“Umanesimo e antiumanesimo nelle società democratiche contemporanee. L’anima umanistica della democrazia” di Vittorio Possenti
Idea di umanesimo e situazione contemporanea.
Il conflitto tra umanesimo e antiumanesimo, presente in ogni società politica e civile, comprese quelle che non ricorrono esplicitamente a tali termini, appartiene alla dialettica fondamentale dell’umano, ma è per motivi spirituali e storici fortemente attivo in Occidente. Sempre risorgente è l’aspirazione ad un nuovo umanesimo che riesca a sormontare le anse e i rischi dell’antiumanesimo, da individuare volta per volta secondo le costellazioni storiche e spirituali dell’epoca. Occorre discernere le principali difficoltà del cammino verso un reale umanesimo, segnalando i fattori che pesano di più, rendendo ardua la delineazione di un nuovo umanesimo: il politeismo dei valori, la gabbia d’acciaio della razionalità strumentale e funzionalistica, l’onnipresenza dell’utilitarismo e del principio di utilità, la secolarizzazione diffusa in cui l’eclisse di Dio si accompagna al bagliore di molti idoli, i temi dell’etica familiare e del matrimonio con le questioni del nascere, del morire e della manipolazione tecnica della vita, le immigrazioni di massa, la mescolanza delle culture. A questi nuclei, ma non solo a questi, si può ricondurre il profondo mutamento dell’idea stessa di umanesimo in atto da vari decenni.
Abbiamo sotto gli occhi la difficile situazione di tutto il patrimonio umanistico, spesso marginalizzato e privato del suo compito di orientamento e formazione. Da decenni le culture attive nella società e nella cultura sono di tipo schiettamente pragmatico, utilitario, tecnocratico, ed esse manifestano perlopiù un’estesa indifferenza all’umanesimo. L’obiettivo che tali culture perseguono è di tipo funzionale e spesso animato dal mito della potenza, in specie entro la prospettiva tecnocratica che guadagna posizioni e che risulta più di altre guidata dalla volontà di potenza. La fragilità della prospettiva umanistica attuale si riverbera sulla scarsità di meditazione sui fini e sui beni umani.
Da tempo non pochi domandano con angoscia: come ridare senso al termine «umanesimo»? Possiamo riuscirvi, o il processo storico-spirituale ha già oltrepassato la soglia critica e non consente ritorni? Alla domanda di Jean Beaufret sulla nuova attribuzione di significato all’umanesimo, Heidegger rispondeva nel 1946 con la Lettera sull’umanismo che forse non era necessario mantenere tale termine per il rischio che i vari «ismi» veicolano. In realtà la domanda sull’umanesimo rimane supremamente necessaria poiché ne va di noi esseri umani, e dell’antiumanesimo che lo accompagna come un’ombra inquietante. La categoria di umanesimo continua così a giocare un ruolo di primo piano nel dibattito di profondità, e altrettanto la domanda sulla disumanizzazione degli umanesimi. Per procedere dobbiamo elaborare un’idea di umanesimo, senza accontentarci di stare in superficie, tenendo conto che esso è una nozione centrale ma tutt’altro che univoca, non applicabile uniformemente, e non riducibile soltanto a stili di vita quotidiani, usanze, costumi, e culture.
Abitiamo in un tempo in cui i problemi centrali riguardano l’uomo. Che la domanda fondamentale sia oggi quella sull’uomo è testimoniato dalle opere filosofiche più notevoli degli ultimi decenni, se assumiamo che nello specchio della filosofia si rifletta la situazione spirituale dei popoli e i problemi che agitano la loro vita: Scheler, Gehlen, Jonas, Lévinas, Ricoeur con i loro scritti concernenti l’uomo, l’antropologia culturale, l’etica, la libertà e la responsabilità ci ricordano in molti modi la centralità insostituibile del tema antropologico.
Fra i diversi significati di umanesimo ne richiamo tre: 1) un significato storico-culturale in cui l’umanesimo vale quale studio delle humanae litterae, ossia studia humanitatis; 2) un significato filosofico quale inclinazione irreprimibile a realizzare l’essenza umana e a valorizzare ciò che vi è di più alto nell’uomo, facendo perno sulla persona e la sua dignità; 3) un significato politico in cui umanesimo è inteso come critica del presente e liberazione dai processi di oppressione. Volgendoci verso il secondo significato si possono ricordare quali esempi paradigmatici di tale umanesimo il salmo 8, e l’Oratio de hominis dignitate di Pico della Mirandola. Nel XX secolo emergono le elaborazioni di Maritain con opere quali Umanesimo integrale, La persona e il bene comune, L’educazione al bivio. Poi con il concilio Vaticano II e il pontificato di Paolo VI il tema dell’umanesimo ha spiccato il volo. Successivamente Ch. Taylor (The Secular Age) ha parlato di umanesimo esclusivo e inclusivo, intendendo con il primo termine un movimento della civiltà che tende solo verso fini di prosperità mondana e che lascia da parte la trascendenza, a differenza dell’umanesimo inclusivo che assume connotati molto simili a quelli dell’umanesimo teocentrico di Maritain. Questa forma di umanesimo si può anche denominare umanesimo della persona che, aperta alla trascendenza, ricerca l’eccellenza morale, una vita moralmente retta e buona, un atteggiamento di pietas e di fraternità verso l’altro. A tale umanesimo non è estranea la fruizione del bello sulla quale molti hanno attirato l’attenzione, tra cui F. Schiller secondo cui l’arte conta molto per la politica, «dacché è attraverso la bellezza che si perviene alla libertà».
