Obbligatorietà del diritto e giustizia: note a margine su un tema cottiano di Baldassare Pastore

1. La relazione tra giustificazione e obbligatorietà delle norme, che del diritto «sono l’espressione più elementare e diretta», è stata oggetto di una profonda riflessione da parte di Sergio Cotta. La tesi di Cotta è che «l’obbligatorietà delle norme derivi dalla loro giustificazione in termini di ragione e che tale giustificazione trovi il suo fondamento nell’ineliminabile struttura coesistenziale del vivere umano».
La giustificazione si connette all’obbligatorietà, che, a sua volta, rinvia all’obbedienza . Asserire che il diritto obbliga implica, infatti, il riconoscimento che esso è meritevole di essere obbedito.
Invero, come è stato sottolineato, la caratteristica generale più evidente del diritto «consiste nel fatto che la sua esistenza implica che certi tipi di condotta umana … sono in un certo senso obbligatori» . Obbligatorietà e normatività giuridica, dunque, sono questioni che attengono allo stesso ambito di discorso. Ma, alla domanda: «perché il diritto obbliga?» è possibile rispondere in (almeno) tre modi.
Una prima risposta è quella che vede nella coercizione l’aspetto saliente del diritto. Ciò che rende obbligatorio il comportamento prescritto dalle norme giuridiche è il desiderio di sfuggire alle sanzioni che si applicano nel caso di trasgressioni. La sanzione, vista come elemento essenziale della prescrizione giuridica, rappresenta una motivazione e una giustificazione del fatto che si adempia a quanto richiesto. Si adempie a quanto richiesto dalla prescrizione giuridica per evitare le conseguenze spiacevoli minacciate in caso di rifiuto. L’imperativismo vetero-positivistico segue questa strada. L’obbligatorietà della norma giuridica slitta nell’imposizione. Ma non può non evidenziarsi, a questo proposito, la differenza radicale tra «obbligare» e «imporre». «L’obbligo fa riferimento a un dover fare e all’assunzione consapevole di tale dovere; l’imposizione invece fa riferimento a un non poter non fare, e alla sottomissione ad essa» . La costrizione, richiamata dalla struttura prescrittivo-sanzionatoria della norma non può fondare l’obbligatorietà anche perché, tra l’altro, non si potrebbe distinguere una norma giuridica da un ordine sostenuto da minacce, da un comando del tipo «o la borsa o la vita».
Una seconda risposta alla domanda «perché il diritto obbliga?» si basa sull’idea secondo cui l’obbligo giuridico non è altro che un tipo particolare di obbligo morale. La normatività del diritto dipende, in ultima istanza, da ragioni morali che prescrivono di fare ciò che il diritto richiede . Gli ordinamenti giuridici, d’altra parte, riproducono la sostanza di certe fondamentali esigenze morali. Il divieto dell’omicidio e dell’uso ingiustificato della violenza rientrano tra gli esempi tipici che militano a favore di tale idea.
Una terza risposta afferma l’esistenza di genuine, autonome, ragioni giuridiche capaci di giustificare azioni e comportamenti. Si tratta di ragioni non riconducibili a quelle morali . Per certi versi, un modo per dar conto dell’esistenza di ragioni autonome è quello di sottolineare che una regolamentazione giuridica ha la caratteristica di diventare opaca rispetto ai valori che ne sono inevitabilmente il presupposto. La regolamentazione giuridica, infatti, ha la funzione di guidare i comportamenti dei destinatari evitando che essi facciano riferimento (diretto, immediato) a quei valori. Le istituzioni giuridiche avrebbero una loro obiettività sociale non compromessa con i valori . Il problema dell’esistenza degli obblighi giuridici viene, in tal modo, separato dal problema della giustificazione (morale) dell’autorità del diritto . Tale autorità, però, non può essere scissa dalla dimensione assiologica.
L’autorità giuridica, invero, svolge la funzione di favorire il bene comune, da intendere come salvaguardia dell’insieme dei fattori che tendono a garantire la realizzazione personale degli individui impegnati a cooperare nello spazio della relazionalità intersoggettiva.

