“L’Europa e gli altri” di Eugenio Mazzarella

L’Europa e gli altri è tema di oggi. Grande e vasto. Troppo, da essere esaurito in qualche pagina, coinvolta nell’attualità, come pure si deve; eppure ineludibile oggi, qui in Europa. Quasi una «chiamata» alla coscienza europea, a riflettervi, se ancora l’Europa vuole avere una «coscienza europea», in un momento in cui gli «altri» bussano alle sue porte, alle porte della sua coscienza, prima ancora che sbarcare sulle sue coste, a Lampedusa, o affondare nel suo mare, «che abbiamo seminato di annegati più di qualunque età delle tempeste», come Erri De Luca ha scritto del Mediterraneo, «mare nostro che non [è] nei cieli» e «accogli[e] gremite imbarcazioni senza una strada sopra le [sue] onde».

Oggi la qualunque tempesta in cui è coinvolta l’Europa sono i tratti e i lampi, qualche volta gli schianti della sua coscienza morale, di quella «modernizzazione aberrante della società nel suo complesso», che Habermas paventava a Monaco nel 2004, in un famoso dialogo con Ratzinger.

Una modernizzazione, che avrebbe potuto rendere «molto debole nelle società [liberali] il legame democratico ed esaurire quella particolare forma di solidarietà da cui lo Stato democratico dipende, senza poterla imporre per via giuridica». Dopo qualcosa in più di dieci anni da quella diagnosi, la previsione è realtà; non più prognosi, bensì evidenza sociologica. Si è realizzata la situazione intuita negli anni ‘60 da Böckenförde; e che Habermas temeva: «la trasformazione dei cittadini di società liberali benestanti e pacifiche in monadi isolate, che agiscono solo sulla base del proprio interesse e usano i propri diritti individuali come armi contro il prossimo». Ai suoi occhi, «evidenze di un simile sfaldamento della solidarietà tra cittadini dello Stato» si mostravano già «nel più ampio contesto della dinamica, non politicamente controllata, dell’economia e della società globalizzata».

Quel governo, necessario, non c’è stato. E oggi noi siamo qui davanti al nostro pezzo di globalizzazione dei mari dove affondano i barconi; e i migranti, che hanno fatto ricca l’Europa senescente del benessere, visti come gli «altri» da fermare al confine, che incutono timore a società impaurite; dopo settanta anni di pace, e lunghi decenni di benessere crescente, con meno abitudine alle tempeste di altre aree del più vasto mondo globale. Dove antichi equilibri vanno in crisi e un nuovo ordine economico non dà più nulla per scontato a nessuno, neppure alla vecchia Europa; un’Europa senza più nemmeno le cannoniere con cui aveva globalizzato il mondo in nome del libero mercato, e degli spazi vitali che chiedeva. Il mondo cambia, e l’eterogenesi dei fini è forse legge della storia più certa dei ricorsi.

Siamo qui. Nella situazione che un grande sociologo della contemporaneità globale – la «società liquida» della «paura» – Zygmunt Bauman ancora recentemente ha descritto, in un’intervista al Corriere della sera, nel suo tratto più generale, e insieme più vissuto al dettaglio di ogni singola vita: l’insicurezza. «Le radici dell’insicurezza sono molto profonde. Affondano nel nostro modo di vivere, sono segnate dall’indebolimento dei legami […], dallo sgretolamento delle comunità, dalla sostituzione della solidarietà umana con la competizione».

E, per l’Europa, una competizione in discesa, dove ognuno è in lotta per mantenere almeno il proprio posto, quando anche l’abbia raggiunto, per non essere «declassato» da questo o quel ranking della vita. Dove non c’è classe o gruppo sociale la cui identità possa essere data una volta per tutte come acquisita, per i cui standard di appartenenza non si sia perennemente in lotta per scalare le classifiche o per non esserne buttati fuori. Dove da relazioni sociali già sature di conflittualità al livello della microeconomia delle relazioni interindividuali, ha facile esca il generarsi della «paura», il sentimento sociale oggi più diffuso, dilagante su tutti gli aspetti delle nostre vite e il cui riflesso sociale più evidente è la richiesta «securitaria» di tenere a bada gli «altri» da «noi», alle nostre porte.

