hochschild sia presentato come un’estensione del concetto di «alienazione» a nuovi contesti o anche come una nuova forma di «alienazione», una volta che riconosciamo il posto delle emozioni nella concezione propria di Marx della natura umana, le osservazioni e le informazioni della Hochschild appaiono in sintonia e anzi supportano l’argomento del mio articolo; e ciò sia attraverso l’enfasi della studiosa americana sull’importanza delle emozioni nella natura umana – come «parte della nostra natura senziente»[117]– che attraverso la considerazione delle emozioni come fondamentali in relazione alle forme di alienazione presenti all’interno del capitalismo contemporaneo. Allo stesso tempo, malgrado si riferisca all’alienazione in diretta relazione al lavoro di Marx[118], la Hochschild spesso discute l’«alienazione» in termini più personali che sociali –come una perdita del «senso del self». Ciò la colloca maggiormente vicina agli orientamenti più psicologici e individuali della letteratura sociologica sulla «alienazione» che sono prosperati dalla fine degli anni ’50 sino agli anni ’70 del secolo scorso. Manca ogni riferimento alla letteratura contemporanea marxista sull’alienazione ricordata sopra.
Coerentemente con la sua personale attenzione per il «self», Hochschild si occupa realmente solo dei primi due dei quattro «momenti» della «alienazione nel processo del lavoro» sviluppati da Marx – alienazione dal «prodotto» e dal «processo» di lavoro. Come Brook[119] ha notato correttamente, questo rende la sua analisi eccessivamente limitata e «localizzata», mancando un esplicito sviluppo e una discussione delle più larghe dimensioni e implicazioni sociali della teoria di Marx. Brook[120] cerca, peraltro, di difendere la Hochschild dai suoi critici ampliando la sua stessa analisi entro una più formale struttura marxista. Egli dimostra che il lavoro della Hochschild in realtà supporta o comunque è compatibile sia con l’originaria formulazione a quattro dimensioni di Marx, comprensiva dell’alienazione dalla «specie umana» e dagli «altri», che con i suoi successivi scritti sul «feticismo delle merci».
Il «feticismo delle merci» è direttamente legato alla teoria dell’«alienazione»: Marx si riferisce al fatto che, sotto il capitalismo, le relazioni umane e sociali tra persone sono realizzate solo indirettamente in quanto relazioni tra cose. Hochschild afferma che «Marx parlò di feticizzazione delle cose, non dei sentimenti»[121]. Nondimeno, nella misura in cui le emozioni sono esse stesse diventate «prodotti» standardizzati, che sembrano essere in relazione di opposizione rispetto ai lavoratori che le «producono», anche esse diventano più «come-cose», in un senso coerente con l’analisi di Marx del feticismo delle merci. Perciò l’analisi di Marx è, in realtà, abbastanza in linea con quelli della Hochschild.
Ciò detto, né Hochschild né l’ampliamento del lavoro di quest’ultima da parte di Brook vanno abbastanza lontano. La Hochschild si concentra sul tipo di lavoro di servizio, diretto verso le persone, che coinvolge principalmente i lavoratori di classe media (specialmente donne), con ciò trascurando i molti modi in cui le emozioni fanno «da sfondo» ad altre forme di attività di lavoro, o in generale di attività umana, attraverso tutte le «classi». Le emozioni sono invero necessarie per tutte le forme di azione. Nella misura in cui il lavoro retribuito in generale è alienante sotto il capitalismo, la base emozionale per una tale attività e un tale coinvolgimento in esso vi appare soppressa o trasformata, e ciò costituisce una dimensione chiave di questa alienazione. Peraltro, sia Hochschild che Brooks limitano eccessivamente l’«alienazione» al «processo di lavoro» in sé, ignorando i modi in cui l’«emozione» può essere legata all’alienazione in altre sfere della società (come la religione o lo stato o l’«atomizzazione» della «vita privata», tutte trattate in modo esteso da Marx).