Può oggi un umanesimo personalistico, può la densità della persona farsi ispirazione politica e visione del mondo in ordine alla vita sociale, quando umanesimo e persona appaiono agli occhi di molti idee ad un tempo allettanti e indeterminate? In special modo la nozione di persona richiede un delicato discernimento: il richiamo ad essa è tanto onnipresente quanto inflazionato. Sembra emanare un suono magico capace di addolcire i cuori e illuminare le menti, eppure l’unanimità del riferimento copre notevoli differenze che spesso sono forti opposizioni. La frequenza con cui la persona è evocata a tutte le latitudini rischia di farlo diventare un nome che si prende al volo al fine di impiegarlo per gli scopi più vari. Un importante giurista come S. Rodotà richiama frequentemente la nozione di persona e la impiega con generosità in opere quali La vita e le regole (Feltrinelli 2009), e Il diritto di avere diritti (Laterza 2012); dubiterei però che potremmo considerarlo un personalista in senso proprio, in quanto più che dinanzi ad una considerazione integra della persona ci si trova di fronte ad un’accentuazione quasi esclusiva della libertà di autodeterminazione e di autoplasmazione morfologica dell’io, e ad un oblio gettato sul carattere sostanziale dell’essere umano, in qualsiasi momento del suo sviluppo.
2. Le idee di persona e di umanesimo sono radicate in quella di natura umana, divenuta altamente controversa.
Relazionalità e carattere dialogico della persona sono le categorie cui buona parte del pensiero contemporaneo fa riferimento quando affronta la questione dell’umano, mentre risulta indigesto il concetto di natura umana, a torto però. L’idea di umanesimo non può consistere senza quella di natura umana (oggi fatta oggetto di una miriade di critiche) e quella di persona. Impressionante è il modo corrivo con cui alta parte della cultura cerca di sbarazzarsi con poca spesa dell’idea di natura umana, bollando col termine di naturalismo sorpassato o di paradigma naturalistico obsoleto ogni altra visione che non sia quella della riduzione da un lato della natura umana a natura biologica, unita all’assunto che la natura umana è in realtà una nozione costruita e storica dall’altro. Così ci si libera a buon mercato del personalismo che non abbandona la nozione di natura umana.
Come appena detto, la declinazione dell’umanesimo contemporaneo, svolta in chiave etica assai più che ontologica, pone l’accento sulla natura dialogica e relazionale dell’essere umano. Indubbiamente si alimenta così un filone notevole di attenzione alla persona e all’umanesimo, che in vari casi non è però risolutivo, perché manca la determinazione concreta di chi è l’altro da rispettare e da trattare con giustizia. Per questo esito non è sufficiente un approccio esclusivamente etico e relazionale.
Sembra infatti ovvio che per stabilire in maniera attendibile la dignità della persona occorra preliminarmente approfondire la nozione di persona, che non può essere adeguatamente stabilita a livello morale senza chiamare in causa il livello ontologico. Da tale esame scaturirà che l’esser-persona è una qualità inerente ad ogni essere umano, qualunque sia il grado del suo sviluppo: non è dunque un’attribuzione che provenga da altri esseri umani o dalle leggi ma un connotato di valore ontologico che è inscritto per natura in noi.
3. Umanesimo della persona e pietas verso l’altro.
Qualcosa in noi ci predispone a sentire l’umanesimo della persona come umanesimo dell’altro uomo: sentire per l’altro un sentimento di empatia, simpatia e pietas. «Essere umano è avere per l’uomo un sentimento di amore e di pietà»: questa succinta frase di sant’Isidoro ripresa con approvazione dall’Aquinate segnala l’esistenza di un’inclinazione o impulso fondamentale della natura, almeno in parte anteriore alla riflessione. Se si pone mente alla pietà evocata nella frase di Isidoro e di Tommaso, si trova un filo spirituale che congiunge l’Aquinate all’illuminismo di Rousseau per il quale sentimenti umani centrali sono l’essere sensibili all’altrui sofferenza, la pietà, il potersi identificare con l’altro anche quando questi non è solo parente e vicino ma un uomo qualsiasi. «Comment nous laissons nous émouvoir à la pitié? En nous transportant hors de nous-même; en nous identifiant avec l’être souffrant. Nous ne souffrons qu’autant que nous jugeons qu’il souffre ; ce n’est pas dans nous, c’est dans lui que nous souffrons». La pietas e la compassione implicano l’apertura all’altro, la capacità di decentrarsi nell’altro, di far prevalere il linguaggio dell’obbligo su quello della sola rivendicazione del proprio io.
L’umanesimo del rispetto dell’altro e una democrazia di pari contenuto presuppone e nello stesso tempo favorisce una società di simili, derivante da una lunga formazione comune e da una consuetudine storica di rapporti. In tal modo il criterio classico dell’eguaglianza quale indicatore di una società riuscita ha buone possibilità di affermarsi in certi Paesi più che in altri: si afferma in Paesi che hanno conosciuto una protratta omogeneità storica e culturale, come quelli europei sino a pochi decenni fa, o in Paesi come gli Stati Uniti che hanno da maggior tempo costituito un crogiolo di culture che si sono in buona misura reciprocamente riconosciute. Tra i motivi di tale esito americano centrale è quello che gli immigrati polacchi, irlandesi, italiani, anglofoni, latinoamericani condividevano la base religiosa comune: erano cristiani e provenivano da società che avevano nel cristianesimo un potente fattore di similitudine e di assimilazione. Diverso è oggi il caso dei Paesi occidentali con crescente presenza di musulmani e asiatici, dove l’edificazione di una società di simili va lungamente perseguita. Per il momento la democrazia dei simili ha cambiato alloggio ed abita con fatica in via dei malcontenti.
