Le derive del narcisismo e il soggetto-persona

Nel volume L’era del narcisismo (Vita e Pensiero, Milano, 2102), Vincenzo Cesareo – professore emerito all’Università Cattolica di Milano – in collaborazione con Italo Vaccarini, sottolinea una profonda contraddizione serpeggiante nelle società occidentali: da un lato, una diffusa crisi di identità che genera paura e sfiducia nel futuro e, dall’altro lato, la sua dissimulazione ad opera dei mass-media, che invece propagandano l’Occidente come terra promessa per l’affermazione della soggettività umana. Quindi: sfiducia e senso di autosufficienza, impotenza e onnipotenza, congiuntamente declinati. In particolare, scrivono i nostri autori: «Le persone delle società occidentali vengono spinte dalla cultura mediatica a   concepire l’esistenza in base al principio di autonomia e di espansione della propria soggettività, vale a dire come la sperimentazione continua di una grande liberazione, di apertura verso nuovi orizzonti e nuove opportunità, che conducono fuori dalle angustie del vecchio modo di vivere» (p. 8).

La contraddizione palese fra cultura della sminuizione delle aspettative e della paura e cultura della euforia della libertà di scelta, viene assunta e compresa nel volume entro la metafora del «narcisismo».

Confrontandosi con le varie interpretazioni della letteratura psicoanalitica, in cui si possono distinguere un narcisismo fisiologico (a fondamento positivo del senso di autostima) e un narcisismo patologico (quale disordine psichiatrico di personalità), Cesareo e Vaccarini assumono il concetto di «narcisismo» in una definizione «minimalista» con precisi connotati socio-culturali.

Con l’espressione «narcisismo minimalista» i Nostri intendono una deriva della soggettività che chiude la persona nell’autoreferenzialità, rendendola incapace di costruire relazioni fondate sul riconoscimento dell’altro e di pensare e agire progettualmente. «Il Sé – essi scrivono – rimane confinato entro un orizzonte relazionale angusto, in cui i rapporti con gli altri sono solo illusori, e, se esistenti, del tutto strumentali.» (p.10)

Dal punto di vista socio-culturale, la diffusione dei tratti identitari narcisistici – nella sovramenzionata accezione – sono sicuramente imputabili alla frammentazione istituzionale della società occidentale, che, a partire dalle conflittualità intrinseche ai complessi di ruoli che si vengono a rivestire e alla separazione tra abitazione e luoghi di lavoro, causano una parcellizzazione dell’esistenza. La logica dominante è la weberiana «razionalità strumentale» – in politica ed economia – che è eticamente e affettivamente neutra e spersonalizzante.

La biografia personale così si destruttura e l’identità di disintegra, conducendo a una crescente incapacità-impossibilità di riferire la propria interpretazione della realtà a un sistema di significati coerente. L’esposizione alle più varie e poliedriche mode culturali ne è una conseguenza, quindi il soggetto è «eterodiretto». Domina un relativismo pervasivo nei sistemi di valore e nelle visioni del mondo, che coesistono ma che generano una diffusa indifferenza, quindi il soggetto è «blasé».

Il relativismo è poi strettamente congiunto all’individualismo: l’essere umano, non trovando orizzonti condivisi di senso, si ripiega su se stesso, assumendo il proprio Io come unico punto di riferimento.

Quali sono gli effetti del narcisismo per il soggetto,  per i suoi rapporti con gli altri e la vita di gruppo, per la società intera?

Il «narcisismo minimalista», a livello individuale, tende a produrre depressione, psicosi, ansia, nevrosi, dovute all’enfatizzazione del senso di libertà da ogni vincolo e dalle inevitabili smentite da parte della realtà della vita; a livello interpersonale, l’altro è ‘usato’ in modo strumentale ai fini dell’appagamento dei bisogni dell’Io, il quale dunque difetta di empatia e affettività autentica; a livello di gruppo, prevale un isolazionismo della pretesa autosufficienza e un solipsismo che impedisce l’apertura agli altri e i legami profondi, in ricerca di un continuo nascondimento difensivo; a livello societario, si erode la  coesione sociale, si ostacola la produzione di capitale sociale, si sterilizzano  i legami comunitari, si indeboliscono i vincoli e le appartenenze, palesandosi estranei a ogni sentimento di rinuncia, sacrificio, solidarietà ai fini della costruzione del  ‘bene comune’.

