Nichilismo giuridico? Una sfida al diritto

Nichilismo giuridico? Una sfida al diritto*

 

di Vittorio Possenti**

The paper reflects on the phenomenon of legal nihilism and its consequences on the law. According the author, legal nihilism is considered an important expression of European nihilism which undermines the specific nature of law, turning it towards «the will of the strongest» and breaking down its links with reason and justice. Opposing this perspective, this article tries to support the idea that the concepts of human nature, person and reason are the true sources of law.

 

  1. Inizio con qualche parola di autopresentazione: ho insegnato filosofia morale e filosofia politica, inoltre ho scritto non poco di metafisica. Pur non essendo un giurista, da un certo momento in avanti del mio cammino di ricerca mi sono sentito attratto dal perenne e grandioso fenomeno del diritto, che attraversa tutte le epoche e tutte le civiltà. Ho deciso di dedicare un lavoro alla questione del nichilismo giuridico ossia alla presenza del nichilismo nel campo del diritto: ne è nato il volume Nichilismo giuridico. L’ultima parola? (Rubbettino 2012). Dovendo procedere a collocarmi nel campo del diritto, dirò che sono un giusnaturalista o meglio un giuspersonalista, ed insieme un «positivista critico» nel senso che cerco di mantenere aperta la polarità tra diritto positivo e diritto naturale, evitando le soluzioni moniste. Non mi ripropongo ora di presentare il tessuto del volume; mi limiterò a riflettere su alcuni elementi del diritto che cerca di resistere all’attacco del nichilismo.

Diverse strade possibili: una è riflettere sui concetti di diritto e di legge, mostrando la maggior complessità del primo.

 

  1. Situazione del diritto positivo. Tra i fini principali del diritto si annoverano la lotta contro i mali della società, in primo luogo l’ingiustizia, e la ricerca e promozione del bene umano. I motivi per cui nelle società multiculturali il diritto statuale assume nuovo rilievo dipendono dal venir meno o dall’attenuarsi di un complesso di valori morali condivisi: si ricorre al diritto quasi come all’unico medium comune fra culture e famiglie spirituali diverse, che pur devono convivere. Conseguentemente sul diritto (positivo) gravano istanze nuove rispetto al passato proprio nel momento in cui esso, ponendosi come originato contrattualmente e sviluppato proceduralmente, avanza separando le questioni di validità formale delle procedure con cui viene prodotto da quelle di contenuto.

Due fenomeni alti attirano la nostra attenzione: la globalizzazione giuridica che inserisce il diritto in tutti gli snodi vitali della società e lo proietta in una dimensione planetaria e «sconfinata» perché al di là dei confini statuali nazionali, e la crescente dinamica di «giuridificazione del mondo», ed in specie della vita, che procede a velocità accelerata. Accade che campi una volta sottratti al diritto positivo stiano viepiù rientrando sotto la sua regia, col corollario che crescono tanto il disciplinamento sociale di materie prima lasciate all’autonomia individuale, quanto il numero di fattispecie giuridiche prima assenti. Ciò produce un’enorme dilatazione del materiale normativo, che è uno degli aspetti più appariscenti della situazione del diritto e della legge nella contemporaneità: il processo comporta una «law-saturated society, [in] una società strapiena di diritto, di regole giuridiche dalle provenienze più diverse, imposte da poteri pubblici o da potenze private…»[1]. Viviamo da tempo in una società sovraccarica di leggi e regolamenti sempre più intricati.

Aumenta la complessità che il diritto è chiamato a regolare e organizzare in ragione della crescita delle conoscenze, dei rapporti sociali di ogni genere, delle informazioni, degli scambi economici, delle attese e pretese. Diffusa è l’idea che la modernità e la postmodernità si identifichino in base alla differenziazione funzionale dei principali sistemi sociali: economia, politica, etica, diritto, scienza, con la difficoltà di garantire legittimi domini di autonomia e insieme la possibilità di intercomunicazione tra loro. Il rapporto tra Diritto e Tecnica (in specie biotecnologie) costituisce l’ambito più nuovo e complesso dell’intensa penetrazione del diritto: pensiamo al processo di crescente giuridificazione del bios, del mondo della vita col biodiritto.

