Politica e Filosofia
POLITICA E FILOSOFIA*
GIOVANNI GENTILE
I.
In una rivista che si propone l’educazione critica della co¬scienza politica italiana non mi pare inopportuno richiamare l’attenzione sul problema dei rapporti tra politica e filosofia; poiché questi rapporti mi paiono talmente intrinseci ed essen¬ziali così alla politica come alla filosofia, che formarsene un’idea chiara e acquistare in proposito un fondato convincimento debba riuscire di vitale interesse a ciascuno dei due termini. Giacché io penso che non solo la politica abbia bisogno di schiarirsi e farsi coerente e armarsi di pensiero, con l’aiuto della filosofia, ma che non sia più possibile una filosofia degna di questo nome, la quale non s’abbracci alle questioni politiche, e non ne rifletta in sé gl’interessi, e non senta la necessità di ri¬solverle nel suo proprio processo. Due aspetti d’una stessa cosa, la quale non si può guardare da un lato, se non si guarda anche dall’altro; perché, al postutto, quella filosofia che è immanente alla politica, e di cui perciò la politica non può fare a meno, non è già un’astratta filosofia che, sovrapponendosi alla vita per intenderla, se ne alieni per chiudersi nel mondo puramente ideale della speculazione, ma quella filosofia concreta, che, come oggi si può e si deve intendere, fa un tutto inscindibile con la vita, e si può dire la vita stessa nel pieno vigore della propria consapevolezza.
Il problema dunque pare che si sdoppii in due problemi: rapporto della politica con la filosofia, e rapporto della filosofia con la politica. Ma questi due problemi sono così strettamente congiunti che la soluzione del primo non può reggersi se non sulla soluzione del secondo. Dal quale, quantunque possa parere più remoto dalla indole di questa rivista, mi sia consentito perciò di prender le mosse, prescindendo per un momento dalla questione che qui più direttamente interessa, del fondamento filosofico d’ogni salda concezione politica.
II.
Attraverso la storia della filosofia si sono venuti affermando ed enucleando due concetti diversi della filosofia e, in generale, del pensiero. E credo che sia possibile veder chiaramente la loro differenza senza entrare nell’esposizione storica di nessuno speciale sistema. Basti dire che l’uno è il concetto classico della filosofia, e l’altro il moderno. Il primo si può definire dicendo semplicemente che per esso il pensiero è pensiero della realtà, ma non è realtà; laddove il secondo immedesima la realtà col pensiero. Il concetto classico è intellettualistico: presuppone cioè che il pensiero abbia innanzi a sé la realtà, con cui entra in rapporto; per modo che: 1° la realtà sia un antecedente del pen-siero, da cui perciò è indipendente; 2° che il rapporto, in cui la realtà stessa entra col pensiero, in quanto vien conosciuta, sia affatto estrinseco ed accidentale alla natura dello stesso reale. Cotesto concetto classico è pertanto, oltre che intellettualistico, naturalistico: ossia si riduce a concepire la realtà, tutta la realtà, come natura. Giacché natura è per lo spirito umano tutto ciò che esso presuppone come antecedente a sé, e quindi indipendente, ed esistente assolutamente per sé, sia che esso vi si rivolga o no, o meglio, sia esso, o non sia; poiché lo spirito è solamente a tal patto, di rivolgersi a qualcosa, e stabilire, al¬meno per proprio conto, qualche rapporto con questo qualcosa. E quando tutto ciò che si pensa o è pensabile (tutta la realtà) sia concepito a questo modo, è evidente che lo spirito viene ad essere escluso da tutta la realtà. E in conclusione, posto a rigore che non solo quella realtà che si oppone al pensiero sia natura, ma che natura sia tutto ciò che è pensabile come reale, in conclusione, dico, non si vede più come sia possibile ammet¬tere che, tale essendo la realtà, essa poi si pensi e si possa pensare. Chè la natura, contrappostasi da prima al pensiero, lo divora poi, e rimane essa, sola, infinita. E questo infatti è l’ultimo risultato della filosofia classica: cioè, il materialismo. L’intellettualismo non ha altra uscita.
E si badi che non è possibile concepire intellettualistica¬mente il pensiero, e salvare poi la realtà spirituale che ordina¬riamente si distingue dall’intelletto, col nome di volontà. Come la natura, postasi di fronte all’intelletto, lo assorbe in sé ed annulla, così dentro allo spirito umano, l’intelletto non può contrapporsi alla volontà, senza annichilarla. Se il mondo che io conosco, cioè, in fondo, quello che esiste, il mondo reale, non è un mondo che faccio io, anzi un mondo a cui sono affatto estraneo, e che sarebbe quel medesimo quand’anche io non fossi, non c’è più verso di comprendere come io possa, mediante la volontà, fare qualche cosa (creare un mondo mio, il mondo morale, modificando e transvalutando quello fisico). I filosofi hanno tentato tutte le vie per vedere di assicurare un posto alla umana volontà accanto all’intelletto, e fare che l’uomo, — pur non potendo essere altro che spettatore verso il mondo che trova nascendo, nel tempo e nello spazio, e che non egli ha fatto, possa tuttavia svegliarsi a un tratto, riscuotere le pro¬prie energie e intervenire egli da sé, per sua iniziativa, da at¬tore, che non sia più un essere tra gli altri della natura, cioè una cosa, ma una persona capace di reagire alla natura, di farsi autrice cioè creatrice del bene o del male. Ma tutte le vie li hanno condotti sempre alla stessa conclusione: che se quello che pen¬siamo è indipendente dall’attività umana, ed è la base di que¬st’attività, quest’attività non può produrre nulla di nuovo, ossia non può essere se non illusoria. Lo spirito insomma interviene post festum, quando il processo del mondo è esaurito.