Anche quando alle porte dell’Europa bussano cercando la salvezza da ben altre paure che la pur devastante crisi del nostro welfare, da ben altre insicurezze che l’allentamento dei legami sociali o la mancanza di solidarietà che questo comporta: la guerra, e la fame. Per l’Europa, gli «altri», che nell’immaginario di ieri – nella realtà, che è dura a morire, lo fanno ieri come oggi – tenevano aperte le sue fabbriche, manutenevano le sue strade, badavano ai suoi «vecchi», in una tollerata dialettica di sfruttamento e integrazione, gli «altri» sono «problemi» che si aggiungono ai loro problemi, e ai problemi che hanno già tra loro. Una distonia dell’emotività sociale che cambia le carte in tavola alla percezione della stessa realtà economica di cui vivono da decenni, che nonostante i suoi «guai» sulla bocca di tutti e in ogni famiglia, è tuttavia ancora molto meglio che altrove nel mondo; e che devono certo a se stessi, ma non meno al fondamentale contributo dell’immigrazione. Un contributo la cui necessità anche per il futuro nessuna analisi economica ragionevole, o anche puramente e freddamente razionale, mette in dubbio.

Senza voler nulla togliere – nelle tensioni geopolitiche della terza guerra mondiale combattuta a pezzi sulla scena della globalizzazione, di cui ha parlato Papa Bergoglio – all’ovvietà necessaria di politiche di sicurezza europea, e innanzi tutto di messa in sicurezza sociale delle proprie società da parte dell’Europa, una distonia emozionale della coscienza europea, che ha certo radici in riflessi sociali condizionati del tutto intuitivi all’analisi e immanenti a native dinamiche sociali, ma la cui enfasi nell’immaginario collettivo, in un dibattito pubblico inquinato da populismi e politiche che vi lucrano, affonda altresì radici in un infragilirsi dell’identità europea sotto la pressione dei processi geopolitici globali in cui è coinvolta. Un infragilirsi, che è anche un’inattesa riscoperta della fragilità – in un percorso europeo inconcluso, in un’Unione Europea che non ha mai visto veramente la luce – delle sue radici storiche culturali ideali; di quelle radici che, nonostante le traversie, le drammaticità e le tragedie della sua storia, all’Europa hanno dato, nella grande avventura della civilizzazione umana, la sua grandezza spirituale; che va rivendicata, e che dobbiamo sapere rivendicare.

Perché nonostante tutto, nonostante l’Europa porti su di sé i tratti d’incandescenza di una crisi di un Occidente «diviso, esausto, in lotta con se stesso», di una crisi che va oltre una crisi sociale ed economica, e al suo fondo ha dimensioni di crisi «antropologica», dell’idea di sé dell’uomo occidentale europeo come crisi di una cultura nei suoi fondamenti spirituali, l’Europa resta la più grande piattaforma di diritti (naturali, umani, di cittadinanza) che la storia della civilizzazione umana abbia conosciuto e conosca; l’Europa cristiana nel suo fondo, fondo che ha reso possibile, e a essa compossibili, persino i percorsi «laici» della sua scristianizzazione ideale dai Lumi in poi e operativa negli stili di vita di un presente ai piedi del Mercato dell’homo consumens, «lo sciame inquieto dei consumatori e la miseria degli esclusi», di cui parla Bauman, l’Europa, anche quest’ultima Europa. Una rivendicazione che a Monaco Ratzinger (e poi, tre settimane prima di diventare Benedetto XVI, a Subiaco,) farà propria nel confronto con Habermas in un aggiornamento, che resterà agli atti del discorso sulla modernità, di fondamentali analisi di Romano Guardini.