Divenendo un settore funzionale della società complessa, il diritto si lascia alle spalle le fondamentali forme di relazione genetica da cui proveniva: natura, ragione, religione, e come «diritto positivo» si fonda solo su se stesso, senza chiedere ad altre sfere della vita un aiuto. Si considera totalmente autonomo, e quindi «autopoietico», capace di autocostruirsi perché appunto autofondato. Il diritto, che da un lato si ipertrofizza estendendosi ad ogni ambito della vita, è quello stesso diritto che non sapendo da dove proceda e di quali istanze sia portatore, si fa contingente e flessibile, aperto a molte soluzioni, in rapporto alle variabili maggioranze parlamentari in cui si ritiene risieda un enorme potere di produzione legislativa. Con l’affermarsi del primato della deliberazione politica va di conserva la separazione tra validità formale del diritto (ossia delle procedure attraverso cui viene prodotto) e problema della verità e giustizia del suo contenuto.

Il clima culturale della postmodernità influisce sul diritto in maniera notevole. Nel postmodernismo giuridico il diritto è liquido, si muove in tante direzioni, si lascia aperte tutte le possibilità, non desidera assumere un’identità precisa, ma è mutevole, a geometria variabile. Anche per questo l’idea stessa di un diritto «naturale» che valga di per sé gli è ostica. Siamo postmoderni perché diciamo: va dove ti porta il «diritto» del momento! Nell’età di un «divenirismo» in cui tutto si trasforma, anche il mondo del diritto diventa contingente, non riposa su alcunché di stabile, ma si presta a governare la dialettica sociale facendosi lui stesso variabile: ciò lo conduce ad un eccesso di possibilità che vanno volta per volta decise dal potere o dalla volontà fattualmente in vigore. Noi tendiamo ad istituire il diritto come forma e «tecnica» (sociale), «autonomizzandolo da ogni fondamento e subordinandolo esclusivamente alla forma: è legale non ciò che è buono, giusto, ecc. ma solo ciò che è conforme alla legge, e la legge, a sua volta, si distingue dalle altre regole sociali per la forma generale e astratta delle sue prescrizioni e per la legittimazione formale di chi la pone»[2].

 

  1. Sul nichilismo giuridico. Il nichilismo giuridico, espressione rilevante del nichilismo europeo, è un ospite inquietante che bussa alla porta, insidiando la natura stessa del diritto, volgendolo verso la volontà più forte e scindendone i legami con la ragione e la giustizia. Nel dialogo monacense tra Habermas e Ratzinger (2004) la questione è emersa almeno indirettamente per impulso di Ratzinger, che domandava se non esista qualcosa che non può mai diventare diritto.

La prospettiva che ho cercato di elaborare nel libro individua un luogo centrale del nichilismo occidentale nel positivismo giuridico assoluto, che trae origine da Nietzsche, e poi in vario modo da Weber e in specie da Kelsen. Secondo Nietzsche non esiste nulla che sia giusto o ingiusto in sé, ma il giusto e l’ingiusto prendono vigore solo dopo la statuizione della legge positiva, e questo è ciò che deve valere come giusto o ingiusto sino a quando una nuova decisione positiva stabilisca una diversa distribuzione del giusto e dell’ingiusto. Successivamente Kelsen, azzerando l’idea stessa di ragion pratica – che è ragione ad un tempo conoscitiva e normativa – ha proceduto a togliere al diritto ogni razionalità, finendo per corrompere lo stesso carattere centrale della scienza giuridica. La corruzione consiste nel fatto che nella kelseniana dottrina pura del diritto non è possibile valutare il contenuto delle leggi positive, che in linea di principio possono stabilire qualsiasi cosa, purché sia stata rispettata la procedura.