E si badi ancora. L’immaginazione viene qui in aiuto del pensiero, e dà tutta l’apparenza d’una possibilità, che in fatto non c’è; inducendo a credere che la concezione della realtà come natura non escluda proprio del tutto quel nuovo, di cui la volontà dovrebbe avere l’iniziativa. S’è creduto infatti per secoli; ma, appunto, appoggiandosi a un mero dato dell’imma¬ginazione. La quale ci rappresenta la natura in movimento, in perpetuo divenire, e quindi nonché riluttante al nuovo, viva e reale soltanto nell’incalzare del nuovo che sottentra di continuo al vecchio. Ma questa natura così immaginata in effetti non vien pensata se non si meccanizza secondo quello schema ferreo d’intelligibilità che è il nesso di causa ed effetto, per cui è pos¬sibile parlare di leggi di natura, e, quindi, di natura. E il nesso causale importa che, se per natura s’intende una certa quantità di materia, questa materia nel suo tutto non possa va¬riare nè qualitativamente nè quantitativamente; se s’intende una certa quantità di energia, questa, egualmente, si conservi, ma non possa nè crescere nè diminuire; se, a fin di spiegare la va¬rietà dei fenomeni, s’ammette una molteplicità primitiva di par¬ticelle materiali o centri di forza, ebbene il loro insieme sia un sistema, le cui variazioni riguardano i particolari, ma il sistema è sempre quello, ed esso spiega i particolari; se per natura s’in¬tende l’istinto, esso sia sempre quello dal principio alla fine della vita dell’animale, così come la funzione dell’organismo, vege¬tale o animale. E tutto è quello che è: l’agnello sempre agnello, e mai lupo; e viceversa; e se c’è il delinquente nato, esso morrà delinquente. E tutte le apparenti variazioni sono lo sviluppo di una formola algebrica originaria; e, l’Ecclesiaste ha ragione, nil sub sole nomini. La volontà, se tutto ha da concepirsi intel¬lettualisticamente, non può essere che una ruota del gran mec-canismo della natura: ruota che è già messa in moto ab aeterno; e per girare che faccia, non potrà mai fare che sia altro da quel che era. Contro la natura, una volta che si ammetta come un presupposto dell’uomo, la volontà non può acquistare la sua libertà, ed essere volontà se non per un miracolo (la grazia di Paolo), e non si può credere che sia libera se non per un atto di fede (il postulato di Kant). Ma c’è fede che possa resistere alla logica d’un concetto che s’imponga ineluttabilmente al pen¬siero, come concetto universale di tutto il pensabile?
III.
Tutto il mondo moderno sta contro questa concezione in¬tellettualistica, e però naturalistica e negativa d’ogni potenza iniziatrice dello spirito. Già tutto il Cristianesimo è una sva¬lutazione della natura, come realtà fatale, cui soggiace lo spi¬rito umano, e una rivendicazione della realtà spirituale che, non sapendo come districare dalla selva della natura, si prov¬vede a instaurare mercè l’intervento soprannaturale di Dio; ma di un Dio che è spirito, e redime l’uomo facendosi esso stesso uomo, e realizzando nel Cristo quell’unità dell’umano col divino, onde l’uomo può, con la fede ricreatrice delle sue energie morali, sollevarsi come volontà (amore) fino ai valori più alti. Il Rinascimento, – poiché l’intuizione spiritualistica e però essenzialmente umana era caduta nel Medio Evo nella morta gora dell’intellettualismo antico, – ha questo grande significato nella storia della cultura: che l’uomo riacquista ed afferma con potente slancio di fede e di pensiero la coscienza della sua dignità e prerogativa nel mondo, della sua posizione centrale, della sua potenza dominatrice come potenza prima di tutto conoscitiva e ricostruttiva della circostante natura (regnum hominis), del valore dell’individuo che è personalità, in quanto virtù (come diceva Machiavelli, cioè intelligenza e carattere): e quindi come creazione dello Stato, attraverso la Signoria, che è lo Stato fatto liberamente, ex novo, dall’uomo; come critica delle tradizioni, e libertà spirituale, e revisione di tutti i valori; e, per altre vie, riforma religiosa, e libertà di coscienza, e for¬mazione della borghesia, che è affermazione del valore sociale e politico dell’individuo come forza produttiva di lavoro, e diritto naturale, ed enciclopedia con un nuovo naturalismo che, in so¬stanza, è liberazione dell’uomo dal soprannaturale e dall’irrazio¬nale, e cioè nuovo umanismo, e quindi la Rivoluzione, e la Cri¬tica kantiana e la filosofia romantica. Questo, per accenni, è tutto il mondo moderno, orientato in senso opposto a tutta l’an¬tica civiltà, e tutto pervaso da una nuova idea dell’universo, che è quel che dicevo il concetto moderno della filosofia. Concetto, verso di cui tutta la filosofia moderna infatti tende, da Bacone e Descartes fino a noi; ma che ormai può dirsi maturo.