4. Rischi attuali.
Per affinare l’analisi in rapporto alla società contemporanea, dobbiamo individuare taluni fattori primari in cui l’idea di umanesimo pericola vistosamente negli ultimi decenni, aprendo la porta all’antiumanesimo. Propongo quattro rischi fondamentali.
a) Enfasi esasperata sull’autodeterminazione del singolo, aspetto in cui si configura una sorta di «idolatria ipermoderna» che dice: il mio idolo sono io e io sono solo la mia totale libertà di autodeterminazione. Da ciò promana una seria crisi della dottrina della persona e dell’umanesimo, rappresentata dalla loro crescente restrizione alla sola dimensione dell’autodeterminazione del singolo. Viene così a compimento un vero e proprio capovolgimento del sapere morale, la cui essenza è individuata non nel bene ma nella libertà. Un fattore primario del nichilismo etico che percorre le nostre società consiste nel porre la libertà sopra il bene, mentre il costitutivo formale dell’etica è il bene e non la libertà. Alla democrazia scettica che non ha un’idea di bene comune, si chiede proprio questo, di concedere le più ampie autorizzazioni al singolo, e di riconoscergli diritti che non di rado sono solo pretese e meri desideri.
b) Crisi dei diritti sociali, e diffusione dell’utilitarismo. Volgendo lo sguardo verso l’universo dell’economia nei suoi molteplici e fondamentali aspetti, è agevole verificare il declino di un umanesimo del lavoro che è stato importante sino ad un passato non lontano, e che ha visto all’opera in specie le culture e i partiti democratico cristiani e socialdemocratici per un ampio periodo: il ‘compromesso’ sociale uscito sotto il loro sguardo, capace di offrire particolare rilievo ai diritti sociali, è da tempo in grave crisi. In quasi tutto l’Occidente i diritti sociali sono arretrati mentre sono aumentati esponenzialmente i cd. diritti civili di libertà, in specie nell’ambito della vita, famiglia, procreazione, teoria del gender. Oltre alla spinta dell’ideologia libertaria pronta ad elevare a diritto esigibile qualsiasi pretesa (quasi sempre si tratta di pretese degli adulti, mentre i deboli non hanno voce alcuna), hanno contato e contano l’influsso pervasivo delle biotecnologie e la globalizzazione, la quale ha creato un certo numero di vincenti e un molto maggior numero di perdenti, gli sconfitti della globalizzazione che vedono diminuire il loro reddito e le garanzie dei diritti sociali.
Stando all’utilitarismo dei mercati, tutto ha un prezzo, tutto può essere comprato. Il capitalismo finanziario globalizzato e autonomo, ampiamente irresponsabile poiché risponde solo a se stesso, è una sorgente notevole di antiumanesimo per l’egemonia che esercita e per la concezione fortemente funzionale dell’essere umano, inteso come un consumatore e come un soggetto che si esprime solo nello scambio del mercato. Il capitalismo finanziario sta colonizzando fortemente le nostre società con l’istituzione simbolo di tale sistema: la banca. Anche all’osservatore più disattento non può sfuggire la crescita esponenziale del numero di nuove banche e di sportelli bancari in un movimento iniziato oltre 35 anni fa e che solo oggi attira attenzione critica, come recentemente quella di M. Draghi. Questi ha segnalato l’ipertrofia del sistema bancario e i rischi sistemici insiti. Ma il neoliberalismo resta convinto dell’intrinseca razionalità del mercato lasciato a se stesso. Un altro elemento notevole è la paura, nutrita dall’ansietà delle persone in ordine alla loro situazione e al loro futuro, nonostante la condizione in sostanza privilegiata dei nostri paesi in rapporto alla condizione planetaria. La paura non aiuta a riflettere, a prendere le distanze dall’immediato, a valutare con maggior freddezza il contesto.
Più in profondità si esprime un empio ascetismo a servizio dell’utile: l’essere umano si massacra per raggiungere scopi utili che poi non lo soddisfano, mentre dichiara una lontananza e quasi un rifiuto del bello quale fattore essenziale di umanizzazione. Tanti, troppi lavorano disperatamente per vincere e coprire il loro vuoto.
Da questi esiti si differenzia l’economia civile di vari autorevoli studiosi tra cui W. Röpke, e l’umanesimo civile di J. Maritain, di A. Rosmini, di A. de Tocqueville. Nonostante la diversità dei contesti e delle epoche essi hanno compreso che l’essere umano è fine, non mezzo, e che tra le tante conseguenze di tale valore bisogna salvaguardare il creato in cui viviamo, evitando di sottoporlo a rapina, ed evitando lo sradicamento dell’essere umano dal suo ambiente e cultura, come purtroppo avviene ormai frequentemente con la globalizzazione e le migrazioni.
A questo proposito osservava S. Weil: «L’âme humaine a besoin par-dessus tout d’être enracinée dans plusieurs milieux naturels et de communiquer avec l’univers à travers eux. La patrie, les milieux définis par la langue, par la culture, par un passé historique commun, la profession, la localité, sont des exemples de milieux naturels.
Est criminel tout ce qui a pour effet de déraciner un être humain ou d’empêcher qu’il ne prenne racine».
c) La crisi dell’idea di diritto: positivismo giuridico e relativismo dei valori in democrazia.