Il nichilismo ed i suoi adepti si adoperano attivamente per introdurre una nuova comprensione della legge e del diritto. Ciò accade nell’epoca in cui si fa più forte l’affidarsi al diritto come a fondamentale istanza inclusiva e «collante» che possa tenere insieme le attuali società fortemente pluralistiche e secolarizzate.

Il tema del nichilismo giuridico implica l’elaborazione di risposte a domande del tipo: che cos’è il nichilismo giuridico e quali categorie occorre mettere in azione per intenderlo? Come è sorto? Quali i suoi antefatti e quali i suoi esiti? Da oltre 150 anni il pensiero europeo ha messo in atto alcune diagnosi fondamentali sul nichilismo che portano i nomi di Nietzsche, Heidegger, Sartre, Schmitt, Jünger, Severino, ma che risultano tra loro molto lontane: avvertono l’imponenza drammatica del tema, non riescono a trovare risposte paragonabili. Anche la grande tradizione della filosofia dell’essere e del realismo, che si distende dalla grecità attraverso lo snodo fondamentale di Tommaso d’Aquino sino al XX secolo (Maritain, Gilson, Fabro), non potrebbe risultare assente in questa contesa straordinaria in cui ne va della comprensione di noi e della realtà. Dare voce a tale tradizione è quanto ho cercato di fare nel volume Nichilismo e metafisica. Terza navigazione (Armando 2004, 2° ed.), elaborando una ricerca sulla natura e l’origine del nichilismo teoretico e dell’antirealismo che sono al centro della deriva nichilistica e dunque anche del nichilismo giuridico. Nella svolta nichilistica le categorie centrali di essere, unità, verità, scopo non hanno più contenuto: non esiste più alcuna verità, unità, scopo, alcun «mondo vero» oltre l’eternità di un divenire senza senso e senza fine.

La vicenda del nichilismo giuridico si colloca entro questa vicissitudine epocale, in cui nichilismo significa che non si dà alcun diritto che sia giusto in sé e misurato dal diritto naturale. Conseguentemente la scelta è a favore del monismo giuridico, nel senso che tutto il diritto è positivo, posto (positum) da una volontà orientata assolutamente alla decisione (decisionismo giuridico e politico), in cui si esercita lo scontro tra singole volontà in lotta per il potere. Nel nichilismo giuridico si manifesta la vittoria del positivismo giuridico assoluto, che separa problema del diritto e problema della giustizia, identifica loi (positive) e droit, sostenendo che niente si può contro la legge, ma tutto si può con la legge, dal momento che questa può avere qualsiasi contenuto.

Nel nichilismo giuridico assistiamo all’eclissi del Diritto ed alla egemonia della Legge e del potere legislativo. La legge, diventando l’espressione della volontà dello Stato, può lasciare fuori la voce del Diritto. Ogni monismo è un assolutismo: la storia concreta del diritto è una storia di dualismi, il monismo conduce alla sopraffazione

Nell’ideologia del positivismo giuridico la sola fonte del diritto è la legge, ma nello stesso tempo nel ‘900 si è riscoperto il concetto di ordinamento[3], ed il valore ordinativo del diritto in rapporto alla realtà sociale, di modo che tutto il diritto non può essere inglobato nello Stato. Si esce così da quanto P. Grossi ha chiamato lo «statalismo giuridico», essere cioè la legge soltanto la volontà del titolare del potere supremo[4]. Diritto come ordinamento significa che la genesi del diritto è dal basso, di modo che il diritto appare quasi come espressione ed organizzazione della realtà sociale.