Questo concetto può formularsi appunto come l’antitesi del¬l’intellettualismo: ossia, come la negazione di ogni realtà, che non sia intesa profondamente stretta da un intimo ed essen¬ziale legame col pensiero, in guisa che dire realtà sia dire già pensiero, spirito, uomo; e quella natura che per l’intellettua¬lista è un antecedente di tutta la vita dello spirito, in effetto non è altro che un che di astratto, la cui concretezza sta nel¬l’attività spirituale, che ci si rappresenta di due termini inse¬parabili (soggetto da una parte e oggetto dall’altra), irriducibili, ma correlativi e quindi, nel rapporto, formanti un tutto unico, che nessuna analisi potrà mai dividere negli elementi che vi distingue. Non già che l’uomo nella sua empirica e sto¬rica individualità leghi a sé l’universo, quasi contenuto rap¬presentativo solipsistico e materia ch’egli possa evocare, sic et simpliciter, dal nulla, e arbitrariamente foggiare a suo libito. Che anzi con la coscienza della essenziale spiritualità del reale, s’è venuta insieme sviluppando e rassodando la coscienza della logicità, cioè della razionale necessità del mondo, e della vanità conseguente e dell’opinione individuale e del personale arbitrio di fronte alla massiccia storicità del tutto, nella ferrea univer¬salità del suo processo, uno per tutti. E piuttosto l’individuo nella sua astratta particolarità, per cui è qui e non lì, ora e non sempre, questo individuo, che doveva necessariamente piegare e soggiacere di fronte alla vecchia natura intellettualistica¬mente intesa, s’è chiarito per quello che era effettivamente: non l’individuo reale, che è autocoscienza e persona, ma una cosa tra le cose, la parte di un insieme, da cui dipende: cioè appunto – come la totalità delle cose a cui la mente lo rife-risce – un che di astratto; la cui concretezza è attingibile sol¬tanto quando se ne scorge l’astrattezza, e quindi si riporta nel seno appunto di quella sintesi, in cui si spiega l’attività vera¬mente spirituale (la vera coscienza, o personalità), che è una per tutti; e si attua in noi in quanto e per quanto riesce ad unificare in noi le menti e i cuori: ogni volta che, intendendo, intendiamo quel che non noi in particolare s’ha da intendere, ma tutti, idealmente, intendono; e così ogni volta che operando comunque spiritualmente, sentiamo che l’operazione nostra ha un valore universale. Non dunque, il mondo viene rinchiuso nello spirito di un uomo o della specie umana (essa stessa parte della natura, e quindi appartenente al mondo, che se mai sa¬rebbe da rinchiudere nello spirito); ma lo spirito si slarga, li¬berandosi dai fantastici limiti in cui, oggettivandolo e trattan¬dolo come una cosa, siamo naturalmente portati a circoscri¬verlo, e stendendosi infinitamente a tutto il pensabile.
IV.
Ma, raggiunto questo concetto antintellettualistico, per cui lo spirito ricomprende e stringe in sè tutto il reale, come il suo stesso svolgimento o la sua vita, è chiaro che non solo non e possibile più presupporre al pensiero la realtà che esso ha da conoscere (poiché nulla più è fuori di esso, e tutto quello che per esso è pensabile non può essere altro che il suo stesso pro¬dotto); ma non è possibile più neppure postulare quella vecchia dualità spirituale della conoscenza e della volontà, o della teoria e della pratica, che traeva origine dal concetto classico del pensiero. Giacche, se tutto il reale si esaurisce nel pensabile, e tutto il reale pensabile non può essere altro che prodotto dello stesso pensiero, non rimane posto per un reale che sia prodotto, non più del pensiero, ma di un’attività diversa, ancorché essa stessa spirituale. Ché altrimenti tra la realtà pensata e quella operata risorgerebbe la opposizione stessa, che, secondo la filosofia classica, divide la realtà dal pensiero, con la medesima conseguenza, di rendere impensabile ed assurdo il pensiero. Infatti un’opposizione tra teoria e pratica è intelligibile a con¬dizione che questa ponga in essere la realtà e quella no; e che la teoria perciò non conosca altra realtà che non sia quella of¬fertale dalla pratica. Nel qual caso essa stessa non riesce più concepibile come reale, e come principio di realtà; come ap¬punto il pensiero ha bisogno di essere inteso, una volta supe¬rato il concetto classico già illustrato.
E allora? La vita del reale nella sua trasparente spiri¬tualità non si scinde in fare e contemplare. Non c’è la vita e la teoria della vita come si favoleggiò ab antico, quando l’uomo cominciò a filosofare, pieno della meraviglia di questo stermi¬nato mondo naturale misterioso, pauroso e pure incantevole: spiegato in un tempo senza principio nè fine e in uno spazio di cui nessuna fantasia può raggiungere i confini; e l’uomo quindi fu indotto a pensare che tutto già fosse, e restasse solo da intendere. E Aristotele disse solenne che quando gli uomini avevan provveduto alle necessità della vita (e quindi vissuto) potevano cominciare a sentire la curiosità del sapere, e pren¬dere a filosofare; e ancora al principio del secolo passato un altro filosofo dei maggiori fissava lo stesso concetto nella splen¬dida immagine dell’uccello di Minerva che spiega il volo al cre-puscolo, quando il giorno è venuto al termine. Primum vivere, deinde philosophari.