Il lavoro di Marx sulla alienazione e sul feticismo delle merci è collegato alla sua teoria della formazione di classe e della lotta di classe. Diversamente dalle affermazioni di alcuni critici, «la considerazione da parte di Hochschild della resistenza dei lavoratori dimostra che ella comprende che essi sono riflessivi e possiedono la capacità di agire per cominciare a sfidare l’alienazione»[122]. In Managed Heart, Hochschild si occupa della resistenza a un livello largamente personale e locale. Tuttavia, che ci siano le possibilità per ampliare il suo argomento alla formazione e alla lotta di classe più in generale lo si vede nel suo successivo lavoro sul ruolo delle emozioni nel supportare o sfidare varie «ideologie» e le «strategie di azione» che le accompagnano, comprese quelle di «classe»[123]. Secondo Hochschild, «un periodo di rapidi cambiamenti economici e culturali [come quelli che viviamo ai nostri giorni] può ben creare più complicate relazioni tra sentimenti riconosciuti e non riconosciuti, tra manifeste ideologie e i loro pilastri emozionali»[124]. Sfortunatamente, questi argomenti sono svolti senza riferimento alla sua precedente enfasi[125] sull’«alienazione». Una fruttuosa linea di ricerca sembra perciò quella di combinare l’elaborazione da parte di Brook[126] della teoria di stampo marxista della Hochschild con gli argomenti del mio presente articolo e con il successivo lavoro di Hochschild sul legame tra emozioni, ideologie e strategie d’azione. Pensiamo al fatto che un’area in cui le «emozioni» hanno avuto un impatto decisivo è quella dello studio dei «movimenti sociali» (si vedano, ad es., i lavori di Flam e King; Goodwin, Jasper e Polletta; Schaeffer e Weyher[127]). Come nota la Hochschild, il «controllo emozionale» non è necessariamente alienante perché, nel corso di ogni sforzo o lotta, «noi cerchiamo di cambiare “come sentiamo” per adattarci a “come dobbiamo sentire” al fine di perseguire una data direzione di azione»[128]. In un tale processo, «noi forniamo emozioni al lavoro del sostenere o cambiare più larghi sistemi di stratificazione»[129], oltre a quelli dell’alienazione.
Per Marx, l’alienazione è una condizione oggettiva che non ha bisogno di essere «sentita» per esistere. Tuttavia, quando essa è sentita, può servire come un potente motivatore per il cambiamento e per la lotta. Appare perciò importante un lavoro che precisi i fondamentali elementi emozionali e i meccanismi della alienazione in relazione alla solidarietà e alle sfide di classe. Barbalet[130] enfatizza il «risentimento» come una emozione fondamentale nelle dinamiche di classe (questa può essere quella dimensione emozionale dell’alienazione dagli altri e dal più largo ordine sociale), come pure la «fiducia in se stessi» come una dimensione fondamentale per l’«azione» in generale; come e in quali condizioni sono legate queste due emozioni? Turner[131] ha limitato la discussione al risentimento, ma sembra importante il fatto che egli connette il risentimento, insieme alla «rabbia giustificata» e all’«essere vendicativi» (questi ultimi cruciali nella «rivendicazione dei diritti», un’altra forma di lotta, su cui si veda il lavoro di Barbalet[132]), alla «repressione della vergogna»[133] –l’importanza potenziale della vergogna in relazione alla alienazione è stata discussa sopra. Altrove, Turner[134] esamina la stratificazione delle stesse emozioni come una risorsa sociale trascurata (si veda il lavoro di Collins[135]); anche questo ha grande rilevanza per comprendere i rapporti di classe, le loro conseguenze e la relazione con la lotta. Tuttavia, i modi in cui il capitalismo mistifica le sue proprie sottostanti relazioni e basi rende ciò un compito complesso, in ragione del «modo in cui le persone cercano di tenersi libere dal coinvolgimento emozionale rispetto alla struttura sociale, con la conseguenza di un inintenzionale, sistematico e complessivo mantenimento dell’ordine di classe in corso»[136].
Conclusione
Non possiamo comprendere Marx – o l’azione umana, il pensiero umano, o più in generale la vita sociale, per dirla tutta – senza riconoscere il ruolo centrale delle emozioni. Prestando esplicita attenzione al ruolo delle emozioni nella concezione della natura umana di Marx e suggerendo alcune implicazioni di questa per la sua teoria dell’alienazione, ho cercato di fornire le basi per un’ulteriore chiarificazione, un ampliamento e una precisazione di quella teoria. La «svolta emozionale» in atto nelle scienze sociali rende una tale ri-lettura sia tempestiva che necessaria, data la scarsità di attenzione verso le emozioni nel passato lavoro sociologico in generale e su Marx in particolare.