Nel nichilismo giuridico il diritto diventa dunque legalità positiva. Tale svolta implica l’esclusione di ogni ordinamento reale preesistente alla decisione normativa e che questa dovrebbe rispettare, non instaurandolo ma restaurandolo. Alla consegna del diritto alla volontà che non riconosce criteri esterni a se stessa, consegue che il diritto nichilista esprime il linguaggio della volontà con la sua illimitatezza aperta ad ogni possibilità e ad ogni scelta che si manifestano poi nell’incessante produzione giuridica, le cui regole esistono solo perché gli uomini vogliono che esistano. Poiché la volontà degli umani vuole e disvuole, desidera e allontana, ama e odia, niente è stabile, tutto è revocabile e mutabile. Ciò che è stato posto può con pari ragione essere tolto: e là dove non vi è alcun senso autentico, vi possono essere infiniti sensi. Il senso fattualmente scelto non sarà vero e buono, ma soltanto scelto, ossia voluto ed eventualmente imposto con la violenza. Tolto il riferimento essenziale all’atto di ordinamento della ragione ed alla giustizia, il diritto difficilmente si difende dal confondersi con la violenza. Alte risuonano in proposito le celebri parole di Agostino: Remota justitia, quid sunt regna nisi magna latrocinia? (De civitate Dei, l. IV, c. 4).

Su una lunghezza d’onda analoga e nel contempo radicalizzata si pone A. Camus, secondo il quale il nichilismo conduce a legittimare l’omicidio: «Così da qualunque parte ci si volga, al cuore della negazione e del nichilismo l’omicidio ha un suo posto privilegiato»[5].

Viceversa essere antinichilisti significa che esiste qualcosa che non può mai diventare diritto, anche se votato da una maggioranza. In tale prospettiva, elaborata dalla tradizione e tuttora presente, natura umana, persona e ragione risultano le vere fonti del diritto, per cui l’incontro tra filosofia greca e diritto romano, catalizzato dal cristianesimo, ha costituito la base del pensiero giuridico occidentale dal Medioevo all’Illuminismo e alla Dichiarazione universale del 1948. A partire dal XIX secolo e in varie ondate sino ad oggi i fondamenti della civiltà giuridica sono stati fortemente scossi dall’obiezione positivistica, che intende apertamente porsi come unico fondamento comune per la formazione del diritto. Per una parte considerevole del XX secolo però un argine importante al nichilismo è provenuto dal giuspersonalismo che riconosce nella persona umana la sorgente ultima del diritto inteso non come qualcosa che muta secondo le pulsioni anarchiche dell’io, ma come l’espressione fondamentale di quanto è dovuto alla persona umana come tale: questo è il suo diritto[6].

In tal modo l’intero ambito del diritto positivo è riferito alla persona ed ai diritti e doveri fondamentali che ne promanano: ubi persona et societas, ibi jus. L’espressione che la persona è il diritto sussistente e dunque l’essenza del diritto, proviene da Rosmini (cfr. Filosofia del diritto), ed è al centro di un giusnaturalismo che si può anche nominare giuspersonalismo. Il personalismo del XX secolo ha operato in senso antinichilistico in campo giuridico e politico, ottenendo risultati considerevoli a livello di Carte costituzionali e di una sensibilità giuridica diversa in cui il concetto di persona ha spesso preso il posto della nozione di soggetto giuridico astratto.

Nel giuspersonalismo la lex posita non può risultare dall’arbitrio del legislatore ma deve includere un’eticità sostanziale di rispetto dei rapporti reali nel mondo della vita; deve essere un atto di ordinamento razionale, non un atto di disordine, di ingiustizia o di creazione di un ordine astratto. In tal senso il diritto include necessariamente una valenza morale concernente il bene ed il male: non c’è diritto autentico senza etica, elementi di valutazione morale devono essere inclusi nel concetto di diritto (R. Alexy). In sostanza siamo al polo opposto rispetto alla posizione kelseniana secondo cui il diritto può ospitare qualsiasi contenuto. Viceversa diritto e giustizia non sono a disposizione del legislatore, e legge positiva e diritto non coincidono.

 

  1. È dunque corretto ritenere che nel nichilismo giuridico l’idea stessa di ordine interno alla realtà è negato. Il diritto prima di essere norma astratta è atto di ordinamento della vita sociale ed elemento che si cala dentro lo spessore della vita reale.