Una crisi che ha ragioni lunghe, nata in un depotenziamento dall’interno della ragione europea – in una sorta di «slealtà» verso se stessa, come scrive Guardini – che come ragione illuministica ha preteso di poter bastare a se stessa nella legittimazione dei valori – che pure erano suoi: la dignità dell’uomo ­– che storicamente si è trovata a proporre. Perché, facendo questo, è venuta meno alla ragionevolezza del mantenersi nelle radici e dipendenze umane di ogni affermazione di valori che non voglia perdere l’humus in cui i valori non solo nascono, ma fioriscono, nella loro vivente esistenzialità. E questo sulla base di un’illusione: credere di poter tenere fuori i valori morali della sua tradizione dal contenzioso religioso in cui pure erano tragicamente finiti; tramite una «riduzione etica» (da cui ricevessero basi «universali» di ragione) della loro esperienza vivente – nello specifico del Cristianesimo di una «riduzione etica» del «fatto storico» della rivelazione, dell’annuncio cristiano. Come se fosse possibile tener fuori i valori dall’humus di cui vivono, dalla vita che in essi prende posizione quanto a se stessa, a quel che vuole essere. Che poi è il nodo della tesi di Böckenförde, che non sia possibile nelle società democratiche liberali confinare alla costituzionalizzazione del «fatto del pluralismo» (la dignità della «persona» tradotta in «diritti dell’individuo») la sua piena effettività sociale fuori delle basi etiche (religiose) e tradizionali che l’hanno resa possibile.

Decisivo è stato il modo in cui si è declinata – al di là del terreno che le è proprio: l’emancipazione politica – l’uscita dallo «stato di minorità» della ragione moderna come ragione illuministica in Kant, è la nota tesi di Guardini. Kant, che paragona la traiettoria storica che conduce all’illuminismo alle tappe evolutive di un individuo dall’infanzia all’età adulta. Una pretesa che non è solo una slealtà storica («l’illuminismo, scriveva Ratzinger a ridosso dell’incontro di Monaco, è di origine cristiana ed è nato non a caso proprio ed esclusivamente nell’ambito della fede cristiana»), ma è innanzi tutto una slealtà esistenziale della ragione verso se stessa, della ragione come vita della ragione, dinamismo interiore di cui vive (valori, tradizioni, relazioni), verso l’effettiva «normatività» cui si obbliga. 

Il deficit che patisce l’Europa, alle radici della sua crisi, è innanzi tutto il depauperarsi di questo suo dinamismo interiore; dell’infragilirsi del dinamismo spirituale che le ha dato identità e cultura, cristiana. Ancora una volta, come in ogni momento di crisi, Die Christenheit oder Europa – se l’Europa vuole rispondere alla sua crisi. Il cristianesimo ovvero Europa, ma non come un’epoca storica: la cristianità, il Medioevo di Novalis; piuttosto come fondativa esperienza storico-spirituale. Come esperienza della vita che esteriorizza nella vita di relazione – nel foro pubblico delle relazioni sociali: assetti normativi, politici, economici – una diversa interiorizzazione della vita dalla fuga interiore dalla crisi del mondo classico dell’ellenismo; un’interiorizzazione della vita di relazione a Dio e agli uomini, che ha impregnato di sé la civilizzazione greco-romana sotto il primato dell’altro, di un tu, innanzi tutto il Tu divino, che, prima ancora che io dell’autoaffermazione, mi fa me delle relazioni; che fa quel che davvero sono, vita «affidata» e che si fida, che nasce in cure fondative, quelle parentali della relazione filiale e fraterna, e ne assume il primato ontologico, etico, sociale. La profezia antropologica del cristianesimo è che chi annuncio davanti a me, a cui preparo le strade, è un Tu, l’Altro che mi fa me; compimento per tutti della scoperta abramitica del Dio personale del dialogo. Il Dio padre di tutti, in un rapporto personale che non ha altra mediazione che il Figlio, che l’annuncia ai suoi fratelli, è la sintesi teologica di una svolta assiale in antropologia, nel sapere di sé conseguito dall’umanità nella sua storia.