Quale antidoto dunque possiamo opporre alla (psedo)-cultura del narcisismo?

Nella mia lettura, occorre lavorare per la costruzione e la diffusione educativa di una «cultura della persona», ritornando ai suoi fondamenti sociologici. E questo tanto più quanto si assiste a una deriva narcisistica pedagogica, nascosta nelle pieghe di un crescente permissivismo e di una non meno qualificata ‘etica della tolleranza generalizzata’.

È questo l’assumersi la responsabilità del «rischio educativo», per riprendere una felice espressione di Don Luigi Giussani: l’introduzione alla realtà totale, ragione e libertà.

Imparare a vivere è imparare ad essere persona e l’essere «persona» necessita di un reciproco riconoscimento. In questo senso, il riconoscimento non è certamente quella affannosa ricerca di conferme che nutre l’ansia del narcisista.

Occorre – ripeto – torrnare ai fondamenti etico-culturali di una lettura sociologica della Realtà in senso ‘alto’, quale la diedero i suoi classici.

La persona è l’Io, certamente, ma immerso nell’esistenza, l’Io che si determina certamente a partire da se stesso, ma che nel contempo risponde attivamente agli stimoli e sviluppa la capacità di operare responsabilmente delle scelte: il contrario delle casuali ‘libere scelte’ – continuamente cangianti come in un frastornante caleidoscopio – del narcisista.

La «persona» ha dunque un centro interiore, ma l’interiorità è, al tempo stesso, «esistenza davanti all’Altro». Nel rapportarsi intenzionalmente all’altro si manifesta l’apertura costitutiva della persona, che si compie nella comunicazione tra un io ed un tu.

Nell’esistere con l’altro si mostra la reciprocità delle coscienze, l’empatia, come capacità di ‘sentire’, di ‘entrare nell’altro’: dunque, si manifestano la comunità e la condivisione, strutture imprescindibili della socialità autentica.

È questo il trascorrere alla dimensione io-noi: il soggetto cerca una relazione vitale con altre persone, perché nel rapporto col tu e col noi l’uomo diventa un «io». Si tratta di relazioni costitutive di ogni socialità dove il «principio-persona» si esplica dentro la multiforme gamma delle comunità in cui il soggetto vive.

«Costruire la persona» – socialmente e culturalmente – significa ricordare come la sociologia, nelle sue fonti originarie, sia sempre stata discorso sull’Uomo e progetto per l’Uomo, nella sua autonomia e libertà: dunque, una sociologia per la persona, umana e sociale/storica, considerata sia come «soggetto epistemico» (che conosce) colto nei suoi ambiti di vita (organizzazione, struttura, relazionalità), sia per le modalità e finalità del suo agire (intenzionalità e senso), che fanno parlare di un «soggetto noetico», il quale interpreta ma anche costruisce il ‘suo’ mondo vitale.

Per il suo ‘padre fondatore’, Auguste Comte, ai primi dell’Ottocento, l’uomo conosce il mondo a mezzo di ragione e sentimento, sentendo affettivamente l’altro uomo: «Vivere per gli Altri», egli scriveva.

È proprio da questa sottolineatura comtiana che il suo erede Émile Durkheim, ai primi del Novecento, si muove a valutare la moralità della società come il solo contesto che possa legittimare la persona in quanto «fonte autonoma di azione». La natura umana è pienamente solo in società: lì soltanto l’uomo si libera dal «giogo dell’organismo» e assume i ruoli entro un processo cooperativo.