Le emozioni sono onnipresenti, costituiscono quindi importanti fattori della vita sociale specialmente nel collocare e orientare il self in quella vita. Questo rende le emozioni particolarmente importanti per ogni comprensione sociale della natura umana, in particolare per la teoria di Marx dei modi in cui noi possiamo essere alienati da quella natura. In un mondo che cambia rapidamente, la teoria di Marx dell’alienazione è rilevante come mai, ma può avere bisogno di essere ri-precisata per essere applicata a tali mutevoli condizioni (si vedano i lavori di Brook; Langman e Kalekin-Fishman; Padgett[137]). Prestare maggiore attenzione alle emozioni, senza peraltro ridurre l’alienazione a uno «stato sentimentale» meramente psicologico o individuale, costituirà parte essenziale di questo processo. Data l’ampiezza del lavoro di Marx, il presente studio è solo un suggestivo inizio. Benché molta rilettura e ripensamento resti da fare, io ho indicato la necessità e la possibilità per un tale lavoro.
Nel riconoscere che «noi facciamo la nostra storia, sebbene […] non […] proprio come noi vorremmo», Marx fornisce una sintetica ma potente affermazione della «immaginazione sociologica»[138] coerente col suo intero approccio. Tuttavia, se seguiamo le famose righe da il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, Marx non si volge, come le letture convenzionali potrebbero far pensare, alle condizioni materiali o alle «mere» relazioni economiche. Egli descrive invece le immagini culturali e i miti attinti dal passato; in altre parole, «idee» cariche di emozioni cui persone reali e attive hanno attinto in uno sforzo di dare senso e perciò di identificarsi con (e perciò legittimare) il presente che cambia, o di sfidarlo[139]. Marx[140] fa qui anche un’analogia con «un secolo precedente» quando «Cromwell e le persone inglesi avevano preso in prestito discorsi, passioni, e illusioni dal Vecchio Testamento per la loro rivoluzione borghese». Durante tale periodo di cambiamento, idee, passioni e azioni sono spesso fuse e le persone si possono sentire veramente in vita; il futuro sembra radioso di speranza (o buio di nuvole tempestose che si preparano), e nuove possibilità abbondano (anche se noi qualche volta ci illudiamo circa quelle possibilità e trascuriamo i limiti imposti dalle condizioni correnti).
In un altro lavoro[141] ho esaminato l’alienazione in relazione alle condizioni locali e agli alti livelli di emigrazione dai paesi rurali in El Salvador. Cruciali qui sono le effettive condizioni sotto le quali i migranti scelgono di migrare, le strutture che danno significativamente il senso di quelle condizioni, e la natura altamente emozionale sia di tali scelte che delle loro conseguenze. Benché una recente letteratura sulla migrazione parli di «persone» che stanno ora costituendo una rilevante «esportazione» di El Salvador[142], come se l’intero processo fosse organizzato come un’altra forma di produzione di merci, tale linguaggio serve a mistificare ulteriormente la realtà che «reali individui» stanno effettivamente scegliendo di esportare se stessi e, nel far ciò, stanno esprimendo una tragica forma di alienazione dalla loro propria società e paese; condizioni in El Salvador hanno reso virtualmente impossibile per molte persone «rimanere» e «fare la loro propria storia». Molto fruttuoso sarebbe perciò un itinerario di ricerca diretto a irrobustire le connessioni tra la rilettura «emozionalmente fondata» di sociologi classici come Marx e la cultura – cioè il significato e i processi di formazione dei significati[143], che non esisterebbero senza emozioni – nel formare e sostenere modelli di migrazione internazionale. La migrazione internazionale potrebbe anche essere considerata una forma di «movimento sociale» che, come altri movimenti sociali, richiede un nucleo di «strategie emozionali»[144] dei suoi partecipanti.