È un aspetto a cui sono molto sensibile, ed a cui ho dedicato un volume dal titolo Nichilismo giuridico (2012), ritenendo che il positivismo giuridico assoluto abbia condotto il diritto entro l’impasse del nichilismo. Per illustrare sommariamente questa posizione mi rivolgerò ad un’autorità maggiore della mia, quella di Benedetto XVI, citando un passo del suo discorso al Bundestag (22 settembre 2011):
Se si considera la natura – con le parole di Hans Kelsen – “un aggregato di dati oggettivi, congiunti gli uni agli altri quali cause ed effetti”, allora da essa realmente non può derivare alcuna indicazione che sia in qualche modo di carattere etico. Una concezione positivista di natura, che comprende la natura in modo puramente funzionale, così come le scienze naturali la riconoscono, non può creare alcun ponte verso l’ethos e il diritto, ma suscitare nuovamente solo risposte funzionali. La stessa cosa, però, vale anche per la ragione in una visione positivista, che da molti è considerata come l’unica visione scientifica. In essa, ciò che non è verificabile o falsificabile non rientra nell’ambito della ragione nel senso stretto. Per questo l’ethos e la religione devono essere assegnati all’ambito del soggettivo e cadono fuori dall’ambito della ragione nel senso stretto della parola. Dove vige il dominio esclusivo della ragione positivista – e ciò è in gran parte il caso nella nostra coscienza pubblica – le fonti classiche di conoscenza dell’ethos e del diritto sono messe fuori gioco. Questa è una situazione drammatica che interessa tutti e su cui è necessaria una discussione pubblica; invitare urgentemente ad essa è un’intenzione essenziale di questo discorso.
L’errore irrimediabile di Kelsen sta nell’aver assunto un significato puramente scientifico del concetto di natura e di averlo applicato anche a quello di natura umana, che non è soltanto né principalmente scientifico ma filosofico. In certo modo Kelsen e numerosi altri con lui sono vittime di un’applicazione oltranzista della cd. legge di Hume che vieta il passaggio dai fatti ai valori, dagli asserti descrittivi a quelli prescrittivi. Il che è vero se appunto ci si riferisce a meri fatti empirici: nessuno dubita che dal fatto che oggi piove si possano dedurre valori. Ma il discorso non è così disperatamente banale come un empirista o un positivista radicali ritengono che sia.
Quando ci volgiamo alla natura umana e alla persona verifichiamo che esse non sono fatti empirici e che anzi ospitano inclinazioni e finalismi che vanno attentamente esaminati e che vanno oltre il mero fatto. In altri termini empiristi e positivisti sono ciechi dinanzi a ciò che va oltre il fatto, per il quale soltanto vale l’indeducibilità del prescrittivo dal descrittivo empirico. E ovviamente per tali scuole il diritto naturale è morto, o è ridotto alla legge che il pesce grosso mangia il piccolo, il che è ‘naturale’ nella physis. Ma la nozione ontologica di natura umana non appartiene che in parte all’ambito della physis. È per la natura umana che vale il diritto naturale come inteso per lunghe epoche ed anche oggi da chi non abbandona il concetto di natura umana.
Nelle parole di Benedetto XVI non è difficile scorgere, considerata anche la sede in cui parlava – una preoccupazione per il nesso tra diritto, democrazia e politica, e il connesso problema della democrazia relativistica, per cui il relativismo etico sarebbe la vera base della democrazia. L’insegnamento sociale della Chiesa ha costantemente sollevato un’obiezione a tale assunto, elevato in maniera oltranzista da Kelsen.
Tra i molti enunciati si veda l’enciclica Centesimus Annus, n. 46:
Un’autentica democrazia è possibile solo in uno Stato di diritto e sulla base di una retta concezione della persona umana. Essa esige che si verifichino le condizioni necessarie per la promozione sia delle singole persone mediante l’educazione e la formazione ai veri ideali, sia della “soggettività” della società mediante la creazione di strutture di partecipazione e di corresponsabilità. Oggi si tende ad affermare che l’agnosticismo ed il relativismo scettico sono la filosofia e l’atteggiamento fondamentale rispondenti alle forme politiche democratiche, e che quanti son convinti di conoscere la verità ed aderiscono con fermezza ad essa non sono affidabili dal punto di vista democratico, perché non accettano che la verità sia determinata dalla maggioranza o sia variabile a seconda dei diversi equilibri politici. A questo proposito, bisogna osservare che, se non esiste nessuna verità ultima la quale guida ed orienta l’azione politica, allora le idee e le convinzioni possono esser facilmente strumentalizzate per fini di potere. Una democrazia senza valori si converte facilmente in un totalitarismo aperto oppure subdolo, come dimostra la storia.
d) La grande sfida della tecnica all’umanesimo.
Heidegger, Guardini e altri pensatori di alto profilo hanno da decenni innalzato un acuto avvertimento sui rischi del progetto tecnico, la sua volontà di potenza, la sua capacità di alterare la percezione della realtà e dell’essere da parte del soggetto umano. Per Guardini il compito più essenziale affidato all’Europa sta nella ‘critica della potenza’, tra cui quella tecnica; secondo Heidegger ci mostriamo ciechi quando consideriamo la tecnica come qualcosa di neutrale.
A creare grandi preoccupazioni e a sollevare interrogativi inaggirabili non è soltanto il fatto che la tecnica è di per sé una «potenza senza etica» e una «potenza aperta sui contrari»: la tecnica abbandonata a se stessa è infatti soggetta ad essere impiegata per o contro l’uomo, è volta verso il meglio e il peggio (l’energia nucleare può illuminare una città altrettanto bene che distruggerla). La tecnica come potenza senza etica può facilmente volgersi verso un’etica della potenza, mossa da una volontà di potenza che potrebbe consumare l’umanesimo. Ciò è singolare in quanto nell’Umanesimo e nel Rinascimento scienza e tecnica non nascono contro l’idea di umanesimo, ma da certe correnti dell’umanesimo e sue prosecuzioni (vedi Bacone e Cartesio per i quali la tecnica ci renderà dominatori e signori della natura a nostro vantaggio). L’origine della tecnica sta indubbiamente nella mente umana e risulta opera dell’uomo, ma questa origine non toglie il rischio realissimo che sia impiegata contro l’uomo.