Possiamo dunque sostenere che la nozione di ordine e di ordine giuridico e quella di nichilismo giuridico si escludono mutuamente. Parlare di ordine giuridico significa in sostanza avvertire che il diritto si fonda su un ordine non soltanto esclusivamente mobile e creato ad ogni momento dalla volontà umana, ma su un ordine che affonda le sue radici ultime nella vita e nell’essere. In senso analogo procede Paolo Grossi nella sua feconda ricerca sull’ordine giuridico medievale. Parlando della società medievale la cui cifra ultima sta nel diritto, aggiunge: «Un ordine che non si lascia scalfire dagli episodi grandi e piccoli della vicenda storica, perché si colloca al di là del potere politico e dei suoi detentori, svincolato dalle miserie della quotidianità, collocato sul terreno fondo e sicuro delle radicazioni supreme e dei valori. Un valore immanente – la natura delle cose, un valore – trascendente – il Dio nomoteta della tradizione canonica, l’uno in assoluta armonia con l’altro secondo i dettami della teologia cristiana, costituiscono un ordo, un ordo juris»[7]. Il focus della ricerca di Grossi sull’epoca medievale non è il nichilismo, che è tema moderno e postmoderno; tuttavia le categorie sviluppate nella ricerca sul medioevo risultano in vari casi singolarmente in grado di «spiegare» il nichilismo giuridico contemporaneo. Nei lavori di Grossi, storico del diritto, trovo la diversità tra legge e diritto e l’anteriorità del secondo, l’avversione al monismo giuridico ed al positivismo kelseniano, l’importanza delle formazioni sociali intermedie, l’elaborazione del concetto di ordine, che risultano nuclei importanti per delineare il nichilismo giuridico.

Un altro tema di rilievo, proprio della tradizione positivistica, è di intendere diritto e legge come identici ed appartenenti entrambi all’ambito del positivo. Ma se si allarga il quadro dell’analisi e si procede oltre la tentazione nichilistica, è agevole percepire come il concetto di diritto sia molto più complesso, difficile da determinare e delicato di quello di legge. Il positivismo giuridico radicale sclerotizza il diritto in legge, e non trova più il cammino per percepire che nella realtà sociale è possibile trovare uno spazio privo di leggi, ma mai uno spazio privo di diritto.

Rimane importante la domanda sull’impatto che il nichilismo giuridico esercita non solo e non tanto nella prassi giuridica, ma nella concreta vita vissuta e nel costume della nostra società.

Enumero un insieme di fenomeni presenti nella cultura diffusa e nel costume nei quali sembra riflettersi un certo influsso di moduli nichilistici, che non si esprimono forse con la drastica secchezza di una posizione teorica netta, ma che nondimeno sono attivi. Dapprima il sentimento che la legge possieda un carattere pattizio e convenzionale in cui non si esprime una situazione reale ma l’esito di un accordo che avrebbe ben potuto essere diverso. Ciò significa che sempre di più si chiede alla legge di concedere autorizzazioni, di permettere, più che di indirizzare verso la vita buona. A sua volta questo aspetto implica che sia svanito l’elemento pedagogico della legge civile, a cui appunto non si domanda un indirizzo ma una quota crescente di permessi, autorizzazioni e «diritti». Conseguentemente aumenta l’area del convenzionale e diminuisce ciò che vale per natura. In questo processo esercita un impatto decisivo la potenza della tecnica che mettendo a disposizione possibilità quasi illimitate di intervento e manipolazione, inclina a ritenere che il fattibile tecnicamente sia ipso facto lecito moralmente. Tende perciò a prevalere il funzionalismo che dice: magari non è lecito, però funziona, ed evviva l’efficacia. In sostanza nel costume e nella cultura si osserva lo sfumarsi crescente della differenza tra diritto e pretesa; ed anche il tentativo di allargare l’area dei diritti con un ricorso estremo ai criteri di uguaglianza e non-discriminazione.

Del carattere convenzionale del diritto è testimonianza una posizione estrema, sinora marginale ma che qua e là viene teorizzata. Essa dice che ciascuno potrebbe creare il suo proprio diritto in base al semplice atto della sua volontà infinita e insindacabile.