Il costante cambiamento legato al capitalismo, il costante «processo di rivoluzione» delle «intere relazioni societarie» che Marx[145] evidenzia nel Manifesto del Partito comunista, e che porta le persone, oltre che le merci, lungo reti di scambio sempre più globali, può esso stesso implicare un «intorpidimento verso il basso» delle emozioni, un equivalente capitalistico del pervasivo atteggiamento «blasé» di Simmel, naturalmente in gradi variabili, in tutta la società – perfino a livello mondiale – piuttosto che solo entro le «metropoli», come sosteneva Simmel[146]. Il capitalismo, come le «metropoli» di Simmel, con la sua enfasi sullo scambio e sulle relazioni monetarie, comprende una tendenza verso «la razionalizzazione» e la «intellettualizzazione» di tutte le relazioni e un ingannevole «restringersi» della vita «emozionale» a quelle emozioni che sono in conflitto in modo più evidente con la «ragione», particolarmente con le forme «strumentali» di ragione più in armonia col capitalismo[147]. Possiamo nuovamente ben interrogarci su quali paralleli esistano tra l’atteggiamento «blasé» di Simmel, la «alienazione» di Marx e il peculiare «modo di ragionare»[148] che domina nella società capitalistica.
Nel concludere, torno al punto fatto proprio da Marx[149] nella terza «Tesi» su Feuerbach: «La coincidenza del cambiare delle circostanze e dell’attività umana o cambiamento del sé può essere concepito e razionalmente compreso solo come una pratica rivoluzionaria». La stessa possibilità di tale «processo di rivoluzione», del «creare» qualcosa di nuovo, comporta il legame emozionale tra «pensiero» e «azione» sopra evidenziato; l’«emozione» deve giocare un ruolo qui, in particolare in relazione al processo di «cambiamento del sé». Perciò, il «cambiamento di circostanze», l’«attività umana» e «il cambiamento del sé» sono qui fusi in uno stesso e unico atto. Attraverso le nostre azioni nel e sul mondo, noi cambiamo il nostro mondo e perciò noi stessi. Nel fare così, allo stesso tempo noi cominciamo a superare la nostra esistenza alienata e ad aprirci alla possibilità di vivere vite realmente umane.
Frank Weyher*
(traduzione dall’inglese di Paolo Iagulli)**
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* L. Frank Weyher, Associate Professor di Sociologia, Kansas State University. Email:weyher@ksu.edu
** Paolo Iagulli, Docente a contratto di Sociologia dei processi culturali SPS/08, Università degli Studi di Bari. Email: piagulli@iol.it
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- [1] In tutto l’articolo, utilizzerò i termini «umanità», «esseri umani» o equivalenti laddove nel testo originale Marx, o altri autori, abbiano usato, nello stesso significato, il termine «uomo». E per ragioni, per così dire, estetico-stilistiche non collocherò tali sostituzioni nelle parentesi che si è soliti usare in questi casi.
- [2] K. Marx, 2000, 176, 180-181.
- [3] Cfr. J.C. Alexander e B. Giesen, 1987, 11; J.M. Barbalet, 1996 e 1998; T.D. Kemper, 1990; W.D. TenHouten, 2007; J.H. Turner, 2007, 59.
- [4] Cfr. T.D. Kemper, 1990, 3; S Shott, 1979, 1317; W.D. TenHouten, 2007, XI; J.H. Turner, 2007, 1; 2009, 340; 2010, 169; J.H. Turner e J.E. Stets, 2005, 1; S.J. Williams e G. Bendelow, 1998a, XV.
- [5] Cfr. C. Shilling, 2002, 11.
- [6] S.J. Williams, 2001, 2.
- [7] J.M. Barbalet, 1998, 3: corsivi miei.