Sulla scorta di Ferdinand Tönnies, Durkheim mette l’accento su un «bisogno di comunità» che anche la società moderna non può estirpare, ma su cui – pena l’anomìa – deve porre il suo fondamento. Così – ne La divisione del lavoro sociale (1893) – egli sottolinea come esista una «coscienza collettiva», una fede o un insieme di sentimenti condivisi, che vivono di vita propria rispetto al singolo individuo. Egli polemizza con un liberalismo che voglia ridurre l’ordine sociale ad una mera somma di individui atomizzati che scambiano le merci sul mercato.

Al contrario, Durkheim intende come la vita psichica sia una vita della coscienza individuale che si estende soltanto nella misura in cui la dimensione collettiva si sviluppa. Gli stati di coscienza derivano il loro contenuto solo dalla vita sociale, che, per così dire, si prolunga nelle vite degli individui, i quali traggono il loro carattere dal modo stesso in cui si aggruppano e dunque si influenzano reciprocamente.

L’autonomia della coscienza è un portato e un riflesso della divisione del lavoro sociale, che è fonte di solidarietà, quindi: di moralità.

Realizzare – anche pedagogicamente – l’idea di «persona» – l’uomo in generale – passa attraverso l’assunzione di responsabilità nell’esercizio di un dovere particolare. La moralità dell’individuo – che lo fa «persona» – trasforma il dovere verso se stesso (il rispetto di sé) in dovere universale verso i suoi simili.

Così la persona è tale perché diviene liberamente ma cooperativamente «fonte autonoma di azione», sorretta da una totalità interrelata, in cui le parti – gli individui – sono mutualmente, reciprocamente, dipendenti. Qui gli individui – lungi dallo svincolare assolutamente il proprio sé in una male intesa «libertà di azione» – sono al contrario «persone» che apprendono a muoversi in un contesto dinamico, ma regolato, dove l’agire si intride di valore morale nella partecipazione organica alla comunità societaria.

Sul piano teorico contrapposto a Durkheim, ma con lui consonante sui destini della modernità, fu Georg Simmel, il quale sottolineò come – seppure entro un crescente processo di differenziazione – l’uomo conservasse il bisogno di identificazione con il gruppo sociale. Solamente, nella società contemporanea, alle «cerchie sociali concentriche», che avvolgevano un tempo l’intera persona conferendole protezione e sicurezza, subentrano le «cerchie sociali intersecantisi», vale a dire quella pluralità di gruppi e associazioni in cui si possono trovare insieme – in una multiformità  di modi – più persone interessate agli stessi fini, orientandosi di volta in volta ora verso l’uno ora verso l’altro. Questa attitudine a formare «comunità di scopo» – che A. de Tocqueville chiamava «l’arte di associarsi» – riesce per Simmel a compensare il crescente processo di individualizzazione che ha  le sue pericolose derive nell’alienazione e nell’indifferenza del blasé.

Non per niente Simmel fu al contempo il teorizzatore dell’azione reciproca, attento ai contenuti psichici e alle loro dimensioni emotive, che gli fanno analizzare fedeltà e gratitudine come resistenti dimensioni impercepibili, a valenza morale, di tipo comunitario o associativo, imprescindibili nella tessitura di stabili relazioni sociali.

Da qui deriva l’interesse simmeliano di tonalità etica per le forme della «sociazione», cioè le più varie modalità dell’umano legarsi.

Questo passaggio conduce alla costruzione etica della «persona» entro il tessuto sociale in Max Weber. Di fondamentale importanza per la sociologia sono state le sue definizioni di interazione umana come «azione sociale dotata di senso» (cioè: significato) e di relazione sociale come «comportamento dotato di senso reciprocamente orientato». Ciò significa l’inclusione nella sociologia di dati di «comprensione», i quali implicano la simbolizzazione (capacità di cui per definizione il narcisista è privo, ripiegato com’ è nella sua illusoria autosufficienza e visione semplificata della realtà) e la cultura. Infatti Weber scriveva che la sociologia è una «scienza di realtà storico-culturale», cui non è estranea una dimensione morale ed educativa.