Ma è soprattutto il cambiamento che la magia della tecnica inocula nell’essere umano, stordendolo e affascinandolo, che deve far meditare. La tecnica forma un sistema mondiale con il relativo apparato che si insinua dovunque, e che da molti viene ancora ritenuto un mezzo universale, ossia quel mezzo di tutti i mezzi che consentirà una completa liberazione dell’uomo. Sussiste in questa diffusa persuasione un’illusione estremamente pericolosa, ossia che noi saremo in grado di volgere la tecnica ai nostri scopi umanistici. Accadrà così oppure la tecnica non accetterà regolazioni esterne, e porrà a se stessa il proprio fine, quello dell’incremento illimitato della potenza?
La filosofia moderna, ormai precipitata in una crisi che l’ha condotta all’afasia, non ha saputo fare i conti con la tecnica a causa dell’egemonia di un pensiero postmetafisico, che ha elevato ad assoluto il divenire che, tutto trasformando, travolge ogni realtà stabile. Valga l’esempio di G. Gentile che elevò innumerevoli volte una critica al pensiero greco, reo ai suoi occhi di naturalismo. Egli non vide né comprese la profondità della filosofia aristotelica della tecnica che, mantenendo la dimensione del necessario (necessario è ciò che sta così e non può stare altrimenti), considerava la tecnica priva di potenza nei suoi confronti. L’assoluto volontarismo di Gentile rifiutava ogni necessità, e pensava la vita del Tutto come un infinito divenire in cui nulla sta fermo e tutto è trascinato dall’atto dell’Io, che in verità non differisce dalla volontà di potenza che procede incessantemente a sovvertire il mondo e l’uomo. Si tratta di un progetto mai finito in cui l’essere umano è catturato dentro un movimento universale che ha di mira l’accrescimento della potenza: la tecnica strappata via dal suo primitivo orizzonte umanistico si volge contro l’uomo ed esercita un dominio su di lui. Ma appunto Aristotele conosceva quello che Gentile lasciava da parte, ossia che la tecnica non ha potere sull’essenza umana, che appartiene all’ambito del necessario.
Secondo E. Severino, che da tempo dedica riflessioni notevoli alla tecnica, questa raggiunge il dominio «perché il sottosuolo essenziale della filosofia degli ultimi due secoli mostra che l’unica verità possibile è il divenire del tutto», ed in questo movimento epocale che avanza sotto la guida della potenza «viene travolta ogni altra verità e innanzitutto la verità della tradizione dell’Occidente, che pone limiti all’agire tecnico». Sottolineo volentieri il richiamo alla tradizione dell’Occidente, peraltro emarginata da Severino entro un giudizio indiscriminato di errore che colpirebbe la sua vicenda dagli albori a noi.
Sia lecito domandare: con quale altra filosofia è in linea di principio possibile porre limiti etici e antropologici alla tecnica, se non con la filosofia tradizionale che è rimasta attiva per tanti secoli e che non assegnava il primato al divenire e con esso alla trasformazione radicale di ogni cosa? Se l’antropocentrismo moderno non ha infine avuto l’uomo come fine e centro, ma si è consegnato alla tecnica e alla sua impersonale volontà di potenza, questo è un esito del nichilismo moderno e del suo rifiuto delle essenze.
La riflessione primaria sulla tecnica non deve speculare in primo luogo sulla eventualità che possa divampare una terza guerra mondiale, che in certo modo vi è già nelle singole guerre accese un po’ dovunque. Il problema centrale sta nella questione del necessario che la filosofia tradizionale, e specialmente la filosofia dell’essere, avevano da lungo tempo avvistato e che è andato perso in larga parte del pensiero moderno. L’ambito del necessario riguarda l’uomo e concerne la sua essenza, il suo essere un soggetto dotato di logos, ossia di ragione e discorso. La grande asserzione è che la tecnica, pur con tutta la sua volontà di potenza, è impotente dinanzi all’essenza umana: non la può cambiare poiché essa appartiene all’ambito del necessario. Possiamo allora dormire sonni tranquilli? Tutt’altro, perché la tecnica può infliggere enormi danni all’essere umano tentando vanamente di mutarne la natura e di farne un «postumano».
La filosofia «tradizionale» ha ancora molte cose da insegnare a noi postmoderni che abbiamo perso il senso della realtà. E che cos’è fondamentalmente il nichilismo se non la negazione del principio di realtà?
5. Biopolitica.
Specialmente nell’ambito bioetico e biopolitico la tecnica produce un sommovimento dei rapporti umani centrali da sempre dell’esperienza umana: mariage pour tous, uteri in affitto, fecondazione artificiale eterologa, irresponsabilità dei cosiddetti ‘donatori’, crescenti rischi di commercializzazione, richiesta pressante di sempre nuovi diritti, spostamento della generazione umana dalla procreazione alla produzione, e manomissione della categoria dell’esser-figlio, che è la più universale tra tutte: è chiaro che non tutti sono padri o madri ma rigorosamente tutti sono figli. Tuttora rimane incerto lo statuto dell’embrione umano, sempre più spesso soggetto ad una seria reificazione per la tendenza a pensarlo come un piccolo coacervo di cellule di cui si può fare quello che si vuole. Il peggioramento si rispecchia non di rado in diritto positivo, ossia in leggi, decreti, sentenze che trasformano le possibilità tecniche in diritto.
Coloro che vivevano nei primi anni ‘60 difficilmente avrebbero potuto immaginare il livello di mistificazione verso vita nascente, matrimonio e famiglia accaduta dopo pochi lustri e tuttora in corso, all’insegna di una cultura libertaria e privatizzante.