La diversa tesi (da Todorov a Habermas, Rawls) che le radici dell’Europa siano molteplici e intrecciate – Roma, Atene, Gerusalemme – con importi significativi extra greco-giudaico-cristiani, e che l’effettiva identità europea sia piuttosto da individuare nel «fatto del pluralismo» come fondativo del liberalismo politico, e che quindi essa vada rintracciata nella genealogia storico-moderna di questo fatto, innanzi tutto nei Lumi; e che pertanto le radici dell’Europa siano anche cristiane, ma non essenzialmente cristiane, essendo piuttosto essenziale dell’identità europea «il fatto del pluralismo», tesi che ha purtroppo vinto nel dibattito che ha portato alla stesura del Trattato di Lisbona, merita qualche osservazione.

Quando si voglia assumere questa tesi, perché certo «il fatto del pluralismo» è formalmente quanto di più europeo-moderno possa essere ascritto all’identità del Vecchio Continente, non ci si può esimere da una domanda su quale contenuto etico sostantivo il fatto del pluralismo tuteli, per tutelare cioè quale contenuto etico positivo il fatto del pluralismo sia anche storicamente emerso nella storia d’Europa. Questo contenuto etico positivo è propriamente cristiano; è l’infinito diritto del singolo che cede solo davanti a Dio, la sua radice di essere, cui si affida: è questo portato etico che nella storia europea dell’Europa si fa giuridico, pretende a essere storicamente giuridificato, cioè tutelato politicamente rispetto a ogni istituzione terrena, persino quella ecclesiale; e si trova le sue istituzioni.

Ora questo contenuto etico è la radice contenutistica del pluralismo dei Lumi, che non a caso si ribella anche al tralignamento assolutistico o relativistico dei Lumi, alla sovranità della Dea ragione o – negli slittamenti post moderni della ragione desiderante – del desiderio individuale che non si dà confini. All’affermazione storica di questo contenuto etico, cui il cristianesimo (o se si vuole la tradizione giudaico-cristiana) ha dato lo strato ontologico fondativo del sentire – lì dove comincia tutto dell’idea che l’uomo si fa di sé –, la Grecia ha dato la potenza dell’argomentazione razionale e Roma il costrutto della forma giuridica. I diritti umani, e la libertà religiosa intorno a cui per altro sono nati, sono alla foce di questo grande fiume della storia europea che ha avuto le sue secche, e i suoi gorghi, le sue rapide e i suoi affluenti, ma è fiume che ha fonti cristiane; e non è un caso che al fatto del pluralismo, ed in esso alla libertà religiosa, appaia oggi il cristianesimo la visione del mondo religiosa più intonata: vi si riconosce l’appropriatezza di una genealogia.

Che non a caso a Monaco consente a Ratzinger – rispondendo all’apertura di Habermas a una filosofia «post-secolare», a un apprendimento complementare tra religione e filosofia sui problemi del presente – di rivendicare alla koiné spirituale del cristianesimo, l’Occidente greco-cristiano, una sorta di alleanza preferenziale, pur nel rispetto di tutti gli altri attori spirituali e culturali del mondo globale, tra la fede cristiana e la razionalità laica occidentale, due «partner principali», così li chiama, quando afferma «senza falso eurocentrismo» che «entrambi determinano la situazione globale come nessun’altra delle forze culturali». E questo al fine «di una candidatura privilegiata – fede cristiana e ragione occidentale più democrazia politica – al ruolo di primi attori del dialogo interculturale, un’iniziativa che ha come obiettivo guida quello dell’affermazione dei diritti umani».

D’altro canto in quel dialogo era già stato Habermas a concedere con convinzione che «con la sua nativa attenzione a possibilità di espressioni di vita sufficientemente differenziate, con la sua sensibilità per vite andate male, per le patologie sociali, per l’insuccesso di progetti di vita individuali e per le deformazioni di contesti di vita sfigurati», il contenuto esistenziale e valoriale del vissuto religioso rappresenta per la ragione, nella crisi dell’individualità postmoderna, una sfida cognitiva a tutto campo.