 

  1. Positivismo giuridico radicale e nichilismo giuridico. Il nichilismo giuridico fa parte a pieno titolo del grande movimento nichilistico che ha investito da quasi due secoli il pensiero occidentale, particolarmente europeo, e che nelle sue basi ultime non è ancora risolto: la crisi che toccò il suo apice nella prima metà del XX secolo col positivismo giuridico assoluto, per il quale il Diritto era nient’altro che l’espressione della volontà più poderosa al potere (vedi il caso paradigmatico dei totalitarismi), è meno grave di un tempo, ma non è sanata.

Il diritto positivo, sciolto dal nesso col diritto della persona, si pensa secondo i caratteri della totale artificialità, come forma procedurale, come razionalità solo logico-formale, prossimo a diventare tecnica: poiein non prattein, mentre il quadro essenziale del diritto come scienza umana è quello dell’agire/praxis, non del fare/techne.  Lo stesso primato della forma e della dogmatica formale è un’enorme illusione, poiché tale primato, all’insegna della mera coerenza logica, non include alcun criterio di verità e ci lascia senza alcuna bussola.

Orbene nell’epoca della ideologia della tecnica che si pensa come volontà di potenza e che vuol essere mezzo per ogni possibile scopo, giunge a compimento l’assunto che la Legge e il Diritto provengano dalla potenza e possano ospitare qualsiasi contenuto. L’espressione di Kelsen che «il diritto può avere qualunque contenuto» è tragica manifestazione di nichilismo giuridico, in quanto ultimamente affida l’esistenza politico-giuridica al potere e alla forza, e cede ad una legalità formale, dimettendo la giustizia[8]. Così vengono resi giuridici i poteri vincenti e i fatti più forti, nell’indifferenza alla vita degli uomini e ai loro rapporti. Il diritto si frantuma in mille rivoli, si subordina alla tecnica e al formalismo delle procedure, che in quanto tali sono cieche rispetto ai contenuti e possono accoglierli tutti: il diritto vale come forma vuota che può essere riempita di qualsiasi istanza.

Prendiamo le mosse da due domande essenziali: a) esiste un diritto/jus ed una justitia fondati nella ragione e nella persona umana, oppure abbiamo a che fare soltanto con leggi, norme, codici arbitrari nel senso che il loro essere e valere si riduce a venire posti da singole volontà al momento potenti? b) se così fosse, dobbiamo accettare questo stato di cose, abbandonando il diritto e la politica alla casualità, alla contingenza, alla potenza, consegnandoli alla volontà e all’arbitrio degli uomini?

Il nichilismo giuridico sussiste e si sviluppa quando si risponde negativamente al primo interrogativo e positivamente all’altro. Come già notato, nel nichilismo giuridico accade una specifica forma di oblio: oblio del Diritto e della giustizia nel loro rapporto col logos, e loro procedere esclusivo dalla voluntas, di modo che la legge di ogni tipo ed ordine non possiede altra ragion d’essere che la pura volontà del legislatore. Non esistono né giusto né ingiusto in sé, ma giusto ed ingiusto cominciano a valere solo dopo la decisione della volontà positiva del legislatore, la quale è normata solo da se stessa, e perciò può avere qualsiasi contenuto e ospitare qualsiasi scelta.

 

  1. Se col normativismo kelseniano che trasforma il diritto da espressione della ragion pratica in statuizione imperativa da parte della sovranità vigente, si configura l’ingresso del nichilismo nel dominio giuridico, il suo preambolo sta in Nietzsche, come sopra osservato, il quale a mia conoscenza non ha fatto ricorso al lemma «nichilismo giuridico». Tanto più significativo che ne abbia indicato ante litteram con chiarezza meridiana il contenuto reale: «Ma l’elemento più decisivo, quel che la suprema potestà fa e attua contro la strapotenza dei sentimenti avversi e pervicaci – così fa sempre, non appena è in qualche modo abbastanza forte per questo – è la statuizione della legge, la chiarificazione imperativa di quel che deve in generale valere ai suoi occhi come permesso e legittimo e di quel che invece deve valere come proibito e illegittimo.. Conformemente a ciò, solo a partire dalla statuizione della legge esiste “diritto” e “torto”…Parlare in sé di diritto e torto è cosa priva di ogni senso… Un ordinamento giuridico pensato come sovrano e generale, non come strumento nella lotta di complessi di potenza, bensì come strumento contro ogni lotta in generale… sarebbe un principio ostile alla vita, un ordinamento disgregatore dell’uomo, un attentato all’avvenire dell’uomo, un indice di stanchezza, una via traversa verso il nulla»[9]. Con questa posizione Nietzsche indica senza infingimenti che nel diritto il termine giustizia è un mero suono che copre tutt’altro, e che in ogni momento può essere smascherato come portatore solo di potere. Il diritto e la legge dunque non come strada per la convivenza ma per l’esclusione.