6. Custodia dell’umano e in specie della corporeità.
Non è mio intento abbassare l’umanesimo di origine platonica fiorito a Firenze nel XV secolo con Marsilio Ficino e la sua scuola e con Pico: questo umanesimo, come quello di san Tommaso d’Aquino doctor humanitatis, rappresentano un acquisto per sempre e una guida verso il domani. Ma è proprio questa forma di umanesimo, in modo tutto speciale quella dell’Aquinate, a richiamare l’attenzione sulla preziosità del corpo e ad aprire gli occhi dinanzi ai pericoli nuovi che minacciano la corporeità. La dignità dell’uomo non consiste soltanto nella sua natura intellettuale bensì pure nella sua corporeità. L’art. 32 della nostra Costituzione stabilisce: «Nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». Ad un pensiero appena un poco meditante si offre l’idea che oggi il corpo umano è esposto a profonde trasformazioni e insidie, che mettono a rischio la struttura fondamentale dell’umano.
L’umanesimo va inteso come custodia della fragilità preziosa dell’umano, e l’antiumanesimo come violenza portata a tale fragilità. Se una cosa è fragile, va custodita e ciò implica che abbia un valore da proteggere. Ciò che oggi va custodito è la corporeità quale cifra fondamentale dell’umano, che oltre a costituirci come singoli senza copie, consente la relazione e il dialogo. La corporeità è qualcosa di irriducibile e noi esistiamo in questo mondo sino a quando siamo un corpo vivente: un corpo minuscolo e quasi inapparente come nell’embrione, e perciò da custodire con somma cura, o un corpo che sta per sciogliersi dalla vita. L’umanesimo inteso come pensosa custodia dell’umano significa cura della nostra corporeità, allontanamento della violenza sul corpo e contro il corpo. La fragilità dell’umano non proviene solo dalla sua volontà debole e inclinata verso il male, o dalla sua intelligenza che manifesta un’opacità congenita verso le regioni più alte dell’essere, deriva in uguale misura dalla fragilità del corpo, esposto alle insidie della violenza, dell’età, della malattia. Non vi è prossimità e relazione reale personale se non attraverso il corpo. Ora è proprio la categoria di corporeità che viene messa a rischio dalla tecnologia e in specie dal biopotere.
Oggi esso si manifesta in specie come potere sulla generazione della vita e potere sulla fine della vita. Questo secondo potere era ben presente negli Stati e si concretava nella pena di morte; il potere sulla vita non-nata e nascente – anch’esso non certo ignoto agli antichi – è per vari aspetti contemporaneo e crescente. Potere sulla vita significa potere sui corpi. Nel XX secolo abbiamo conosciuto due forme estreme di potere sui corpi: il campo di concentramento, lager o gulag, finalizzato alle camere a gas, che assumeva la veste di un dominio pieno, assoluto e incontrastato sui corpi; e lo Stato totalitario finalizzato al controllo esteso e occhiuto del corpo sociale, dunque orientato ad ottenere corpi docili. In questi casi il potere biopolitico era in poche mani.
Attualmente siamo dinanzi ad una nuova forma di biopotere e biopolitica, quella delle società liberaldemocratiche dove lo Stato ritiene suo compito venire incontro alle più varie pretese dei singoli entro un’etica del fai da te: essa manifesta che nella sfera pubblica è sempre più raro trovare nuclei di condivisione. Vige il rompete le righe e il bricolage etico in cui i diritti dei deboli e dei senza voce contano sempre meno. Qui il potere biopolitico è nelle mani di molti, o meglio viene in maniera crescente reso disponibile a molti da un sistema industrial-economico che offre vari pacchetti per varie esigenze. Stiamo procedendo verso un pluralismo o frammentazione di permessi/divieti che non lasciano bene sperare, in quanto la frontiera tra ciò che è permesso e ciò che è vietato muta rapidamente a favore del permesso.
7. Dinanzi al tentativo di imporre un umanesimo di taglio positivistico, al traino del complesso scienza-tecnica, quanto invece risulta necessario è una critica della potenza e il governo della potenza. Di grande portata sono le parole chiaroveggenti di R. Guardini:
Perciò io credo che il compito affidato all’Europa – compito il meno sensazionale di tutti, ma che nel profondo conduce all’essenziale – sia la critica della potenza. Non critica negativa, né paurosa né reazionaria; tuttavia ad essa è affidata la cura per l’uomo, perché essa ne ha provato la potenza non come garanzia di sicuri trionfi ma come destino che rimane indeciso dove condurrà.
L’Europa è vecchia. Prima sembrava che il carattere della vecchiaia fosse marcato più fortemente sul volto dell’Asia – una volta, quando ancora si parlava della sua intemporalità. Oggi essa sembra rinnegare la sua vecchiaia e sorgere ad una nuova gioventù, certo grandiosa, ma anche pericolosa. L’Europa ha creato l’età moderna; ma ha tenuto ferma la connessione col passato. Perciò sul suo volto, accanto ai tratti della creatività, sono segnati quelli di una millenaria esperienza. Il compito riservatole, io penso, non consiste nell’accrescere la potenza che viene dalla scienza e dalla tecnica – benché naturalmente farà anche questo – ma nel domare questa potenza. L’Europa ha prodotto l’idea della libertà – dell’uomo come della sua opera –; ad essa soprattutto incomberà, nella sollecitudine per l’umanità dell’uomo, pervenire alla libertà anche di fronte alla sua propria opera.