2. Il diritto fornisce ragioni per l’azione; ci dice come dobbiamo comportarci. Ragione, qui, è da intendere come considerazione che viene addotta a sostegno di qualcosa e, in sede di ragionamento pratico, come giustificazione che consente di stabilire cosa si deve fare o non fare.
Le ragioni non vanno confuse con i motivi dell’azione. I motivi per seguire una regola possono essere diversi (conformismo, paura della sanzione, condivisione del contenuto della regola). Essi influenzano l’azione, ma, propriamente, non la guidano. È la ragione che può guidare verso una scelta libera e consapevole. Le regole contengono al loro interno le ragioni che le giustificano e queste, a loro volta, rinviano ad altre ragioni, assunte come più fondamentali . Pertanto, solo una appropriata giustificazione può conferire obbligatorietà ad una norma. In questo senso, la mera esistenza di una norma giuridica non è, di per sé, una ragione sufficiente per porre in essere il comportamento richiesto.
Se parlare di «esistenza» di una norma significa rinviare alla sua validità (in base alle regole procedurali relative alla sua produzione), dire che una norma è valida implica sostenere che la sua osservanza e la sua applicazione sono obbligatorie. Questo orientamento è assunto da Hans Kelsen, secondo il quale dire «che una norma è valida equivale a dire che noi assumiamo la sua esistenza o – ciò che è lo stesso – assumiamo che essa ha “forza vincolante” per coloro di cui disciplina il comportamento» . Parlare dunque di «forza vincolante» significa considerare la norma «obbligatoria», sicché essa deve essere osservata.
Siffatta concezione, invero, sembra attribuire al diritto positivo una qualità propria della morale: quella di obbligare in coscienza. Ma attribuire al diritto positivo una forza normativa piena è tesi propria del positivismo etico, che sfocia nella giustificazione morale del diritto, qualunque esso sia. Vi sarebbe, pertanto, un dovere assoluto di obbedire al diritto indipendentemente dal suo contenuto, purché tale diritto sia formalmente valido . Peraltro, ridurre il diritto a pura forma conduce a considerarlo uno strumento, una mera tecnica, destinata a cedere il passo a tecniche che possono risultare più efficaci, più adatte, più utili, abbandonando, così, l’idea del suo ancoraggio ai valori: primo fra tutti alla giustizia. Si oblitera, così, il problema del fondamento della normatività giuridica, insieme a quello della obbligatorietà.
Il diritto, invero, non può essere sottratto alla valutazione morale. Il mondo della giuridicità riguarda deliberazioni, decisioni e azioni che trovano la loro giustificazione in base a ragioni rinvianti ai beni in vista di cui si agisce e ad alcuni orientamenti generali della vita di una società. Ciò conduce ad assumere che vi siano cose che hanno valore per la convivenza, che sono ritenute degne di essere perseguite e che, al contrario, qualcos’altro va evitato e impedito.
Il diritto tutela alcuni beni e valori importanti, protegge interessi generali, e ciò consente di affermare, in linea generale, che è obbligatorio conformare il proprio comportamento a quanto esso prescrive . L’esistenza di un obbligo presuppone che vi sia una norma che si colloca nell’orizzonte esistenziale della possibilità. La norma stabilisce un dover essere; opera una scelta fra varie azioni possibili, stabilendo quale di esse deve essere ; «prescrive che accada (ossia si faccia, non si faccia, si lasci fare) qualcosa che altrimenti potrebbe non accadere» . Si può affermare, allora, che la libertà umana sia la condizione dell’esistenza del diritto. Ma la libertà si intreccia con la socialità. L’essere umano è libero, ma non è solo: esiste insieme ad altri esseri umani . Il diritto, così, «si colloca entro l’orizzonte della relazione, dell’esistere-con-altri» .
Ogni comprensione del fenomeno giuridico deve dar conto di come gli individui possano ritenere che il diritto, a cui prestano obbedienza, sia moralmente accettabile. Il diritto positivo è un fenomeno umano che esige sempre un’accettazione di fondo e che si regge su un fondamento ragionevole e consentito . Il diritto è «ordinamento «osservato» , che si fonda su atti riconoscimentali e si lega ad una forma di vita rinviante a contesti di esercizio e a una comunità di soggetti che orientano la loro condotta entro una rete di aspettative stabili. Sia l’atto di porlo sia il riconoscimento della sua positività non possono essere compresi prescindendo dal riferimento a criteri morali che fondano e suffragano la sua autorità e la sua pretesa autoritativa.