- [8] Cfr. J.M. Barbalet 2002a, 6; D.S. Massey 2002; J.E. Stets e J.H. Turner, 2007, 1; J.H. Turner, 2002, 28; 2009, 340; 2010, 169. L’attenzione per le emozioni ha ora un’influenza in molte sotto-discipline di lungo corso all’interno della sociologia (ad es. J.M. Barbalet, 2002b; M. Berezin, 2001 e 2002; H. Flam, 2000 e 2002; H. Flam e D. King, 2005; J. Goodwin et al., 2001; V. James e J. Gabe, 1996; J. Pixley 1999, 2002 e 2004; T.J. Scheff, 2000) e ne ha aperte di nuove (ad es. J.M. Barbalet, 1998; C. Clark, 1987; N. Denzin, 2007; A.R. Hochschild, 1979; J. Katz 1999; T.J. Scheff 1990a; S. Shott 1979; W.D. TenHouten 2007; J.H. Turner 2007). Come affermano i curatori del recente Handbook of the Sociology of Emotions, «il settore è ora alla ribalta della microsociologia e, sempre più, della macrosociologia»; inoltre, «la sociologia delle emozioni continua a introdursi di fatto in ogni sotto-disciplina entro la sociologia e oltre» (J.H. Turner e J.E. Stets, 2007, 1, 6).
- [9] P.T. Clough, 2007; si veda anche M. Greco e P. Stenner, 2008, 5. Benché soprattutto sociologi, i collaboratori al recente volume di Clough, 2007, The Affective Turn: Theorizing the Social, affrontano il ruolo degli «affetti» e delle «emozioni» da una prospettiva psico-analitica e di teoria critica basata sulla filosofia contemporanea. Di conseguenza, i collaboratori chiave provenienti dalla sociologia delle emozioni sono assenti in molte delle loro analisi. Nondimeno, il volume è lodevole perché fa ricorso a un altro ricco e interdisciplinare corpo di letteratura, rilevante per la «svolta emozionale» che sia tali autori che io stesso affermiamo essere in corso. Nel futuro, anzi, sarebbero proficui tentativi di gettare un ponte tra le due letterature.
- [10] C. Shilling, 2002, 1; cfr. J.H. Turner, 2009, 340.
- [11] Per un inizio, si vedano però J.M. Barbalet 1992; 1998 sul risentimento di classe; 1996 sull’azione di classe; 1994 su Durkheim; 1998, capitolo 2 su Weber; C. Shilling, 2002; S.J. Williams 2001.
- [12] Cfr. J.M. Barbalet, 1998, 8; C. Shilling 2002, 10-12; J.H.Turner, 2010, 168.
- [13] Cfr. E. Illouz, 2007, 1-2; S.J. Williams 2001, 3.
- [14] Una logica conseguenza di ciò è la tendenza a lasciare fuori dagli indici dei vari scritti le emozioni e i termini a esse legati: anche quando tali termini sono usati nel testo, sono ritenuti di poco conto o banali, non significativi. Per saperne di più sul mutevole destino delle emozioni in sociologia, si veda J.M. Barbalet. 1998, capitolo primo.
- [15] Cfr. J.H. Turner, 2009, 340.
- [16] Cfr. J.M. Barbalet, 1998, 13.
- [17] Nel corso di questo articolo, seguirò Isidor Wallimann (1981, 5) nel distinguere tra «estrangement» (Entfremdung) e «alienation» (Entäusserung) e nell’utilizzare il primo termine anche se i due concetti sono spesso trattati come sinonimi in letteratura (ad es. B. Ollman, 1976, 132n). Wallimann (1981: si veda in part. 40-42) mostra che «estrangement» e «alienation» dovrebbero essere trattati come concetti distinti, seppure legati, e afferma che molta confusione ha fatto seguito a tale mancata distinzione. Secondo Wallimann «estrangement» (Entfremdung) si riferisce a situazioni in cui gli esseri umani non possono vivere seguendo la loro «natura umana». Diversamente, «alienation» (Entäusserung) si riferisce al trasferire il possesso (di una cosa) a un altro.
- [18] Cfr. J.H. Turner, 2007, 59.
- [19] Cfr. J.M. Barbalet, 1988, 29-61; A.R. Damasio, 1994; R. De Sousa, 1987, 1, 4-5; C. Lutz 1986, 290; M.C. Nussbaum, 2001, 354; W.D. TenHouten, 2007, 130; J.H. Turner, 2009, 343.
- [20] Cfr. J.M. Barbalet, 1998, 3, 30.
- [21] Cfr. J.H. Turner, 2002, 30-48.