8. Umanesimo e gender, natura e cultura.
La teoria della costruzione sociale del gender manteneva ancora una differenza tra gender e sessualità biologica, il primo farebbe parte della cultura il secondo della natura biologica. Ma poi anche la sessualità è stata ritenuta un fatto storico soggetto a relazioni di potere. In tal modo non esisterebbe più l’uomo vero o la donna vera, e neppure un ordine eterosessuale su cui si sono fondata tutte le civiltà umane. Bisognerebbe denaturalizzare il concetto di natura umana e la stessa idea del gender, e in tal modo entra in crisi l’idea stessa di ciò che è reale e di ciò che non lo è. Per i rivoluzionari in questo campo la differenza tra reale e irreale perde quasi ogni senso, e non siamo più in grado di distinguerli. Quello che abbiamo chiamato realtà per millenni e millenni non è più tale e possiamo cambiarla a nostro piacimento. L’essenza del reale come tale è storica e soggetta all’opzione umana. L’essenza del nichilismo è il rifiuto del principio di realtà, e di tale rifiuto nichilistico fa parte il congedo della nozione di natura umana. E lo stesso concetto di persona viene privato del suo riferimento al sesso. «La distinzione secondo il sesso è sempre più avvertita non come una differenza suscettibile di comportare ruoli differenti e complementari, ma come una disuguaglianza, e quindi a questo titolo iniqua». Nelle attuali società occidentali è in sviluppo un attacco esplicito al concetto di natura umana che tende a cancellare la differenza tra maschile e femminile, anche al di fuori della vita politica e professionale.
Così la democrazia viene pensata come un sistema sociale voluto e progettato autonomamente ed esclusivamente dalla volontà degli uomini, in modo indipendente da fondamentali caratteri della natura umana. La società democratica sarebbe quella che denaturalizza e prescinde dalla natura umana, e che così si gloria di fondare una società pienamente razionale; e che fondata sulla potenza della tecnica e su un’esasperata autodeterminazione individuale, vuole cancellare ogni elemento di appartenenza etnica, culturale, spirituale.
Essere per la vita include la percezione che ciascuno ha una vocazione, un compito, una responsabilità verso cui orientarsi, che comprende l’apertura all’inatteso, al dono, al futuro, allontanando la paura e l’avarizia dinanzi alla vita nuova, ossia la non-generatività spirituale e fisica. Nel film di Bergmann Il posto delle fragole (1957) vengono posti in dialettica colui che dice «Io non voglio fare figli, non capisco perché si debba mettere al mondo altra gente che poi soffrirà», e coloro – tra cui il regista – che sostengono l’importanza capitale degli affetti e l’apertura verso la vita e il prossimo.
9. Stanchezza vitale e scarsa generatività.
Occorre oltrepassare la cristallizzazione del dibattito sui valori, affidato alla ricerca di un’etica pubblica normativa costruita su diritto positivo e morale procedurale. Si tratta di un dibattito ‘eterno’ in Europa, che assorbe a tal punto le energie che non ne restano più per rivolgersi all’educazione della persona. Intanto si affievolisce la tradizione a causa del crescere di un senso individualistico della libertà: è arduo educare un soggetto che è orientato verso se stesso, e che è invitato a pensare i rapporti con gli altri come mediati da una contrattazione continua in funzione di reciproci interessi. Permaniamo in un’età caratterizzata dal primato del contratto sul patto comune, e dall’eclissi della solidarietà, in cui la proiezione verso il domani è scarsa.
Questo punto deve attirare la nostra attenzione. Non dobbiamo riscontrare una considerevole stanchezza spirituale e perfino vitale e demografica degli europei? Forse non sappiamo più guardare avanti, e il futuro crea in noi più timore che fiducia: sembriamo privi di tensione verso il domani, affaticati per un eccesso di storia. Abbiamo la sensazione di una società vecchia, che osa meno e si rinchiude, e talvolta rischia la paralisi demografica. La gioia così naturale di avere figli, di rispecchiarsi e proiettarsi in loro, di essere padri e madri, è debole nei nostri paesi. Il declino demografico è una spia di quanto accade in profondità nell’uomo: dotato di molti beni materiali, il soggetto appare come smarrito nella ricerca di se stesso e di scopi.
Commiato
La filosofia è come la sentinella che dà l’allarme prima che sia troppo tardi. Essa sembra avvertirci che, pur consci della serietà della situazione, non siamo dinanzi ad una decadenza generalizzata; invece pesa un fenomeno che riguarda prevalentemente le élites, sono loro a nutrire un senso distorto della potenza, e in loro si va diffondendo una concezione assai angusta di umanesimo e di vita umana.
Essere per la vita comporta la capacità instancabile di edificare legami buoni e di cercare di riannodarli se si fossero spezzati. In questa attività, se giunge ad un esito positivo, si perviene a quella felicità che è a misura del nostro essere uomini. I poeti l’hanno inteso forse meglio dei filosofi e teologi. Sovviene una poesia di Quasimodo che sub contraria specie allude allo stesso tema, presentando la solitudine come un male senza uscita: «Ognuno sta solo sul cuor della terra trafitto da un raggio di sole: ed è subito sera». Incisiva e potente poesia che trasmette il senso della brevità dell’esistenza, della solitudine, della speranza della felicità, della pena del vivere, della morte evocata nella metafora della sera; e che per contrasto richiama la comunità e la communio personarum come adeguato rimedio. La persona come essere per la vita raggiunge il suo grado più compiuto quando ci si innalza alla communio personarum del riconoscimento reciproco, della circolazione delle soggettività, del dono allo scoperto del proprio io.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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Appendice
Dott. Biondi: il Prof. Possenti sostiene che, se corretto con un attento recupero del personalismo, l’umanesimo può aiutare la democrazia a superare lo scacco della democrazia. Semplificando e banalizzando al massimo, secondo il Prof. Possenti il concetto di «persona» elaborato dalla tradizione personalista sarebbe universale, o quantomeno universalizzabile, e può essere dunque esteso anche ai non cristiani. Insomma, sarebbe possibile considerare gli «altri» come persone a prescindere dal fatto che essi stessi si riconoscano come «persone». Le sembra corretta questa interpretazione?