È un fatto che la coscienza religiosa custodisce meglio della ragione astratta, e dei proceduralismi delle sue istituzioni pubbliche, nel calore della concretezza della vita, questa connessione di senso fondativa dell’esistenzialità – archistruttura dell’esserci effettivo che si prova esistenzialmente nelle strutture socioeconomche di riferimento, subendone, mentre li crea, i quadri ideologici connettivi cui si affida, tra istanze di vincolo e tensioni di affrancamento. Che poi è il senso ultimo dell’obiezione «politica» avanzata da Ernst Wolfgang Böckenförde, a metà degli anni sessanta, oggi una certezza sociologica, che lo Stato liberale esito della secolarizzazione procedurale della vita pubblica [in sostanza le nostre democrazie] «si nutre di premesse normative che esso, da solo, non può garantire, dipendendo anche questa forma statuale, come ogni altra, da tradizioni metafisiche o religiose autoctone, o comunque da tradizioni etiche vincolanti per la comunità». Premesse normative il cui collasso pratico, di fronte alle sfide di questo nuovo millennio, piuttosto che la cittadinanza aperta e disponibile del «fatto del pluralismo» (Rawls) ci regala un individualismo dei diritti privi del rovescio, perché non lo sentono, del dovere di riconoscere agli altri eguali diritti. Una «modernizzazione aberrante» esito di una «secolarizzazione aberrante», nesso lucidamente colto da Habermas a Monaco, dove il diritto è il perimetro che mi prendo o rivendico per me, e per la mia sicurezza.

Uno scenario inquietante dove anche la religione e le culture – è il panorama più angoscioso dell’oggi – sono esposte a proporsi come risorsa identitaria renitente alle sfide dell’integrazione o dell’accoglienza in un mondo costretto per forza di cose a incontrarsi con l’altro a casa sua o a subire lo statuto di migranti, alla «politica estera domestica» che ormai deve gestire un qualsiasi ministro degli interni.

Cristianità ovvero Europa si gioca su questo sentire fondativo di una capacità di accoglienza dell’umano eccedente nel suo mistero a tutte le sue condizioni naturali, biologiche e culturali, affacciatosi alla storia nell’esperienza cristiana della vita. Che ha proposto alla civiltà del Mediterraneo, regnanti Augusto e Tiberio, quello che sarebbe divenuto il suo patrimonio morale distintivo: una dignità dell’uomo che non è nella disponibilità di nessun potere umano (che la può solo riconoscere) ma solo dell’amore, della fondativa solidarietà universale del fatto umano garantito nella paternità incarnata di Dio. E poiché è stata, è divenuta, questa capacità è possibile, abbiamo una natura conforme a essa. È un fatto storico, perché è stata concepita nel cuore dell’accoglienza umana, la cui ispirazione divina è il vero miracolo del Cristianesimo.

L’esperienza cristiana della vita come questa capacità di accoglienza del divino dell’uomo, dell’uomo come gli venga come a lui «divino», è il contenuto antropologico dell’Incarnazione cristiana nella scena dell’Annunciazione. Perché la stessa divinità di Cristo lì è stata «concepita» (afferrata dal cuore e dalla ragione) nel seno di Maria e nel cuore di Giuseppe: nella loro accettazione della rottura dell’ordine naturale (Maria che dice sì, che accoglie l’annuncio, l’iniziativa di Dio, anche se «non conosce uomo», Luca 1,34); e dell’ordine culturale (Giuseppe che pensò di rimandarla in segreto, e contro ogni vincolo morale tradizionale non lo fece e tenne con sé la donna, Matteo 1, 18-24). Il Cristianesimo è stato inventato, «trovato», da questo, da questo puro genio dell’accoglienza, che ti libera da tutto, da tutte le condizioni date; che fa incarnare il divino in mezzo agli occhi, che ci fa vedere divino ogni uomo che ci venga incontro. E come divenire storico è la sua perenne scommessa educativa, il cuore dell’evangelium il cristianesimo è la trasmissione di questo genio dell’accoglienza dell’umano. Cristo è il Maestro-testimone di questo genio, di questa personalizzazione della fede in cui metto il mio cuore su un altro, in un altro in un incontro che mi rinnova. E mi fa libero, libero da ogni condizionamento del Potere.