L’affermazione di Nietzsche è la vittoria della volontà di potenza più potente, il tracollo di ogni diritto e dei diritti umani, il trionfo del paradigma della forza su quello della giustizia: il nichilismo o antiumanesimo giuridico, appunto, che fanno rientrare giustizia e diritto nell’area della potenza.

Ciò spiega anche l’idolatria della legge positiva da parte del nichilismo giuridico: niente infatti si può fare contro la legge, ma tutto si può stabilire con la legge, dal momento che questa può avere qualsiasi contenuto.

 

  1. Nichilismo giuridico e neocostituzionalismo. La battaglia contro il nichilismo giuridico deve essere compiuta su vari piani, contrastando i nuclei che sono alla sua base: la poderosa divaricazione tra ratio e voluntas con la cancellazione della prima e l’enfasi sulla seconda, la distruzione dell’idea di ragion pratica, l’ingresso della legge nell’area della forza. Nel clima del nichilismo giuridico niente è stabile, tutto è revocabile, poiché nel diritto si esprime solo il linguaggio della volontà, non della ragione, e il volere è instabile. Esso come ha voluto, così disvuole e vuole altro: desidera e allontana, ama e odia, perché niente sta fermo, tutto è revocabile e mutabile. Il diritto è un contenitore che può essere riempito di qualsiasi contenuto. Ciò che è stato posto può con pari ragione essere tolto: e là dove non vi è alcun senso autentico, vi possono essere infiniti sensi. Gli stessi diritti umani sono solo editti revocabili di tolleranza. Come sono stati posti così possono essere tolti ad nutum. Obiettare radicalmente contro i diritti umani nel senso di ritenerli infondati, inutili, non dovuti e arbitrari è una forte manifestazione di nichilismo, contro cui si erge la Dichiarazione universale del 1948.

All’obiezione decostruttiva e nichilistica si oppongono varie scuole tra cui quella del «neocostituzionalismo» e quella del giuspersonalismo che forse differiscono al livello degli assunti filosofici di base, ma che in genere sono complessivamente alleate nelle questioni dei diritti umani e dei fondamenti costituzionali. Giuspersonalismo e neocostituzionalismo sono a vario titolo cognitivisti, nel senso che nel diritto vi è ragione, non solo forza, volontà, potere. Nel giuspersonalismo e nel costituzionalismo non si dà dunque quella radicale infondatezza del diritto moderno con l’artificialità, la strumentalità ed il formalismo che lo contraddistinguono. Si perviene così a sciogliere l’identità positivistica tra diritto e legge per riscoprire quel lato fondamentale del diritto che non si fonda sulla fora ma guarda verso la giustizia, e perciò mantiene la differenza tra legittimità e legalità.