In che modo? La concezione weberiana ha per conseguenza che i dati di coscienza, di cognitività, di rappresentazione, di mentalità, si calano nella interazione umana, la cui esistenza sostanziano di significato e di «valore». Cos’è allora il «valore»? Esso è – per Weber – il ‘senso dell’esistere’, il motivo, la chiamata più profonda a cui l’individuo «deve» rispondere.

Il suo «farsi persona» è realizzare una vocazione, il che però non è solipsismo, ma, al contrario, imperativo morale alla «buona vita» – in modo responsabile e convinto – orientando il significato delle proprie azioni nei confronti degli altri, in una autentica reciprocità di intenti.

L’individualismo weberiano non sottolinea dunque tanto le sole ragioni e i soli motivi del soggetto, perché l’individuo non ha alcun senso «in sé». La «persona» è chi esiste in una connessione di senso costitutiva di sé «con» l’altro.

È questo il significato dell’intendersi tra «persone», in quanto comunicazione, dialogo, entro la dimensione del fare, del progettare e del volere, nell’azione con-determinata e reciprocamente orientata. La «persona» è dove la relazione reciproca ha un senso soggettivo: dove essa penetra nella psichicità dei soggetti, nel loro interno. L’altro non si affianca all’individuo, ma lo costituisce come effetto della sua stessa azione.

Sembra così dunque che la «persona» sia costitutivamente un «essere in relazione»: i suoi «diritti» (alla pienezza, alla libertà) sono – al tempo stesso – doveri verso cui gli Altri la richiamano: appello di condivisione.

In tale senso, il narcisista è una non-persona, incapace di assumere responsabilmente ruoli in cui non si tratta solo di assolvere a «imperativi funzionali» ma di entrare in una dialettica di mutue aspettative, cui non è affatto estranea la dimensione etica dell’impegno.

Nella più alta tradizione sociologica, all’olismo – la dimensione collettiva – su cui si sofferma Durkheim, ed all’individualismo del senso motivante, su cui si sofferma Weber, ben si affianca un «terzo paradigma», il «paradigma del dono», in cui la «persona» è soggetto situato – uomo totale, in carne ed ossa, come scriveva Marcel Mauss – al centro di una circolazione, materica e simbolica, di beni considerati per il loro «valore di legame».

È forse – questa – la rete più autentica, perchè più concreta, della socialità umana e dello scambio puro tra «persone», che si insinua anche nelle relazioni apparentemente più funzionali.

Il reciproco «donare» e «donarsi» si attua, per Mauss, entro un circuito circolare di rimandi: “dare-ricevere-ricambiare”. Che cosa?: oggetti e valori simbolici, come la stima, il rispetto e l’onore.

Da quanto sopra sinteticamente detto riguardo ad alcuni tratti della tradizione sociologica classica, deriva che la interdipendenza (in Durkheim), la relazionalità (in Simmel e Weber) e la reciprocità (in Mauss) non sono altro che aspetti di quel «riconoscimento», il quale soltanto rende l’individuo pienamente «persona».

Il riconoscimento rinvìa all’interazione sociale che stimola l’individuo – in senso morale – fornendogli la prova della sua esistenza e della sua valorizzazione attraverso lo sguardo interiore degli Altri.

L’espressione «contare per qualcuno» esprime l’attesa vitale di riconoscimento. Il riconoscimento – in senso morale – è al fondamento del legame sociale autentico, che restituisce la pienezza del proprio «essere uomo».

Il riconoscimento è un anelito intrinseco all’umano, ma non sempre, appunto, nella nostra società «liquida», dai legami disciolti, fragili, precari, trova adeguata esplicitazione. Molte, al contrario, sono le situazioni di sofferenza per la mancata attuazione di quell’aspirazione legittima, sulla quale si fonda la dignità personale come bisogno e come «diritto»: di esistenza, di partecipazione organica e di autorealizzazione entro un maturo e civile consesso.