È questa esperienza antropologica fondativa – prima ancora che una confessione storica e le sue istituzioni, che pure quella esperienza hanno saputo tradire, un tratto a lungo distintivo della sua storia – a fare del cristianesimo tra le visioni del mondo religiosamente ispirate, o tra le religioni tout court il «candidato migliore» alla convivenza necessaria – nel secolo che si è aperto con le Torri gemelle – tra religione e democrazia, tra religioni e culture posto che il loro confronto possa, debba e voglia mettere capo alla profezia giuridico-positiva dell’Europa: la dignità umana e i diritti dell’uomo. Una profezia che è ancora davanti, inevasa, al grande mondo globale e alla stessa civilizzazione occidentale europea che l’ha partorita nelle doglie della sua storia. Il candidato migliore alla necessità di convivenza del mondo globale, dove è un fatto il politeismo intraculturale (la molteplicità di riferimenti valoriali in tensione tra loro di singoli e gruppi all’interno di una cultura) e il politeismo interculturale tra culture diverse e confliggenti tra loro; dove è un fatto il multiculturalismo a scala microsociale (sul pianerottolo di casa e tra generazioni diverse, tra strati e segmenti sociali della stessa etnia) e macrosociale (tra etnie diverse costrette a coabitare città e distretti produttivi e tra comunità nazionali impegnate nella partnership competitiva della globalizzazione).

Ai «piani alti» delle fedi abramitiche, questa gerarchizzazione spirituale  potrebbe anche non aver ragione di essere, alla luce della convinzione che in una profonda esperienza interreligiosa con le tradizioni contemplative del mondo, al piano nobile della mistica in ultima istanza, il conflitto religioso evaporerebbe in un’indicibilità di Dio che sa dire il suo unico nome ad ogni uomo nella lingua che gli è propria (tradizione, cultura, teologia); dove in definitiva farebbe aggio sulla diversità delle confessioni il contenuto concreto di un sincero vissuto religioso: la meta di un senso di empatia e di solidarietà per il  mondo che può essere proprio ad ogni uomo che sappia ascoltare fino in fondo, toccandone il fondo divino, la propria umanità. Il pressante invito oggi da più parti alla «conversazione» interculturale e al dialogo interreligioso va in questa direzione, a trovare fonti spirituali al «dialogo tra le civiltà» perché non prevalgano i falsi profeti dello «scontro di civiltà».

Ma il campo del dialogo, e il punto: Cristianità ovvero Europa, non è la mistica, nativamente orientata teologicamente a un dio «buono» piuttosto che «vero», un dio della misericordia – il dio «decente», l’unico «conveniente» al mondo della globalizzazione, di cui abbiamo bisogno oggi tra il nichilismo indifferente dell’homo consumens e le false profezie dello «scontro di civiltà». Ma il campo largo delle dinamiche sociali e geopolitiche dove religioni e culture sono chiamate a fare la loro parte, se non per un dio «decente» per un mondo che almeno lo sia. Lo ha colto bene ad Assisi Papa Bergoglio, alla giornata mondiale di preghiera per la pace. In un’immagine potente. In un fotogramma intuitivo di un gesto a noi tutti quotidiano, il Papa venuto all’Europa cristiana dalla «fine del mondo», e pure figlio della sua stessa cultura, così lo ha colto, cogliendo insieme la sua crisi e la sua missione: «Troppe volte [le vittime della guerra, che scappano dalle loro terre, o chi migra] incontrano il silenzio assordante dell’indifferenza, l’egoismo di chi è infastidito, la freddezza di chi spegne il loro grido di aiuto con la facilità con cui cambia un canale in televisione»; «l’aceto amaro del rifiuto».
Aggiungendo a questo drammatico invito a non fare zapping sulla realtà quando non ci riguarda da vicino, o anche solo non piace alla nostra «sensibilità», qualcosa di più duro e impellente di un appello morale: l’avvertita consapevolezza che lo «stato di guerra», a pezzi o a bocconi, apertamente sui teatri locali di guerra o nelle insidie del terrorismo, è lo stato tendenzialmente «normale» — durerà decenni — della globalizzazione, del ridefinirsi di rapporti di forza, di potere, di interessi sul pianeta; e tutti siamo chiamati a decidere se dobbiamo rassegnarci a questa «normalità» che nasce «dai deserti dell’orgoglio e degli interessi di parte, dalle terre aride del guadagno a ogni costo e del commercio delle armi», sperando che non tocchi a noi o voltando lo sguardo dall’altra parte; oppure dare mani piedi ed idee alla «sete di pace» che c’è nel cuore dell’uomo.