La filosofia infatti, in tutte le sue forme, è il concetto della realtà; e realtà è così quella delle cose che troviamo nascendo noi uomini (ciascuno e tutti), come quell’altra che noi veniamo via via recando in atto, vivendo: natura e storia, si dice. Ma che cosa è la storia, che distinguiamo dalla natura? La storia oscilla tra due concezioni opposte, e ora la prendiamo per un verso, ora per l’altro. Ora la storia è del passato, e ora è del presente; e il più delle volte noi non vediamo che quella prima storia, la quale si configura attualmente in una storiografia, che presuppone interamente il proprio oggetto; e a gran fatica ci riesce di vedere la seconda storia, che non presuppone nulla, perchè essa appunto crea il suo oggetto; quantunque nella di¬stinzione, tutta propria dell’età moderna e ignota all’antichità, non facciamo che guardare verso di essa.
V.
Procuriamo d’intenderci. La storia comincia a distinguersi dalla natura quando si acquista la nozione, elementare per noi moderni, della differenza tra ciò che è condizione dell’attività umana e ciò che ne è prodotto. Finché si creda che l’attività è condizionata per modo da non avere una sua produttività, non c’è altro che natura. E il naturalista vi dirà che il meglio che gli uomini possano fare, è di non far nulla, e osservare fedelis-simamente le leggi primitive della natura e non dipartirsene, per non incorrere in errore e in dolori. Affermare la storia significa affermare il valore dell’attività umana, e cioè l’auto¬nomia dell’uomo di fronte alla natura, e quindi il progresso: e insomma la libertà di un’attività teologica, che supera e vince il meccanismo naturale e instaura un mondo luminoso di va¬lori spirituali in perpetuo svolgimento. Quindi la natura è il regno dell’identico e immutabile; la storia è il regno del di¬venire, della perpetua innovazione e originalità.
Orbene: anche quando si sia convenuto di questi carat¬teri specifici della realtà storica, se si domanda: la storia si sottrae a quelle forme dello spazio e del tempo, che son proprie di tutti i fenomeni naturali? la prima risposta che si darà è che storico è soltanto ciò che avviene in qualche luogo e in qualche tempo; e che appunto perciò la geografia e la cro¬nologia sono i due occhi della storia. – E sia. Ma allora gli avvenimenti storici, essendo nello spazio, non possono essere per noi se non quelli appartenenti allo spazio a cui si estende la nostra esperienza, così non possono occupare del tempo altri momenti, che non siano quelli contenuti egualmente nel dominio di essa esperienza. La storia reale non comprende il futuro; e sia antica, moderna o contemporanea, essa non comprende mai propriamente, né può comprendere nessun av¬venimento che non sia già accaduto, e non appartenga perciò al passato. Io distinguo tra quel che penso e quel che ho pen¬sato; e solo quel che ho pensato, in quanto già l’ho pensato, e non posso fare quindi che non l’abbia pensato, quello io ri¬tengo che abbia in certo modo acquistato una reale indipen¬denza da me, poiché, per l’attualmente pensato, mi credo tut¬tavia in potere di non pensarlo. E poiché il mio stesso pensiero me lo vedo innanzi, nel ricordo, come impietrato, io dico: ecco un fatto storico, che a me ora non tocca se non di verificare e narrare fedelmente. E cotesta separazione del nostro stesso fatto da noi, e questo distanziamento dal presente verso il pas¬sato, che è l’alienarsi di sé da se stesso, e il ripresentarsi di noi a noi stessi fuori del caldo della passione e dell’azione, quando il fatto è compiuto, tutto questo si ritiene condizione necessaria di imparziale, veridica ed esatta narrazione storica, e cioè di configurazione di fatto a fatto storico.
Ma se così è – come pare certamente che sia, a guardare la cosa da un lato solo –, la storia non ha ragione nessuna di distinguersi dalla natura. La quale, con tutte le sue carat¬teristiche, può dirsi che nel nostro pensiero non sia altro che il passato, ciò che si considera come un passato irrevocabile, che non dipende da noi, e che ci condiziona: che è quel che è, in modo necessario, e che si spiega perciò deterministicamente. Infatti, postici a meditare la storia come storia del passato, noi non possiamo proporci d’intenderla se non a un modo: ri¬cercando di ogni evento le condizioni, e sforzandoci di risol¬vere nelle condizioni tutto il nuovo dell’evento stesso. Abbiamo ancor tutti negli orecchi i dommatici propositi della celebre critica alla Taine, che, nel campo dell’arte, mirava a spiegare tutta l’originalità degli artisti coi precedenti e l’ambiente e, in una parola, con la somma delle condizioni determinanti. Onde il progresso si capovolge in evoluzione meccanica, che non è più storia, ma natura: non più conquista graduale di una finalità immanente, ma variazione delle combinazioni degli elementi costanti di un sistema primitivo, che rimane nel suo complesso invariabile: non libertà, insomma, ma meccanismo.