Il dibattito contemporaneo è attraversato in profondità dalle posizioni cui ho alluso, che occorre fare emergere e che fanno sorgere nuove e appassionate elaborazioni. Pensiamo per l’Italia a Giuseppe Capograssi con la sua ricca idea di «esperienza giuridica», e per l’ambito costituzionale a G. Zagrebelsky che esprime una posizione neocostituzionalistica, e per l’Europa a Robert Alexy e forse Jürgen Habermas col suo giusrazionalismo. Taluni autori neocostituzionalisti sostengono che le carte costituzioni contemporanee in Europa, con la loro tavola di valori fondamentali ed il richiamo forte alla dignità della persona, hanno operato una sorta di costituzionalizzazione del diritto naturale. Essi insistono nel mostrare come questa situazione del diritto presupponga una sorta di «atto di orgoglio» del diritto positivo: infatti, con la costituzione mediante cui entra in vigore il diritto positivo, si intende positivizzare ciò che nei secoli passati era appannaggio del diritto naturale. I neocostituzionalisti mettono in luce che non è possibile procedere nel diritto con una mera pregiudiziale avalutativa e formale. Non esiste il giudice che opera come la bouche qui prononce les paroles de la loi, e non esiste un approccio soltanto formale e scientificamente puro al diritto. Esiste piuttosto un elemento «materiale» e contenutistico del diritto nella vita sociale, per cui ci può essere uno spazio privo di leggi ma non uno spazio privo di diritto (jus).

Concludo spezzando una lancia in favore del neocostituzionalismo: esso intende giustamente la costituzione come norma costitutiva e forma fondamentale della convivenza sociale e politica, come un atto che crea ordine a partire dal disordine. Ciò significa antipositivisticamente che la costituzione non riposa su una suprema decisione senza scopo, e non è neppure un mero insieme di leggi poste da una volontà al momento potente, ma che è dotata di contenuti primari non modificabili. Questi contenuti si riferiscono a una dimensione materiale del diritto che non dipende dalla volontà di alcuna autorità costituzionale vigente né da contrattazioni tra parti. È quanto possiamo chiamare un livello di diritto costituzionale pre-positivo che non appartiene all’ambito della forma e della forza che la impone, ma della sostanza stessa del diritto, di un diritto contenutistico della persona indipendente da meri caratteri formali definiti positivamente. Anche per tali motivi costituzionalismo e nichilismo giuridico abitano su monti opposti, e noi non abbiamo dubbi su quale sia la strada da scegliere.

 

 

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

 

Barcellona Mario, 2006, Critica del nichilismo giuridico. Giappichelli, Torino.

 

Camus Albert, 1972, L’uomo in rivolta. Bompiani, Milano.

 

Grossi Paolo, 2010, L’ordine giuridico medievale. Laterza, Roma-Bari.

 

Grossi Paolo, 2012, Introduzione al Novecento giuridico. Laterza, Roma-Bari.

 

Kelsen Hans, 1968, La Dottrina pura del diritto. Einaudi, Torino.

 

Nietzsche Friedrich, 1988, Genealogia della morale. Adelphi, Milano.

 

Rodotà Stefano, 2009, La vita e le regole. Feltrinelli, Milano.

 

Romano Santi, 1918, L’ordinamento giuridico. Studi sul concetto, le fonti e i caratteri del diritto. Sansoni, Firenze.

* L’articolo pubblicato corrisponde al testo di un intervento svolto a Cagliari il 13 dicembre 2012 per l’Unione Giuristi Cattolici Italiani.

** Vittorio Possenti, Professore emerito di Filosofia politica SPS/01, Università Ca’ Foscari di Venezia. Email: possenti@unive.it

 

[1]  S. Rodotà, 2009, 9.

[2] M. Barcellona, 2006, 31.

[3] Cfr. S. Romano, 1918.

[4] P. Grossi, 2012, 6.

[5] A. Camus, 1972, 8.

[6]  Il giuspersonalismo è una prosecuzione aggiornante della grande scuola del giusnaturalismo classico che ha largamente elaborato la questione della legge morale naturale e del diritto naturale. Esso apre al discorso sui diritti e doveri umani. Nel giusnaturalismo e giuspersonalismo vedo una funzione positiva di garanzia della persona, e nel diritto naturale un argine contro il volontarismo che fa appunto della legge un’espressione di mera volontà.

[7] P. Grossi, 2010, 14.

[8] H. Kelsen, 1968, p. 222. Il formalismo al suo più alto grado significa completa indifferenza al contenuto.

[9] F. Nietzsche, 1988, II Dissertazione, 65s.

 

European nihilism, legal nihilism, legal positivism, natural law, personalism

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