La scelta è ancora una volta tra i muri che non servono a niente e i ponti del dialogo, che possono anche cadere, ma sono l’unica possibilità di passare un frangente della nostra storia antico quanto l’umano: l’altro come un bene o un male per me, come un amico o un nemico. Un frangente dell’umano su cui non c’è niente di «originale» da dire. Ma solo qualcosa di «originario», di un’evidenza originaria dell’umano da riprendere sempre di nuovo, da restituire integra alla nostra consapevolezza: se accogliere o no i bisogni degli «altri». La novità è ogni volta semmai l’adeguatezza delle risposte alla circostanza concreta. Per cui non ci mancano, se vogliamo, saperi ed esperienze, le risorse delle tecnologie sociali e della politica. Ma questo viene dopo. Prima c’è, dell’azione, un sentire fondativo: i muri o i ponti.

Questa è la scelta dell’Europa. L’indifferenza securitaria che non avverte scandalo ancora una volta a muri e a siepi di filo spinato, a costo che la propria «terra» così difesa diventi un gulag per la sua «anima», o il dialogo. I muri che non servono a niente, come ancora ci avverte Bauman nell’intervista su ricordata («Una volta che nuovi muri saranno stati eretti e più forze armate messe in campo negli aeroporti e negli spazi pubblici; una volta che a chi chiede asilo da guerre e distruzioni questa misura sarà rifiutata, e che più migranti verranno rimpatriati diventerà evidente come tutto questo sia irrilevante per risolvere le cause reali dell’incertezza»); e come anche Papa Francesco ha sottolineato mesi fa: «Io ho sempre detto che fare muri non è una soluzione: ne abbiamo visto cadere uno, nel secolo scorso. Non risolve niente». Oppure, più «sensatamente», il sensatamente del «buon senso», cioè più razionalmente e insieme più umanamente, più ragionevolmente: costruire ponti, essere architetti del dialogo necessario a sottrarre la globalizzazione ai costi sociali ed umani, da cui nessuno potrà svuotare il suo vaso di Pandora.

Dopo aver dovuto misurare in vivo nel suo stesso pensiero la tragica inutilità di un’altra strada, che pure era stata la sua più drammatica illusione, a Heidegger è capitato di scrivere una volta che sono i ponti da costruire a superare i fiumi e i burroni, a mettere in contatto due rive, a costruire il paesaggio dell’umano. «Sia che i mortali facciano attenzione allo slancio oltrepassante del ponte, sia che dimentichino che, sempre già sulla via dell’ultimo ponte, [nel costruire ponti] essi fondamentalmente si sforzano di superare quanto hanno in sé di mediocre e di malvagio, per presentarsi davanti all’integrità, alla salvezza del divino».

La «chiamata» per l’Europa oggi è questa, non altra. Noi siamo qui a vedere, tra citazioni giuste, se ne siamo capaci.

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Böckenförde, Christianity, democracy, dialogue, Europe

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