- [22] Si vedano, ad es., J. Israel, 1971; I. Mészáros, 1986; B. Ollman, 1976; J. Torrance, 1977; I. Wallimann, 1981.
- [23] Cfr. J.M. Barbalet, 1998, capitolo primo.
- [24] Cfr. J.M. Barbalet, 1992 e 1998, 64-66.
- [25] Si veda J.M. Barbalet, 1998, capitolo secondo.
- [26] A.R. Damasio, 1994, XIII: corsivo mio.
- [27] Ivi, 54.
- [28] Cfr. A.R. Damasio, 1994; W.D. TenHouten, 2007, 133; J.H. Turner, 2007, 36-37 e 2009, 343. Per una arguta sintesi di tre differenti approcci alla relazione tra «ragione» ed «emozioni», si veda J.M. Barbalet, 1998, capitolo secondo.
- [29] J.H. Turner e J.E. Stets, 2005, 21: corsivi miei.
- [30] J.M. Barbalet, 1998, 31: corsivi miei.
- [31] W.D. TenHouten, 2007, 133, 167.
- [32] La formulazione di Tenhouten può essere ulteriormente precisata come una caratterizzazione emozionale dello specifico tipo di razionalità «strumentalmente razionale» (la weberiana azione razionale rispetto allo scopo) dominante nella moderna società; altre forme di «razionalità» possono peraltro richiedere differenti specificazioni. L’acuta osservazione di Weber secondo cui ciò che è «razionale» da una prospettiva può essere completamente «irrazionale» da un’altra suggerisce una proficua linea di ricerca: esplorare le caratteristiche emozionali di differenti forme di ragione «pratica» o «situata».
- [33] E. Durkheim, 2001, 19.
- [34] E. Durkheim e M. Mauss, 1963, 88; W.D. TenHouten, 2007; J.H. Turner, 2007; cfr. A.J. Bergesen, 2004.
- [35] Cfr. J.M. Barbalet, 1998, capitolo primo; A. Heller, 2009.
- [36] K. Marx, 1974, 390.
- [37] Ibidem: corsivo mio.
- [38] Cfr. ivi, 390, 328.
- [39] E.K. Hunt, 1982, 7: corsivo mio; cfr. I. Mészáros, 1986, 13-14.
- [40] K. Marx, 2000, 171.
- [41] K. Marx, 2000, 183.
- [42] K. Marx, 1974, 328.
- [43] Ivi, 351.
- [44] Cfr. W.D. TenHouten 2007 e J.H. Turner 2007.
- [45] Cfr. J.M. Barbalet, 1998.
- [46] J. Katz, 1999, 332: corsivo mio.
- [47] A. Heller, 2009, 11: corsivo mio.
- [48] Cfr. A.R. Damasio, 1994, capitolo 9; J.H. Turner, 2009, 342.
- [49] Cfr. J.H. Turner, 2007, 58.
- [50] Esiste una letteratura in rapida crescita sull’«embodiment» (sulla corporeità) che ha evidenti connessioni con l’esperienza vissuta di emozioni da parte di persone reali «in carne e ossa» (K. Marx, 2000, 180); per saperne di più, si vedano C. Shilling, 2005 e S.J. Williams e G. Bendelow, 1998b.
- [51] Per un individuo seguire un corso d’azione basato su una considerazione o decisione consapevole costituisce la stessa essenza di ciò che Max Weber (1978, 25-26) descrisse come «azione razionale» sia nella forma dell’«azione razionale rispetto al valore» che in quella dell’«azione razionale rispetto alla scopo (o strumentalmente razionale)» (vedi anche J.M. Barbalet, 1998, 34). E’ comunque importante notare che Weber non attribuì tale «azione razionale» a ogni concezione di natura umana: per Weber (1978, 7), pensare nei termini di un «tipo ideale» di «azione razionale» era soltanto una «tecnica metodologica» e non un’affermazione su come le persone effettivamente agiscono. Weber chiaramente riconosceva il ruolo delle emozioni nella vita umana, ancorché talvolta ambiguamente confuse con le forme «irrazionali» dell’azione.
- [52] K. Marx, [1845-1846] 2000, 180: corsivi miei.