Il progresso, la libertà e, in una parola, l’umanità o sto¬ricità della storia non è intelligibile se la storia non si orienta verso l’opposto concetto di storia del presente: ossia di storia che è tutta presente e immanente nell’atto di costruirla. Che già una storia (res gestae) bella e compiuta, preesistente allo spirito che l’afferma e la narra (historia rerum gestarum), ri¬cade nell’assurdo del naturalismo. E il concetto di storia del presente importa due cose: 1° che lo storico non risolve mai propriamente – né per l’accertamento, né pel giudizio dei fatti – problemi concernenti le generazioni passate e l’umanità che ha già adempiuto al suo ufficio, bensì problemi attuali e vivi nel suo spirito e cioè interessanti l’attuale e presente umanità; problemi che, nelle loro forme determinate e speciali, son pure gli eterni problemi dell’eterno pensiero; 2° che gli uomini e gli avvenimenti del passato, – che noi cioè collochiamo in certi punti del quadro, onde, dentro la nostra coscienza, ci si rappresenta la realtà, – sono a noi intelligibili nella loro umanità e nel loro valore spirituale soltanto se noi colmiamo l’abisso che separa nel tempo la loro realtà empirica dalla realtà empirica di noi stessi, ugualmente collocati da noi stessi in un dato momento del tempo: colmiamo quest’abisso per ab¬bracciarci e immedesimarci con quelli che furono, e, storica¬mente, sono: sono lo spirito, che ha i suoi fini e la sua razio¬nalità, in eterno: sono Dante, non quello che morì nel 1321, ma quello che vive in noi leggendolo, intendendolo, e insomma realizzandolo spiritualmente. Soltanto allora la storia è storia, col suo progresso, come un processo spirituale unico; e quindi la sua libertà e il suo valore.
Ora se la storia è del passato, essa si fonde con la natura, né c’è arzigogolo di filosofo che possa farla valere come realtà spirituale innanzi al pensiero che la pensa. E allora, sì, potrà dirsi, che la filosofia viene al mondo post festum: esaurito tutto il reale, che è conoscibile, chiamisi storia o natura. La nostra vita stessa, economica, politica, morale, e la stessa vita dell’arte e della scienza, come possibile oggetto di scienza, è un passato. L’età della creazione è arrivata al suo termine: i poeti hanno liberamente dato la vita alle creature della loro fantasia possente; e vengono i grammatici e i retori ad analiz¬zare ed uccidere queste creature, per vedere come sono fatte; gli uomini nell’estro divino della loro innata ragione hanno meravigliosamente ragionato e generato tante scienze, tutte ra¬zionali; e vengono i logici a scomporre e ricomporre, nel loro ozio dignitoso, gli ordigni segreti della ragione. E le città e Stati hanno composto la vita comune nella disciplina giuridica di tutte le forze cooperanti, e hanno ordinato il potere sovrano e i sistemi amministrativi, e hanno organizzato gli eserciti, onde ogni Stato mantiene la pace all’interno e si difende al¬l’esterno dagli Stati che lo contrastano; ed ecco i descrit¬tori delle costituzioni politiche e gli speculatori dello Stato ideale; ecco i discettatori dei principii da cui tutte le leggi derivano o dovrebbero derivare, ai quali non preme dello Stato in cui vivono da cittadini, ma solo di quello in cui immorano col pensiero; ed ecco la pedagogia che riflette sulla educazione, che c’è già, e vi gira intorno, e approva o censura, ma non fa, e non insegna, e così via. Così c’è il cielo e la terra, e le piante e gli animali e l’uomo, che è senso e fantasia e ragione, ecc.; ed ecco la teoria del cielo, e la fisica, e botanica e zoologia e psicologia, e quante altre scienze a poco a poco si vennero co¬stituendo nei doppioni mentali dei quadri oggettivi della realtà preesistente. A questa stregua, benissimo detto: primum vi¬vere, deinde philosophari.
La forma più recente di questa filosofia degna degli dei, ma di quegli dei oziosi e piuttosto ridicoli relegati da Epicuro nei suoi intermundici, è stata quella dei positivisti; per i quali tutto il sapere avrebbe dovuto essere un vano specchio dei fatti, onde, a mente loro, sarebbe stato contesto il mondo. E questo concetto nella loro filosofia si fondava, con rigorosa logica, sul modo d’intendere la stessa coscienza, semplice traduzione o trascrizione o ripercussione biologica di un fenomeno naturale: epifenomeno, come argutamente fu detto, che nulla aggiunge, né toglie al fenomeno. Né è detto che questo concetto, che è sempre il vecchio concetto classico, sia passato insieme coi positivisti.
VI.