Certo, a dirla con Zygmunt Bauman, la nostra è, appunto, una società dell’incertezza, quella dove trova la sua manifestazione il narcisismo minimalista, quale ricerca di egotistica autoaffermazione in una disordinata trama di legami deboli o illusori (si pensi ad esempio ai legami virtuali dei «social networks»).

Paul Ricoeur, che sociologo non era ma la cui lettura alla sociologia, in una prospettiva non meramente disciplinare, ma di sapere e di cultura sociale, può dare grande apporto, sostiene sull’umanesimo che quando si nega il carattere «morale» dei legami sociali, riducendoli ad usi strumentali, il risultato è una lotta per il riconoscimento reciproco in cui però regnano comportamenti negativi come l’umiliazione, il disprezzo e la tendenza all’esclusione.

Occorre, secondo Ricoeur, riscoprire l’ethos personale, che egli definisce in questo modo: «auspicio di una vita compiuta – con e per gli altri – all’interno di istituzioni giuste».

Per chiarire, la «vita compiuta» si fonda sulla stima di sé, che non è, però, un io centrato narcisisticamente su se stesso, ma capacità di agire intenzionalmente «intrecciandosi» con gli altri.

Il suo «con e per gli altri» si intride – eticamente – di «sollecitudine», che è poi, weberianamente, una «chiamata verso l’altro-da-me». E questo «altro-da-me» viene costituito come me stesso e dunque «riconosciuto».

Tuttavia, se l’ethos personale fosse solo questo si ridurrebbe a un dialogico controcanto vicino al desiderio.

L’appello di Ricoeur è che il riconoscimento trovi spazio dentro le istituzioni che sono «giuste» solo quando chi mi sta di fronte è anche un volto anonimo, un «ciascuno» oggetto di una «distribuzione giusta». E questa «giusta distribuzione» non è solo economica, di risorse materiali, ma anche simbolica, di diritti e doveri reciproci, di obblighi e di impegni, di mutue responsabilità.

Così – riassumendo Ricoeur – l’ethos personale comprende: la «cura di sé» (e non naturalmente in senso esteticamente autoreferenziale), la «cura dell’altro» e la «cura dell’istituzione».

Tutto questo rimarca un’esigenza di «reincantamento» del mondo, di contro alla pervasiva logica della razionalità strumentale, di cui il narcisismo rappresenta la deriva individualistica e atomizzante.

È in fondo l’espressione di un persistente anelito alla «comunità», alla rivendicazione di forme e stili di vita che contestino il primato della logica del liquido mercato globale, e che includano il rispetto dell’alterità, compresa l’attenzione per la natura, da non più considerarsi come inerte materia da manipolare per bisogni di produzione e consumo, ma come ecosistema dai delicati equilibri, e con cui instaurare un contratto che ci vincoli – come sottolinea Papa Francesco nell’Enciclica Laudato si’ – ad un’etica del ritegno, della misura e – anche qui, nuovamente – della responsabilità.

Nel contesto attuale – a dispetto di diffusi tratti narcistici che psicologizzano sterilmente l’Io – permane latente l’esigenza di una nuova soggettivizzazione, che sia in grado di confrontarsi con i processi di razionalizzazione, disincantamento e politeismo relativistico dei valori, a testimonianza di un’aspirazione della «persona» ad un «agire di comunità» entro forme plurali di «vita buona», entro il lavoro, le associazioni, l’economia no-profit e di terzo settore, le relazioni interpersonali di amore, amicizia e verso l’altro – e il diverso-da-noi, senza esclusione alcuna.

Donatella Simon*

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* Donatella Simon, Professore associato di Sociologia generale SPS/07, Università degli Studi di Torino. Email: donatella.simon@unito.it

lavoro, manipolazione, narcisismo, soggettivizzazione

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