- [53] Come un recensore mi ha gentilmente ricordato, quando Marx (1848) 2000, 260 scrisse che «le idee dominanti di ciascun periodo storico sono sempre state le idee della stessa classe dominante» (vedi anche [1845-6] 2000, 192), questo non significava che queste erano le sole idee! Di nuovo, «la coscienza non può mai essere qualcosa di diverso dall’esistenza consapevole, e l’esistenza degli [esseri umani] è il loro concreto e reale processo della vita»; ebbene, nella misura in cui tale «processo della vita» cambia, cambieranno anche le idee e la consapevolezza su di esso. Su come tali variazioni entro l’esperienza di vita della classe lavoratrice, causate dalla regolari oscillazioni del ciclo di affari sotto il capitalismo, che sottolineano peraltro il ruolo delle emozioni, ostacolano lo sviluppo della «consapevolezza di classe», si veda J.M. Barbalet, 1998, capitolo 3.
- [54] A. Heller, 2009, 26.
- [55] K. Marx, 2000, 39.
- [56] E.K. Hunt, 1982, 9.
- [57] Ivi, 10: corsivi miei.
- [58] I. Wallimann, 1981, 15; vedi anche K. Marx, 1998, 538.
- [59] Cfr. E.K. Hunt, 1982.
- [60] B. Ollman, 1976, 134.
- [61] C. Lutz 1986, 289: corsivo mio.
- [62] Cfr. A.R. Damasio, 1994.
- [63] Cfr. W. James, 1956.
- [64] Cfr. J.M. Barbalet, 1998, 54-61; A. Heller, 2009, 171-184.
- [65] E. Illouz, 2007, 34.
- [66] Cfr. B. Ollman, 1976.
- [67] Cfr. Illouz, 2007.
- [68] Ivi, 2.
- [69] Cfr. R.W. Bologh, 1979.
- [70] Cfr. J.C. Alexander e B. Giesen, 1987.
- [71] Cfr. R. Collins, 1981; J.H. Turner, 2002, 2007 e 2010.
- [72] J.M. Barbalet, 1988, 27.
- [73] Ivi, 65.
- [74] R. Collins, 1990, 52.
- [75] J.H. Turner, 2007, 177.
- [76] Cfr. K. Marx, 1974, 390.
- [77] K. Marx, 2000, 181.
- [78] Si vedano, ad es., R.W. Bologh, 1979, 1 e S.M. Easton 1983.
- [79] S. Gallagher, 2005, 212.
- [80] W. James, 1956, 96: corsivo mio.
- [81] Cfr., ad es., Damasio, 1994.
- [82] W. James, 1956, 77: corsivo originale; A.R. Damasio, 1994, 217-18.
- [83] J.M. Barbalet, 1998, 44-45; W. James 1956.
- [84] J.M. Barbalet, 1998, 47: corsivi miei; si veda anche W.D. TenHouten, 2007, 129-38.
- [85] N. Denzin, 2007, 3.
- [86] Ivi, 32.
- [87] K. Marx, 2000, 176 e 180.
- [88] Molta parte della letteratura e delle ricerche sociologiche sulla «alienazione» dalla fine degli anni cinquanta fino a tutti gli anni settanta del secolo scorso enfatizzò le dimensioni «psicologiche» ed «emozionali» dell’alienazione – cioè, il sentimento dell’essere (vale a dire il sentirsi) alienati. Nella misura in cui evoca una ridotta capacità di una vita veramente umana ed emozionale, questa idea di «alienazione» sotto il capitalismo appare radicalmente contraria all’idea di chi, nell’ambito del dibattito marxista, enfatizza la dimensione «oggettiva» dell’alienazione, che trascenderebbe, cioè, ogni esperienza psicologica o soggettiva di essa. Il mio ragionamento invece suggerisce che l’«emozione» non è né pienamente soggettiva né pienamente oggettiva, ma costituisce piuttosto un legame tra le due dimensioni: essa sembrerebbe perciò configurare una complessa eppure fondamentale dimensione dell’alienazione entro un framework marxista.
- [89] I. Mészáros, 1986.
- [90]A. Heller, 2009; J.M. Barbalet, 1998; J.H. Turner, 2002, 2007 e 2010; E.J. Lawler, S.R. Thye e J. Yoon, 2009.