Ma bisogna che passi. Bisogna che passi dovunque; ma bisogna sopra tutto in Italia. La quale ha sofferto in tutta l’età moderna, dal Rinascimento in qua, quando per tutto risorgeva l’uomo, fiero del senso della sua potenza, non solo tra gli uo¬mini, ma nell’universo, e raffrontava, questo universo, per padroneggiarlo e farsi valere, e foggiarsi la sua storia, ha sof¬ferto dico le più dure conseguenze del divorzio tra il mondo e lo spirito, e quindi tra il fare e il pensare. Questa povera Italia, oziosa e lenta, in cui sì altamente s’è pensato – sempre alla testa del mondo moderno – e così vilmente si è operato, finché almeno non è suonata l’ora della riscossa, nel Risorgi¬mento, cominciato nel secolo XVIII, quando infatti il pensiero divenne azione, e si cominciò a sdegnare così l’arte come il sapere che non fosse parte della vita, e la vita stessa; questa Italia, il cui significato nella storia dell’Europa moderna, è tutto qui: un popolo, come poteva essere quello del Rinasci¬mento, di forti individualità, ma astratte dal sistema della vita; e quindi assorte in un’arte della guerra e del governo, in cui la virtù dell’individuo potesse meravigliosamente spie¬garsi anche a dispetto della fortuna, ma senza essere la forza di tutto un sistema nazionale o, comunque, generale; e in un’arte della fantasia e in una speculazione dell’intelletto, non meno mirabili di libera genialità, nell’espressione lirica della personalità e nell’investigazione della natura affrancata da ogni preconcetta preoccupazione, quasi immediata ascoltazione della voce interiore dell’essere: ma in un’arte che non toccava né anch’essa la vita, e in un pensiero che la sua libertà conquistava a un tratto spezzando ogni vincolo con le istituzioni reali, con la religione dei padri tuttavia persistente nel costume e nella pratica della vita, e con la stessa politica guardata come res privata dei dominanti. Donde la decadenza secolare, appena il primo slancio individualistico della Rinascita diè tutti i frutti che poteva dare, e non potè attingere quel l’ulteriore sviluppo, che ebbe fuori d’Italia. Donde tutta quella nostra civiltà dal Cinque al Settecento, elegante, raffinata, ma vuota. Il cui se¬greto, concettualmente definito, è questo: che lo spirito nella sua attività superiore (pensiero della realtà) si ritiene opposto alla realtà e quindi inetto, perché da natura non destinato, ad operare su di essa. Non destinato ad operare sulla realtà, perché la realtà c’è quando sopraggiunge il pensiero. Quindi areligiosità come apoliticità del pensiero, in quanto la religione, al pari della politica, era all’italiano un presupposto, e non un pro¬dotto dello spirito: c’era già, e l’uomo la trovava innanzi a sé, senza che egli se la fosse creata: c’era, al pari della politica, non solo come rivelazione sovrannaturale, che ciascun individuo avesse da raccogliere e interpretare nell’intimo della propria coscienza, ma come rivelazione già interpretata, già fissatasi in un organismo sociale, in una Chiesa docente, realtà storica, di quella storia che l’individuo non deve che accettare, poiché essa appartiene al passato; così come ogni persona ragionevole deve riconoscere e accettare le leggi della natura, che si può solo intendere, ma non giudicare.
Ebbene questa fu la vecchia Italia; ma questa non è la nuova, la nostra, sorta nel mondo quando l’idea di un’Italia reale, concreta, politicamente esistente e operante nella storia cessò di parere un’idea politica o semplicemente un’idea – qual’era almeno da Dante in poi – e diventò un’idea attiva, pro¬duttiva essa stessa della propria realizzazione: quando cioè il pensiero fu la stessa vita, la forza operosa, creatrice di realtà storica. Giacché da qualunque parte si guardi la letteratura del nostro Risorgimento, nei poeti o negli scrittori politici, negli storici o nei filosofi, essa in tutti ci mostra una comune fisonomia, affatto nuova nella storia d’Italia. È un’anima nuova, quan¬tunque preannunziata da Alfieri, Parini e Foscolo. Si potrebbe dire che c’è una serietà, per l’innanzi ignorata dalla lettera¬tura italiana: una serietà che consiste nella unità e compat-tezza della personalità degli scrittori, che, sperino o pensino, narrino storie o costruiscano sistemi, hanno un medesimo in¬teresse, e si sente che dicono tutti sul serio. Il Manzoni dei Pro¬messi sposi è un artista perfetto, in cui le preoccupazioni pra¬tiche non si può dire certamente che intorbidino la serena vi¬sione poetica, quell’olimpica calma che è propria dell’arte vera; nondimeno anche nei Promessi sposi, come in tutto il resto della sua opera poetica, Alessandro Manzoni non è soltanto un artista, ma è un uomo: un uomo che ha una fede, che s’irradia nel suo mondo poetico. E la sostanza della sua poesia coincide assolutamente col contenuto dello spirito, e cioè del carattere, della volontà dell’autore. Il quale perciò, scrivendo e poetando, non si sequestra dalla vita nel pensiero, ma entra nella vita e vi agisce. E come fa il poeta, fa il filosofo e fa lo storico. Esem¬pio insigne il Gioberti, sul quale ho richiamato altra volta l’at¬tenzione come rappresentante della nuova filosofia degna della nuova Italia, e del quale non c’è libro che non sia insieme pensiero ed azione: non già – come qualcuno, dominato tut¬tavia dal vecchio concetto della filosofia, potrebbe dire – perché nello scrittore subalpino siano insieme commisti e confusi come due cose diverse, ma perché egli raggiunge in alto il nuovo punto di vista della filosofia, e in generale del pensiero, che è, esso stesso, realizzazione della realtà.
VII.
Da questo punto di vista, dunque, la filosofia è, e dev’es¬sere non concetto di una realtà presupposta, ma concetto della realtà che si realizza appunto perché si concepisce. La filosofia pertanto non conosce più un oggetto che le preesista: ossia non conosce più una natura, né può conoscere una realtà spi¬rituale che non sia quella stessa che essa costruisce. E se chi dice realtà spirituale, dice storia, che si configura come pro¬cesso comune (interindividuale), governato da una volontà unica che informa di sé tutto il processo e stringe gl’individui mol¬teplici in una superiore individualità spirituale, la filosofia, oggi, non conosce il suo oggetto, se non come storia e vita dello Stato; e se conoscere per lei è costruire (conoscere tanto quanto costruire), la conseguenza è, che il sequestrarsi della filosofia dalla politica non è possibile se non a patto di costruirsi una politica astratta, e cioè presupporre fuori di sé quell’altra po¬litica (che sarebbe la concreta e reale), secondo l’errore del concetto classico del pensiero, che s’è dimostrato assurdo. O fi¬losofare all’antica, come ancora molti fanno; e allora è pos¬sibile disinteressarsi (come si dice) della politica; ma allora è inevitabile a chi è logico il ritorno al vecchio naturalismo. O mettersi in regola col progresso critico del pensiero, che sente l’impossibilità di pensare presupponendo la vita e quindi sovrapponendosi ad essa; e allora una filosofia che non sia af¬fiatata con la vita, cioè con la vita del proprio tempo e del proprio paese, che è a ciascuno la vita onde si vive la vita uni¬versale, è una cosa priva di senso.