Prof. Possenti: il concetto di persona è per sua natura, ossia intrinsecamente, universale. Si applica ad ogni essere umano, qualunque sia la sua origine, etnia, sesso, religione, etc., e si determina classicamente come una sostanza individuale di natura intellettuale o spirituale (ossia dotata di ragione e linguaggio). Il concetto di persona non ha gradi per cui tutti gli esseri umani godono per natura della stessa qualità ontologica di essere persone. In tal senso i cristiani non sono più persone degli aborigeni di qualche sperduta isola del Pacifico.
A questa «scontata» considerazione si deve aggiungere che storicamente e geneticamente è nell’area del cristianesimo che è sorta e ha assunto fondamentale rilievo la nozione di persona che, partita dai grandi dibattiti cristologici e trinitari del III-V secolo (unità della sostanza divina e trinità delle persone, Padre, Figlio e Spirito Santo), si è poi in un lungo processo elaborata in rapporto all’essere umano, ed ha impregnato di sé la vicenda del pensiero filosofico. Il personalismo del XX secolo è un esempio di come la filosofia della persona propria di tale corrente sia riuscita a esercitare un importante influsso sull’idea di democrazia, sull’elaborazione dei diritti e doveri umani, sulle carte costituzionali.
La realtà della persona ha dinanzi a sé un immenso cammino: grandi civiltà come quella cinese e quella dell’induismo non sembrano averla elaborata e l’hanno incontrata in tempi recenti. Il principio-persona di per sé mira ad un’universalità sincronica e diacronica.
Un grande interrogativo è poi il seguente: quando un essere umano inizia ad essere persona? Nel volume Il Nuovo Principio Persona (Armando 2013), cui rinvio chi desiderasse approfondire la filosofia della persona nei suoi vari lati, ho risposto che l’essere umano è persona sin dal concepimento.
Dott. Biondi: mi è capitato di approfondire il concetto di «bio-potere» così come emerge dalle opere di Michel Foucault. Semplificando, leggo questo concetto come il tentativo di descrivere un sistema politico e sociale connesso con l’emergere e lo sviluppo storico delle istituzioni democratiche così come le conosciamo, che si configura come la sottomissione della fisicità del corpo, e quindi del bios, all’autorità politica.
Mi sembra però che nella formulazione del concetto, Foucault alluda al fatto che il bio-potere e la sua ascesa sia inscindibile dalla parallela affermazione nel campo della conoscenza scientifica (ovvero, del sapere e quindi del pensiero) della preminenza della domanda ontologica su tutte le altre possibili domande filosofiche. Solo questo processo in base al quale «sapere» viene a significare principalmente «saper definire l’essenza» e solo quando questo processo riesce a definire anche l’indefinibile, ovvero il Sé, «l’anima» o l’interiorità più inaccessibile dell’essere umano, il bio-potere si manifesta in tutta la sua inconciliabilità con la libertà individuale, trasformandosi in una tirannia.
Volevo chiederle se trova corretta la mia interpretazione. In secondo luogo, volevo chiederle se e quanto la sua riflessione «usa» il concetto di bio-potere o se, piuttosto, punta a decostruirlo insieme all’argomentazione che ne sostiene l’utilità critica. Infine e qualora la risposta alla precedente domanda si orientasse più verso la seconda opzione, volevo chiederle: in che senso il recupero della domanda ontologica può essere un modo per superare una «crisi» che, utilizzando il concetto di bio-potere, può dirsi connessa proprio con la predominanza della domanda ontologica nella tradizione di pensiero occidentale?
Prof. Possenti: la rischiosa realtà del biopotere si esercita sia nei confronti del singolo sia verso i raggruppamenti sociali, in ogni caso verso esseri umani ossia persone. M. Foucault nega espressamente la realtà della persona (riporto in nota un suo brano particolarmente radicale nella sua negazione). Perciò dobbiamo immaginare che il biopotere cui allude sia inteso come un potere sui corpi e forse anche sulla psiche. Detto in altri termini Foucault adotta una posizione antiumanista e spiccatamente materialista.
Detto questo la critica del biopotere moderno-contemporaneo può essere, secondo i casi, utile o necessaria, e viene praticata da non pochi (tra cui il sottoscritto), seppure secondo intenzionalità non sempre convergenti. Diventa allora largamente pregiudiziale la prospettiva antropologica e filosofica entro cui si guarda all’essere umano/persona. In vari autori contemporanei la persona viene accostata tramite un paradigma funzionale e non sostanziale.
Oggi la questione del biopotere risulta particolarmente urgente nell’ambito delle biotecnologie che esercitano un impatto profondo sulla vita umana sin dal suo sorgere, e che possono condurre a forme molto gravi di discriminazione (ad esempio mediante l’eugenetica, ma non solo). In questo cammino l’ontologia personalista e la filosofia dell’essere risultano di grande aiuto. In merito non saprei in che modo Foucault ritenga che sia accaduta una preminenza della domanda ontologica su tutte le altre domande filosofiche come inscindibile dal sorgere del biopotere.
Probabilmente assegna al termine ontologia un significato molto peculiare. Dal punto di vista della filosofia dell’essere e della sua ontologia fondamentale sembra che nel pensiero moderno sia accaduto un declino dell’ontologia. Quindi un recupero di tale ontologia non può che essere di giovamento per misurare l’ampiezza e la difficoltà dei compiti che ci sfidano e avviarli a soluzione: venire a capo del biopotere; effettuarne una critica urgente; comprendere l’immenso impatto del sistema tecnico-scientifico con la sua crescente volontà di potenza che spesso si autogiustifica e si autofonda; e in ultima analisi la responsabilità generale che incombe alla nostra civiltà di mantenere un controllo sulla tecnica e la sua potenza (questi temi sono esaminati in La rivoluzione biopolitica. La fatale alleanza tra materialismo e tecnica, Lindau, Torino 2013).
human dignity, humanism, person, relativism of values, technique.