- [91] J.M. Barbalet, 1998.
- [92] J.H. Turner, 2002.
- [93] B. Ollman, 1976.
- [94] A.W. Rawls, 1996, 1997, 1998, 2001 e 2004.
- [95] A.J. Bergesen 2004; W. Schmaus, 1998.
- [96] E.K. Hunt, 1982.
- [97] J.M. Barbalet, 1998.
- [98] J.H. Turner, 2002, 2007.
- [99] J.H. Turner, 2010.
- [100] R. Collins, 1990.
- [101] J. Israel, 1971.
- [102] Ivi, 293-294.
- [103] Cfr. T.D. Kemper, 1990, W.D. TenHouten, 2007 e J.H. Turner 2002, 2007 e 2010.
- [104] J. Israel, 1971, 280, n.41.
- [105] B.L. Padgett, 2007; L. Langman e D. Kalekin-Fishman, 2006.
- [106] T.J. Scheff, 1988, 1990b e 2000; J.H. Turner, 2002, 77-79, 2010; W.D. TenHouten, 2007, 172-178, 182-190.
- [107] T.J. Scheff, 1990b, 281: corsivo mio.
- [108] K. Marx, 1974, 200: corsivi miei.
- [109] I. Mészáros, 1986, 181.
- [110] Cfr. J.H. Turner, 2007, 9-12, 122 e 190.
- [111] Cfr. ibidem.
- [112] W.D. TenHouten, 2007, 182-190.
- [113] A.R. Hochschild, 1983, 13.
- [114] Ivi, 131.
- [115] I. Mészáros, [1970] 1986, 258.
- [116] R.H. Turner, 1976.
- [117] A.R. Hochschild, 1990, 119.
- [118] A.R. Hochschild, 1983, 3-5, citazione da Il Capitale.
- [119] Cfr. P. Brook, 2009, 9.
- [120] Cfr. ivi, 17-21.
- [121] A.R. Hochschild 2003, 193: corsivi miei.
- [122] P. Brook, 2009, 24.
- [123] Cfr. A.R. Hochschild, 1990, 125, 127, 129 e 137-139.
- [124] Ivi, 129.
- [125] Cfr. A.R. Hochschild, 1983.
- [126] R. Brook, 2009.
- [127] H. Flam e D. King, 2005; J. Goodwin, J.M. Jasper e F. Polletta, 2001; R. Schaeffer e L.F. Weyher, Forthcoming.
- [128] A.R. Hochschild, 1990, 129.
- [129] Ivi, 139: corsivi miei.
- [130] J.M. Barbalet, 1998: capitolo 3.
- [131] J.H. Turner, 2007, 188-189.
- [132] J.M. Barbalet, 1998: capitolo 6.
- [133] J.H. Turner, 2007, 189.
- [134] J.H. Turner, 2010, 181-182.
- [135] R. Collins, 1990.
- [136] R. Sennett e J. Cobb, 1972, 258: corsivo mio; si veda anche R. Sennett, 1998.
- [137] P. Brook, 2009; L. Langman e D. Kalekin-Fishman, 2006; B.L. Padgett, 2007.
- [138] C.W.Mills, 2000.
- [139] Marx tratta le idee (e le emozioni) tutt’altro che solo come un epifenomeno: esse costituiscono un momento cruciale nei processi di cambiamento sociale, la cui relazione con la «produzione» deve essere compresa attraverso l’«osservazione empirica […] in ciascun singolo caso» (K. Marx, 2000: 180).
- [140] K. Marx, 2000, 330: corsivo mio.
- [141] A.M. Garni e L.F. Wether, n.d.
- [142] S. Gammage, 2006.
- [143] L. Spillman, 2002.
- [144] A.R. Hochschild, 1990.
- [145] K. Marx, 2000.
- [146] G. Simmel, 1971.
- [147] K. Marx, 2000; si veda anche J.M. Barbalet, 1998; A. Heller, 2009; G. Simmel, 1971; M. Weber, (1968) 1978.
- [148] E. Durkheim e M. Mauss, 1963, 88.
- [149] K. Marx, 2000, 172: corsivi miei.