Che cosa questo affiatamento significhi è ormai chiaro. Non certo fare il politicante oltre che il filosofo; e presentare la propria candidatura alla prima occasione per alternare gli studi tranquilli ed umbratili col tumulto dei comizi e delle assemblee. Questa se mai sarà l’interpretazione volgare, ma ormai anche troppo nota, dei professori stanchi della scuola: pei quali la filosofia non è il maggiore interesse. Si tratta di cosa molto più semplice. Come il filosofo fa la logica, osser¬vando e studiando il processo logico dello spirito (che vuol dire recando in atto egli stesso la sua propria natura logica), così il filosofo fa anche la politica (la teoria politica); ma questa sua politica non può farla altrimenti che osservando la reale politica e studiandola; il che, anche qui, vuol dire vivendola, o, se si vuole, partecipandovi: studiandola non da spettatore, ma come il suo proprio affare e con l’interesse che si può met¬tere nel sistema della propria vita. Poiché, per filosofo che sia, non cesserà mai d’esser cittadino della sua Patria; e di sè perciò egli non potrà dire mai di aver cognizione, se non studia se stesso nel sistema, con cui fa un tutto, e per cui veramente è reale, nella storia; e però nello Stato.
E aver cognizione di sé è filosofare; non dello spirito, che è, astrattamente, comune natura di tutti. Anche quest’astra¬zione deve essere sorpassata. La realtà nota alla filosofia mo¬derna, è lo spirito inteso come quella realtà appunto che il filosofo attua filosofando: egli stesso, nella posizione e nello sviluppo della propria personalità concreta. E però filosofare è precisamente conoscere (e quindi costruire) non una generica personalità politica e il sistema al quale essa può appartenere, ma la propria personalità attuale nel sistema della politica del proprio paese. E soltanto attraverso la determinatezza di questa individualità storica si fa strada l’universalità del concetto, a cui la filosofia oggi aspira.
VIII.
Ma, se così è, mentre ci siamo indugiati a risolvere la prima questione, relativa all’intima relazione della filosofia con la politica, noi abbiamo pur risoluto l’altra della relazione che la politica ha con la filosofia. Tant’è vero che le due questioni sono due facce diverse di un solo problema. Giacché se il pen¬siero moderno non ammette una politica che non sia lo stesso pensiero, da una parte non sarà consentito di pensare filosofi¬camente lasciando fuori della filosofia la politica; ma dall’altra non sarà né pur concepibile una politica che prescinda dal pen¬siero filosofico: visto che i due termini, superata l’astrattezza della distinzione dedotta dal concetto antico della filosofia, coin-cidono in uno. E qui si manifesta il valore di un’idea che già fu accennata al principio di questo scritto: che cioè la politica è inseparabilmente legata a quella filosofia la quale abbia coscienza del suo essenziale rapporto con la politica. Idea che basterà chiarire per acquistare la nozione esatta del rapporto onde la politica è, secondo noi, strettamente avvinta al pensiero filosofico.
L’idea sarà chiarissima se alla filosofia quale noi l’inten¬diamo nelle sue attinenze alla realtà politica, opponiamo per un momento quell’altra filosofia, che ha in ogni tempo allon¬tanati da sè gli uomini di Stato e tutti i realisti della politica. Giacché anche nella filosofia politica s’è ripercossa, com’era naturale, quella forma intellettualistica del pensiero antico, che faceva della vita un antecedente del pensiero, anche quando, come nella Repubblica di Platone e nello stesso scritto kan¬tiano Per la pace perpetua, si proponeva di agire sulla vita. Tutta la concezione giusnaturalistica e metafisica poggia in-fatti sul concetto che non propriamente la vita storica, positiva, attuale sia il presupposto del pensiero (che, in tale ipotesi, non potrebbe evidentemente esercitare azione di sorta sulla vita stessa), ma un’altra vita, ideale ed eterna, e come tale dotata di valore assoluto. Il diritto di natura, come la giustizia di Platone, è nella sua idealità quel medesimo che al positivista è il fatto, condizione del pensiero; un assoluto antecedente, che è in sé quel che è, e che al pensiero non spetta se non riconoscere: quindi, io dico, realtà concepita naturalisticamente, o, più brevemente, natura, alla quale, secondo il filosofo che la scopre nel fondo della sua intelligenza, si oppone ma deve conformarsi quell’altra che egli empiricamente vede pur pre¬valere nella lotta, a parer suo irrazionale, degl’interessi parti¬colari e delle passioni. Ma una tale filosofia ha sempre la realtà (la vera realtà) alle sue spalle; e non è in grado perciò d’in¬tendere quella che è reale per davvero appunto perché non è la natura, che l’uomo trova dietro a sè, ma il mondo di cui egli è l’artefice. Quell’ideale, che è per Kant l’idea della pace perpetua, è norma, secondo lui, della politica internazionale, perché derivante non dalla meditazione della storia, anzi dalla contemplazione di un’ideale natura, che è in contrasto con la storia; tanto in contrasto quanto l’immutabilità della natura, in generale, ripugna alla dialettica mobilità dello spirito.