3. Il diritto serve a coordinare autoritativamente le azioni e a rendere possibile l’interazione sociale . Ciò richiede che si obbedisca alle prescrizioni giuridiche . I comportamenti non conformi a quanto prescritto, infatti, indeboliscono le aspettative reciproche di conformità di coloro che sono soggetti al diritto, impedendo, conseguentemente, il realizzarsi della coordinazione. Il carattere coercitivo del diritto può essere così spiegato: la sanzione opera come deterrente nei confronti di chi non conforma il proprio comportamento a quanto prescritto dalle norme, frustrando le aspettative degli altri (che fanno affidamento sulla reciprocità e sulla generale conformità) e indebolendo il sistema di coordinazione. La funzione della sanzione è quella di scoraggiare i comportamenti difformi rispetto a quelli richiesti dall’autorità, contribuendo a mantenere l’osservanza del diritto, ma è anche quella di indicare la rilevanza del precetto giuridico.
L’osservanza del diritto è finalizzata, nell’ottica della coordinazione, a garantire e perseguire beni e valori fondamentali della vita personale e sociale. Da questo punto di vista, la legittimità dell’autorità del diritto dipende dai fini che esso assicura e promuove .
Il senso proprio del diritto consiste nell’essere una modalità di garanzia degli esseri umani, con la loro dignità, quale condizione della coesistenza intersoggettiva. L’obbedienza al diritto è giustificata nella misura in cui viene garantita la dignità di ogni essere umano e di tutti gli esseri umani . Entra in gioco, qui, la nozione di giustizia.
Il diritto trae la giustificazione della propria obbligatorietà dall’esserci della coesistenza umana . Il «con-esserci» è espressione della parità ontologica degli esseri umani e della loro insopprimibile relazionalità . La conformità alla giustizia diventa essenziale . La relazione intersoggettiva costituisce l’essenza della giustizia, che trova espressione nel principio del suum cuique tribuere, che, lungi dall’essere una formula vuota, sfociante nella tautologia («a ciascuno deve essere attribuito ciò che deve essergli attribuito») , si esplica nell’assunto secondo il quale ciascuno ha sempre qualcosa di propriamente ed esclusivamente suo ed è dunque sempre titolare di qualcosa che ciascun altro ha il dovere di riconoscergli e di dargli. Il suum cuique, pertanto, è un principio aperto nei suoi contenuti, relativi alle spettanze proprie di ogni essere umano.
Vi è giustizia, quando tutti gli individui sono trattati alla pari e simmetricamente in qualunque concreta determinazione relativa a distribuzioni e/o a compensazioni, quando vi è corrispondenza tra diritti e doveri, quando vi è adeguatezza del reciproco rapportarsi delle azioni, quando viene assicurata l’imparzialità del giudizio . Il valore della giustizia, dunque, non ha a che fare soltanto con i contenuti delle norme e delle istituzioni, ma anche con il modo in cui essi sono individuati, perseguiti, applicati, realizzati . Giustizia è, così, rifiuto dell’ineguaglianza, dall’arbitrio e, in fondo, dell’inumanità, considerati i diversi ambiti in cui si articolano i rapporti intersoggettivi , sicché tutti gli individui siano considerati e rispettati come persone.
Il diritto trova legittimazione nella circostanza di riconoscere, dare e garantire a ognuno ciò che gli spetta come persona. La giustizia nell’interazione umana è coessenziale all’uso del diritto e alla sua stessa comprensione . La giustizia appartiene alle condizioni di esistenza del diritto e può essere considerata come il bene proprio della pratica giuridica : un bene immanente che ha a che fare con il pieno sviluppo della pratica stessa.

 

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