Tutta quella filosofia insomma è metafisica, perché intel¬lettualistica e naturalistica, e quindi astratta rispetto alla storia, e incapace per conseguenza di affiatarsi con essa e agire dentro di essa. Esempio, viceversa, di opposto pensare, il materialismo storico con la sua dottrina della lotta di classe; per cui la classe lavoratrice si schiera contro quella detentrice dei mezzi di pro¬duzione, non perché questo sia il dovere, e né anche perché naturalmente sia portata a questa lotta. Se la lotta fosse affatto naturale, il Manifesto non avrebbe senso; e sarebbe sciocco il grido da esso lanciato ai proletari di tutto il mondo: Unitevi! L’unione, l’organizzazione è possibile soltanto in quel modo che è proprio d’ogni azione umana: cioè solo in quanto è volontà, proposito, programma; ma un programma che, a sua volta, non sia arbitrio, cioè pensiero dell’individuo assorto in una sua idea di giustizia astratta, o in generale pensiero sovrapposto alla realtà, ma questa realtà stessa, che si realizza mediante la co¬scienza di sé. I proletari marxisti, senza questa coscienza di sè, che il materialismo storico intende di dar loro, non si uni¬scono: e la lotta di classe diventa un’utopia, invece di essere come è stata nell’ultimo mezzo secolo, una delle parti cioè vive della storia. Giacché noi potremo combattere il materialismo, come una filosofia insufficiente; e attraverso di esso vincere la lotta di classe e instaurare altri metodi di azione politica; ma non potremo fare né che il materialismo storico non sia stato una filosofia avente una grandissima importanza storica proprio perché fu anche una politica, nè che il materialismo storico sia vinto altrimenti che con una filosofia, realistica com’esso, anzi più realistica.
IX.
Dico filosofia realistica, e spero di non essere frainteso. Dire «filosofia realistica» è dire «politica realistica», la quale, comunque, è la vita storica dello Stato nella sua dinamicità: ossia quella politica che sola è propriamente reale. E la filosofia è, rispetto alla politica, realistica quando fa tutt’uno con la politica reale, essendone la coscienza critica, come il marxismo può ritenersi coscienza critica del movimento comunista che fa capo a Marx.
Ora, si badi bene, questa filosofia che fa tutt’uno con la reale politica, non è postulato filosofico né un’invenzione di loici pensatori. Essa, può dirsi, c’è stata sempre. E quel che è stato Marx per il comunismo, è stato ogni uomo politico per la parte e per l’opera sua. Accanto a Giambattista Vico, ammirato, ve¬nerato ma incompreso, sta Bernardo Tanucci. Il quale non comprende la filosofia del grande e umile professore universi¬tario, che ha in tanta stima; ma non perciò non ha anche lui la sua filosofia (che in qualche punto s’incontra nel pensiero vichiano). Accanto a Vincenzo Gioberti, da cui lo respinge più che il dissenso su particolari questioni e il complesso dei rapporti personali diversi, l’antitesi del temperamento e della educazione mentale, sta Camillo di Cavour, che, malgrado l’an¬tipatia per l’uomo e per certi suoi atteggiamenti, il filosofo preconizza come il futuro statista che eseguirà il programma del suo Rinnovamento: ma Cavour, se gli ripugna la dommatica fi¬losofica teologizzante dell’abate suo concittadino, ha la sua filo¬sofia, tutta pregna di problemi religiosi e morali, che egli cer¬tamente è incapace di risolvere con chiarezza di analisi e pro¬fondità di principii speculativi, ma non perciò se ne giova meno ad animare le audacie e i propositi lungimiranti della sua politica.
Appunto questa filosofia dei politici, e non quella degli astratti filosofi ignari del mondo in cui vivono e noncuranti della realtà che preme su di loro e che essi, quasi sognando, pur vivono, questa è la filosofia che fa tutt’uno con la politica. Ma essa ha bisogno di quello svolgimento, che sdegnava giusta¬mente quando svolgimento di idee filosofiche, immanenti nel¬l’umano pensiero, voleva dire quel mettersi fuori delle cose, sopra di esse, e costruire un altro mondo, luminoso ma senza consistenza. A quella filosofia ben facevano i politici a volger le spalle, e se Cosimo dei Medici sollecitava gli amici uma¬nisti che gli traducessero dal greco la celebrata Repubblica, ei non ne aspettava di certo lume alle proprie idee. Non perder di vista la realtà, non soffocarla dentro di sè, anzi potenziarne l’energia, che è in noi, padroneggiando il nostro pensiero.
In Italia i partiti più vivaci e combattivi degli ultimi tempi hanno avuti programmi che sono filosofie. A queste filosofie la vecchia parte liberale ha contrapposta la sua, che ora qui non tocca di esporre né criticare. Tutti la conoscono, e si rias¬sume in poche formole, alle quali si ricorre nelle grandi oc¬casioni come ad articoli di fede. Ebbene: siano magari vere; non c’è verità che il pensiero moderno possa credere di pos¬sedere, senza sperimentarne e restaurarne continuamente il valore con la discussione e la critica, ossia col risalire sempre fino ai principii e sottoporre ad esame le radici più profonde delle nostre convinzioni. Soltanto a questo patto una formola può essere un pensiero, e un pensiero generare una fede. Quella fede che, tutti ne vorranno convenire, è la sanità dello spirito, e la condizione imprescindibile del carattere morale e politico.